DA ORDINE COSTITUZIONALE A LOGGIA INCONSTITUZIONALE

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(Articolo di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno)

Riforma del Csm, Unicost: “No assoluto al sorteggio” – Il Dubbio

Quando il “quarto potere”, come lo definì il grande regista Orson Welles nel suo famoso cult-movie, ossia la stampa, si prodiga a parlare di tutto (anche di personaggi discutibili per la loro sedicente arte canora, come il caso Fedez e la sua polemica sulla presunta censura da parte della Rai), tranne che del caso Palamara e del suo prosieguo, ossia il caso Amara, allora significa che il regime è perfetto in ogni sua repressiva declinazione ed il suo pensiero unico rasenta livelli inimmaginabili, anche per illustri visionari come fu il letterato George Orwell.

Per usare una suggestiva figura retorica come l’ossimoro, il silenzio assordante della nostrana stampa riguardo alla sconcertante denuncia di corruzione nei confronti di una parte rilevante dell’Ordine costituzionale della Magistratura, impone un’approfondita riflessione sul momento critico che sta attraversando il nostro sistema democratico, con tutti i suoi pesi e contrappesi costituzionali e della conseguente destabilizzazione dell’ordine costituito.

Premesso ciò, entriamo nel merito della questione, dunque, il procuratore milanese Storari interrogando l’avvocato Amara, il teste chiave del processo Palamara, emergono dei fatti a dir poco sconcertanti, che riguardano magistrati, l’ex premier Conte, svelando l’esistenza di una Loggia (tipo P2) denominata “Ungheria”, forse con riferimento toponomastico a piazza Ungheria di Roma.

Il Pm Storari trovando inspiegabili ostacoli durante le sue indagini, si vede costretto a consegnare l’intero suo fascicolo d’indagine a colui che allora era un consigliere del Csm, ossia Piercamillo Davigo, allora anche esponente della corrente di maggioranza “rosso-bruna” predominante nel Consiglio Superiore della Magistratura.

Davigo tranquillizza Storari dicendogli che questo suo fascicolo lo avrebbe consegnato a chi di dovere.

Dal quotidiano “Il Fatto Quotidiano” emerge che il destinatario sarebbe stato niente poco di meno che il presidente della Repubblica Mattarella, nonché, secondo la Costituzione, presidente dello stesso Csm.

Successivamente la segretaria di Davigo furtivamente consegna il plico, commettendo così un reato, sia al giornale “la Repubblica” che al giornale “Il Fatto Quotidiano”.

Le due testate, invece di pubblicare le informazioni scandalose, riscopre il rispetto del segreto  giudiziario ed evitano di pubblicare alcunché, dopo che nella loro storia entrambi i quotidiani si sono contraddistinti per aver pubblicato intercettazioni coperte da segreto….

Se fosse accertata la veridicità di questa notizia, emergerebbe uno scandalo epocale, perché ci sarebbe anche una complicità del Capo dello Stato nell’occultare questa indagine.

Infine lo stesso magistrato Nino Di Matteo avrebbe ricevuto una copia di questo fascicolo da un mittente anonimo ed egli dopo qualche giorno ha denunciato il fatto, derubricando arbitrariamente il fascicolo ricevuto come calunnie.

In una nazione veramente democratica e liberale, le principali testate giornalistiche avrebbero dovuto indagare e porre delle questioni di fondamentale importanza per uno stato di diritto, ovvero cercare di capire chi fossero i componenti di questa Loggia e le conseguenze giudiziarie, che tale caso esige, nei confronti dei magistrati coinvolti e capire perché il magistrato Davigo, anche e soprattutto, come consigliere del Csm non abbia consegnato il plico in questione al Consiglio Superiore della Magistratura,  condotte che se riconosciute colpevoli, potrebbero configurare i reati di rivelazione di ufficio ex art. 326 c.p., omessa denuncia ex art. 361 c.p., il reato di abuso di ufficio ex art.  323 c.p. e anche di favoreggiamento ex art. 378 c.p.

Dopo il caso Palamara, che con il suo libro ha dato un quadro devastante di come è gestito l’ordine della magistratura, ora di fronte a questo nuovo caso, di fronte alla presunta esistenza di questa “loggia Ungheria” non possiamo non prendere atto di quanto in Italia il potere giudiziario sia ormai marcio, non solo per la dilagante corruzione esistente al suo interno, ma anche e soprattutto perché evidenzia una sua pericolosissima mutazione, che compromette l’equilibrio del sistema costituzionale, fondato sulla divisione (risalente a quella di Montesquieu) dei tre poteri indipendenti tra loro, il potere legislativo, il potere esecutivo ed il potere giudiziario.

