Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti

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di Antonino La Lumia, Claudia Carmicino*

06 Ottobre 2023

E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza del 28 settembre 2023. n. 27545. Nella stessa pronuncia la Corte ha richiamato, poi, l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimi, l’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”

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Fonte: Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

 I saggi di interesse usurari – che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa – costituiscono in ogni caso importi indebiti . Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra-legale pretenderebbe per ciò stesso l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata : il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto”: è questo il principio affermato dalla Suprema Corte con la recentissima ordinanza n. 27545 del 28 settembre 2023.

La Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’annosa questione della c.d. usura sopravvenuta, con una decisione che si pone in netto contrasto con quello che, dopo la nota sentenza della medesima Corte n. 24675 del 18 luglio 2017 , sembrava l’orientamento ormai predominante.

Come noto agli operatori di settore, con tale sentenza le Sezioni Unite avevano escluso la sussistenza dell’usura sopravvenuta nei contratti di mutuo, rilevando che: “Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto”.

Era stata, quindi, esclusa la nullità sopravvenuta della clausola contrattuale di determinazione degli interessi che, originariamente sottosoglia, avessero superato in corso di esecuzione del contratto di mutuo il tasso soglia dell’usura; secondo la Corte le clausole di determinazione del tasso di interesse sarebbero pienamente legittime e l’esercizio dei diritti che discendono dal contratto non potrebbe configurare violazione del canone di buona fede.

Tale decisione aveva accesso un lungo dibattito interpretativo, considerato che parte della giurisprudenza si era spinta a ritenere estensibile anche ai rapporti di conto corrente l’inesistenza della usurarietà sopravvenuta sancita dalle Sezioni Unite della Cassazione solo con riferimento al contratto di mutuo, ritenendo che quanto affermato dalla Corte dovesse essere considerato un principio generale in materia di usura, derivante da un’interpretazione sistematica degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, c.c.

Secondo tale orientamento, quindi, nei rapporti di mutuo e in quelli di conto corrente, l’unico momento rilevante sia ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 644 c.p. sia per l’applicazione della sanzione civile disposta dall’art. 1815, comma 2, c.c., sarebbe quello della stipula del contratto, con la conseguenza che le successive variazioni dei tassi operate dalla banca sarebbe irrilevante ai fini della nullità previste dalla legge.

Tale impostazione viene ribaltata dalla Corte che, nella fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento, cassa la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, confermando la sentenza di primo grado emessa in esito a un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva respinto l’eccezione di usurarietà del tasso di interesse debitorio applicato in corso di rapporto (ritenendo che gli attori non avevano allegato specificatamente né che tali interessi fossero frutto di una diversa pattuizione, né che la pretesa fosse contraria a buona fede) e aveva rigettato la richiesta dell’attrice di portare in compensazione con quanto dovuto alla banca gli importi ultralegali accertati dalla consulenza tecnica espletata in giudizio.

L’ordinanza in commento giunge ad affermare proprio in relazione ad un rapporto di conto corrente che “… è illegittima la pretesa della banca in relazione all’importo (individuato dal CTU) eccedente la soglia di usura, anche se i saggi di interesse usurario sono sopraggiunti in corso di rapporto”.

Il Supremo consesso afferma, quindi, che gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti, con la conseguenza che il creditore che pretenda il pagamento di interessi divenuti ultralegali nel corso del rapporto richiederebbe l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata; il suo comportamento sarebbe, infatti, contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto.

Tale interpretazione è in linea con la necessità che gli intermediari, quali operatori qualificati, abbiano contezza – in virtù degli strumenti di rilevazione e di controllo normalmente adottati nell’esercizio dell’attività bancaria – quando il rapporto è venuto, in un certo momento, a oltrepassare la soglia vietata: perciò, se non intervengono tempestivamente per adottare le misure di rimedio (continuando ad applicare e variare unilateralmente tassi e condizioni economiche) è arduo sostenere che stiano mantenendo una condotta conforme al canone di buona fede o che le eventuali illiceità commesse non abbiano rilevanza ai fini delle sanzioni fissate dall’ordinamento.

Con la citata sentenza n. 24675 del 18 luglio 2017, la Suprema Corte ha soltanto ribadito un principio, secondo cui il superamento del tasso soglia non comporta l’azzeramento degli interessi, quando si verifichi – successivamente alla stipula del contratto di mutuo – soltanto in due ipotesi: quando il contratto sia stato stipulato in periodo antecedente all’entrata in vigore della normativa antiusura (L. 108 del 1996) oppure quando – in corso di rapporto – il tasso soglia diminuisca e, per effetto di questa discesa, il tasso del finanziamento (nel frattempo rimasto fisso) diventi usurario.
Altra fattispecie è quella relativa ai contratti di conto corrente che deriva dalle modifiche unilaterale delle clausole contrattuali da parte della banca.

La Suprema Corte ha, poi, richiamato l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimil’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”.

Fatta tale premessa e rilevato che, nella fattispecie in esame, gli attori avevano allegato all’atto di citazione perizia di parte, nella quale il tecnico aveva indicato i saggi di interesse applicati dall’Istituto nel corso del rapporto nel periodo contestato, i giudici hanno affermato il principio secondo cui “In caso di azione giudiziaria con la quale si contesta mediante dettagliata relazione peritale l’applicazione di saggi di interesse illegittimi nel corso di rapporti bancari, per l’istituto bancario convenuto, che intenda contestare il computo dei saggi, non è sufficiente una contestazione generica , che faccia riferimento all’art. 115 c.p.c., ma è necessaria l’indicazione dei saggi che, in tesi difensiva, sarebbero stati effettivamente applicati .