Questa deleteria e progressiva trasformazione della magistratura è stata alimentata dallo sconfinamento funzionale del Csm, che da originario organo di autogoverno e di controllo dei magistrati è finito per diventare un appendice prevaricante del Parlamento, una sorta di “terza camera”, da cui impartire i principi ispiratori e condizionanti l’attività legislativa, un potere sconfinato anche grazie al vuoto lasciato dalla crisi del sistema dei partiti, venutosi a creare a partire da Tangentopoli e che progressivamente ha compromesso il principio basilare per ogni democrazia liberale che si rispetti, ossia quello della separazione dei poteri, oltre al fatto che un ordine costituzionale che non prevede la divisione delle carriere tra pm e giudici, non può evitare alcun conflitto d’interesse tra i magistrati e neanche una condizione di inferiorità processuale per la difesa a confronto con l’accusa, visto che il pm è un diretto collega del magistrato giudicante.

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Autonomia contrattuale, buona fede e contratti internazionali, una lettura in prospettiva comparata.

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(Articolo di Francesca Zignani)

Il Contratto Internazionale I - Studio Legale Fede

Il cammino delle istituzioni comunitarie verso il raggiungimento degli obiettivi economico–sociali del Trattato ha beneficiato, nel corso degli ultimi due decenni, di un’improvvisa accelerazione: all’attenzione verso il singolo intervento comunitario, direttiva o regolamento si affianca un interesse sempre crescente per l’incidenza, per così dire, indiretta dell’atto normativo, il quale viene ad investire, con effetti spesso dirompenti, istituti e principi tradizionali del nostro sistema giuridico.

Tale processo ha interessato significativi settori del diritto privato, venendo ad incidere, con particolare forza, sulla disciplina dei contratti, a volte abrogando discipline previgenti, con le quali si è posto in rapporto di insanabile contrasto, più di frequente affiancando norme sedimentate, ma ponendo all’interprete il difficile compito dell’interpretazione e del coordinamento tra fonti ispirate a regole e principi generali difficilmente riconducibili a sistema.

Il principio di autonomia contrattuale con l’aumentare del volume e del tipo degli scambi ha conosciuto, col placet degli Stati, una forte espansione di tipo multidimensionale. Non pare inutile precisare che quando si parla di contratto occorre indagare se si tratti di contratto interno od internazionale, poiché l’autonomia della volontà delle parti acquista diversa efficacia a seconda che si tratti dell’uno tipo e dell’altro. Nel caso di un contratto internazionale, a differenza di quanto avviene per i contratti interni, le parti possono proiettare la loro volontà, sia nel contesto della determinazione del diritto applicabile al rapporto giuridico che le lega, sia nella sfera processuale pattuendo, ex ante, lo stesso modo di risoluzione delle eventuali controversie.

Nell’ordinamento italiano, per il principio di autonomia contrattuale sancito dagli artt. 41 cost e 1321 c.c., le parti sono libere di costituire, regolare od estinguere dei rapporti giuridici patrimoniali di diritto interno. L’autonomia privata, nel rispetto delle norme imperative, dell’ordine pubblico e del buon costume si proietta secondo tre direttrici fondamentali: 1) autonomia nella scelta di un contratto tipico; 2) autonomia di determinare il contenuto del contratto; 3) autonomia di concludere contratti atipici.

Nella prima accezione, l’autonomia della volontà è intesa come libertà delle parti di scegliere fra i diversi tipi contrattuali disposti dalla legge (ad esempio vendita invece di somministrazione o di permuta etc.); nella seconda accezione, l’autonomia dei contraenti si concretizza nella libera determinazione di alcune clausole del contratto, ad esempio determinando il prezzo della vendita o i termini di consegna della cosa venduta. Infine, nella terza accezione, l’autonomia esprime la libertà di concludere contratti atipici o innominati, cioè contratti diversi dai tipi previsti dal codice civile e dalle leggi speciali. E su quest’ultima tipologia di libertà/autonomia si innesta, in parte, il principio della lex mercatoria, in forza della quale trovano riconoscimento giuridico “interno” quei modelli contrattuali internazionalmente diffusi, ideati e praticati nel mondo degli affari. In tale contesto, gli articoli 1322 e 1323 c.c. assolvono ad una funzione ben precisa: quella di impedire al giudice interno di dichiarare nullo un accordo per il solo fatto che esso non rientri in nessuno dei tipi declinati dalla lex fori.