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*A cura dell’avv. Antonino La Lumia e dell’avv. Claudia Carmicino – Lexalent

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Legge delega fiscale – Riscritta la disciplina dell’autotutela in campo tributario: i limiti della riforma

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di Beatrice Fimiani, Davide Landa*

27 Ottobre 2023

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Fonte: Legge delega fiscale – Riscritta la disciplina dell’autotutela in campo tributario: i limiti della riforma | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

In base allo schema di decreto legislativo delegato, il Governo introduce finalmente l’obbligatorietà dell’esercizio del potere di autotutela.

A ben vedere, il Legislatore delegato introduce una vera e propria distinzione tra i casi in cui l’esercizio del potere di autotutela diverrebbe obbligatorio e i casi in cui, viceversa, detto potere darebbe luogo ad un esercizio meramente facoltativo.

Al di là della poco felice formulazione normativa che punterebbe, a stretto rigore, su un ossimoro giuridicamente improprio (“l’obbligo di autotutela”), la disposizione licenziata dal Governo sembrerebbe introdurre, piuttosto, l’ “obbligo di provvedere” – anche senza necessità di istanza di parte – nei casi in cui la discrezionalità dell’Amministrazione Finanziaria dovrebbe necessariamente recedere di fronte a fatti che rendono manifestamente illegittima la pretesa impositiva.

Tuttavia, sembrerebbe che la riforma sia stata poco coraggiosa poiché è evidente che l’ “obbligo di provvedere” imposto dal Legislatore delegato non pregiudica l’esistenza di un potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria, il quale potrebbe essere, al limite, valutato sotto il profilo della responsabilità contabile e solo per le ipotesi specificatamente sorrette da dolo. Oltre queste ipotesi, dunque, permane intatta la prerogativa della discrezionalità amministrativa, la quale pure potrebbe risolversi in un esercizio negativo del potere di autotutela ovvero in un vero e proprio diniego di autotutela, sia esso esplicito ovvero implicito.

A questo punto, resterebbe intatto l’interrogativo circa i possibili rimedi avverso l’esercizio negativo del potere di autotutela, posto che la norma nulla prevederebbe al riguardo. Non è previsto infatti espressamente il potere di impugnazione del diniego espresso di autotutela ma nemmeno il potere di impugnazione del diniego tacito di autotutela o meglio non è previsto un espresso rimedio rispetto alla mancata osservanza dell’obbligo di provvedere.

In questo senso, l’operazione normativa – lodevole sotto il profilo delle finalità – di voler sostituire le parole “ può procedere in tutto o in parte all’annullamento ” con le parole “ procede in tutto o in parte all’annullamento ” appare svuotata della sua (almeno nelle intenzioni) portata innovativa.

Pertanto, rispetto ai possibili vuoti di tutela cui l’introduzione dell’obbligatorietà era preordinata, occorrerà ancora una volta fare ricorso ai principi generali già affermati dalla giurisprudenza della Suprema Corte (v. ex multis, Cass. civ., Ordinanza n. 7318/2022 del 7 marzo 2022 ) e della Corte Costituzionale (v. sentenza Corte Cost. n. 181/2017 del 21 giugno 2017 ), laddove l’impugnabilità del diniego di autotutela è in principio ammissibile nella misura in cui si assuma la violazione di un rilevante interesse di portata generale e che spinge, inevitabilmente, ad una non sempre facile valutazione di bilanciamento, avuto riguardo al caso concreto, tra l’interesse alla corretta esazione dei tributi e l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici.

A ben vedere, dunque, la riforma non risolve i problemi che l’istituto recava (e tutt’ora reca) con sé nella misura in cui la norma non si spinge (purtroppo) sino al limite di voler trasformare il procedimento di autotutela, per sua intima natura officioso e discrezionale, in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso.

Al di là di queste considerazioni, la novellata disciplina nell’abrogare espressamente le precedenti fonti di disciplina dell’istituto in discorso (i.e. l’art. 2-quater del D.L. n. 564/1995 ed il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37), dimentica, in maniera grave, di riproporre quelle norme disciplinanti espressamente l’istituto della sospensione amministrativa, di definizione agevolata delle sanzioni, per il caso di revoca e/o annullamento parziale dell’atto impositivo, alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell’atto originario, oltre alla disciplina sul divieto di autonoma impugnabilità degli atti di annullamento o revoca.

Trattasi di istituti introdotti con D.Lgs. n. 159/2015, già frutto di una faticosa elaborazione operata in sede di attuazione della precedente legge delega di riforma del sistema fiscale (legge 11 marzo 2014, n. 23), che aumentavano di misura o quantomeno chiarivano espressamente il livello di tutela cui il contribuente poteva fare affidamento e che, auspicabilmente, non possono non trovare ulteriore replica nel novellato istituto del procedimento di autotutela.

L’impressione, più in generale, è che la ben più articolata disciplina previgente, a prescindere dalla previsione di obbligatorietà di provvedere e pur con i limiti sin qui accennati, offrisse – nel suo concreto dispiegarsi – maggiori spazi di tutela del contribuente.

La nuova disciplina – pure ispirata da lodevoli intenzioni – non coglie dunque perfettamente nel segno ed è pertanto auspicabile che il Legislatore delegato vi ponga quanto prima rimedio.

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*A cura dell’ Avv. Beatrice Fimiani, Partner e dell’Avv. Davide Landa, Senior Associate – CMS Studio Legale Tributario

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