Strettamente connesso alle tematiche dell’autonomia contrattuale e, segnatamente, di quella europea e internazionale è il principio di buona fede. In via preliminare, è opportuno precisare che diritto europeo dei contratti è costituito da due componenti distinte. La prima componente può essere definita come lo ius Communitatis, ossia il diritto della Comunità Europea, le cui direttive hanno intensamente armonizzato gli ordinamenti giuridici nazionali in materia contrattuale. La seconda componente può essere invece definita come lo ius commune cosiddetto modernum, ossia il diritto comune agli ordinamenti giuridici degli Stati europei: esso deriva largamente da quel diritto romano che in tali Stati fu applicato nel Medio Evo e poi oltre, fino alle grandi codificazioni nazionali dell’Ottocento (lo ius commune, appunto). E come lo ius commune del passato si è storicamente sviluppato sulla base del Corpus iuris Civilis, così quello modernum è stato in qualche modo codificato o almeno fissato in una grande compilazione: i Principless of European Contract Law, redatti dalla Commissione presieduta dal Prof. Ole Lando.

L’articolazione del diritto europeo dei contratti nelle due componenti dello ius Communitatis e dello ius commune modernum risulta particolarmente significativa a proposito del principio di buona fede, di fondamentale rilievo nella tematica contrattualistica, e non solo. Per un verso, infatti, non si può non rilevare che la buona fede contrattuale si è affermata come un principio generale tanto dello ius Communitatis, quanto dello ius commune modernum: si tratta di una comunanza che non è causale, ma conferma la confluenza di tali corpi di norme giuridiche in un sistema più vasto, che si può convenientemente definire come il diritto europeo dei contratti.

Una lettura politica forte del rapporto tra ius Communitatis, e ius commune modernum è preclusa dal fatto che entrambi costituiscono l’espressione di una cultura liberale, che punta a tutelare l’interesse generale, anziché quello di un gruppo o di una classe sociale. Per altro verso, si deve ammettere che il principio generale di buona fede assume nello ius Communitatis da un lato, e nello ius Commune modernum dall’altro un significato e una portata operativa nettamente diversificati dal punto di vista tecnico-giuridico, secondo quanto si dirà meglio nel prosieguo: se ne desume che lo ius Communitatis e lo ius commune modernum confluiscono nel diritto europeo dei contratti, ma non sono omogenei nella loro natura, né sovrapponibili nella loro funzione. Si rende quindi necessario esaminarli separatamente, sia pure nei brevi limiti del tempo concessomi.

Nei Princpless of European Contrasct law la buona fede è richiamata assai insistentemente, più di quanto non accada in qualsiasi codice civile nazionale (fermo restando che il caso limite è costituito dal nuovo codice civile olandese, il quale ha consapevolmente scelto di omettere qualsiasi riferimento alla buona fede contrattuale, sostituendolo con quello alla ragionevolezza, di cui si dirà fra poco).

Più precisamente, la formulazione letterale dei Principless si riferisce sempre alla buona fede e alla correttezza insieme, con una formula linguistica che richiama forse quella tedesca di Treu und Glauben. Nel commento della Commissione all’art. 1:201 PECL, che esaminerò fra poco, si afferma che: “La buona fede significa atteggiamento di onesta e correttezza come categorie soggettive (…)’ Correttezza’ significa correttezza secondo un parametro oggettivo (…)”.

Oltre che nella classica ipotesi della culpa in contraendo (art. 2:301 PECL), la buona fede e la correttezza compaiono in numerosi contesti specifici,ad es., per far emergere le clausole tacite (art. 6:102 PECL) ovvero, ai fini dell’azione di annullamento, per valutare se l’errore di una parte sia stato scientificamente taciuto dall’altra (art. 4: 103 (1) (a) (i) PECL. Particolarmente significativa è poi la previsione secondo cui, se una parte si è approfittata della situazione di dipendenza ovvero della fiducia o della debolezza soggettiva dell’altra parte, quest’ultima, anziché esercitare l’azione di annullamento, può domandare al giudice, ove il rimedio sia adeguato, di “modificare il contratto nel rispetto della buona fede e della correttezza” (art. 4: 109 PECL).

Ma, com’è espressamente affermato nel Commento della Commissione all’art. 1: 201 PECL, il principio della buona fede contrattuale è più ampio di ognuna delle sue specifiche concretizzazioni scritte.

L’art. 1:201 PECL statuisce che “le parti devono agire nel rispetto della buona fede e della correttezza”, enunciando così un dovere generale (che fra l’altro, com’è espressa prevista dal punto (2), non può essere escluso o limitato dalle parti stesse). La buona fede contrattuale rileva qui come precetto, come regola di comportamento indirizzata alle pari contraenti: esse devono comportarsi con lealtà, principalmente nella fase delle trattative e della conclusione del contratto.

Tale dovere delle parti è integrato da quello di cooperare reciprocamente al fine di dare piena esecuzione al contratto. Sebbene i Principless abbiano previsto tale obbligo di cooperazione (art. 1:202) separatamente da quello di correttezza e buona fede (art. 1: 201), esso è pur sempre riconducibile al principio generale della buona fede contrattuale, così come esso più intensamente rileva nella fase esecutiva del contratto. Si può quindi dire che il dovere delle parti di comportarsi secondo buona fede si specifica nei canoni nella lealtà e nella salvaguardia dell’altrui interesse, nei limiti in cui essa non importi un apprezzabile sacrificio.

Ma la disposizione più significativa è quella dell’art. 1: 102 PECL, il quale, dettando la definizione stessa dell’autonomia contrattuale, afferma testualmente che essa deve svolgersi “nel rispetto della buona fede e della correttezza nonché delle norme imperative contenute nei Principi”.

Nei Principless of European Contract law, dunque, la buona fede contrattuale è un dovere generale a carico delle parti contraenti, ma prima ancora essa individua il fondamento sostanziale dell’autonomia contrattuale. Il contratto non è un gioco linguistico autoreferenziale, ma la rappresentazione ideale di una realtà: lo scostamento di tale realtà dall’accordo tra le parti contraenti, pone un’esigenza di tutela che deve essere soddisfatta dal diritto. La buona fede si manifesta qui in un’eccezione intensamente rimediale, che attiene ai mezzi di tutela o alle azioni esperibili dalle parti contraenti.

Nei Principless of European Contract Law la buona fede contrattuale ha semplicemente la funzione di proiettare il regolamento contrattuale concordato dalle parti contraenti al di là dei casi che esse si sono prefigurati, estendendo la sua logica ad es., al mutamento delle circostanze di fatto. In altri termini, la buona fede contrattuale è qui uno strumento di auto integrazione del contratto, che non limita l’autonomia contrattuale, ma ne rafforza la logica intrinseca; essa non corregge, ma aiuta e sostiene la volontà delle parti contraenti.

Uno scenario radicalmente diverso si rinviene invece nel ius Communitatis. La disposizione più significativa è indubbiamente quella dettata dalla direttiva n. 13 del 1993: sono abusive, e perciò inefficaci, le clausole, che, in violazione del principio di buona fede, determinano un significativo squilibrio di diritti e di obblighi contrattuali a svantaggio del consumatore.

La buona fede contrattuale svolge qui una funzione radicalmente diversa da quella che è stata esaminata a proposito dei Principless, poiché essa pone eteronomamente un limite alla libertà contrattuale di una delle parti contraenti (il professionista). Proprio per questa ragione, essa non può più essere ricondotta alla volontà stessa delle parti contraenti, né a uno standard sociale di comportamento, ma è costituita invece dai principi inderogabili del diritto comunitario in materia economica, i quali convergono nella “decisione di sistema” a favore del mercato aperto e della libera concorrenza. E’ appunto su tali principi sostanzialmente costituzionali che la buona fede contrattuale si fonda e si giustifica nel diritto comunitario.

Come il diritto comunitario della concorrenza rimedia al più evidente e grave paradigma di “fallimento del mercato” (quello riconducibile alla tematica antitrust), così il diritto comunitario dei contratti rimedia all’esistenza di una strutturale e ineliminabile asimettria informativa tra le parti contraenti, che determina anch’essa il fallimento del mercato, e anzi in misura sempre crescente nell’evoluzione dell’economia capitalistica.

In tale ambito, la buona fede contrattuale concorre a delimitare le “mosse ammesse” nel gioco competitivo, vietando al professionista di abusare del mercato, e di distruggere così il benessere economico e sociale della collettività.

Affinché il mercato svolga la sua connaturata funzione allocativa, necessario che l’ordinamento giuridico intervenga per ripristinare l’autodeterminazione o sovranità economica del consumatore, il quale potrà così liberamente e consapevolmente scegliere quella più vantaggiosa tra le offerte dei professionisti concorrenti.

In conclusione, si può dire che lo ius Communitatis è costituito da quelle norme inderogabili che sono necessarie al fine di prevenire e superare il fallimento del mercato, principalmente nel caso di un’asimmetria informativa tra le parti contraenti. La buona fede contrattuale giunge a svolgere qui una funzione correttiva dell’autonomia contrattuale, ponendo un limite alla libertà del professionista, al fine di tutelare il mercato e la concorrenza.

Lo ius commune modernum, viceversa, può essere concepito come un corpus di norme rimesse alla libertà di scelta delle parti contraenti: esso è finalizzato quindi non già a limitare la libertà contrattuale, bensì a sostenere e corroborare il suo esercizio. La buona fede contrattuale sere qui per potenziare il regolamento d’interessi pattuito tra le parti contraenti, estendendone l’applicazione secondo il meccanismo dell’analogia.

Una comparazione tra la disciplina del contratto interno e quella del contratto internazionale evidenzia la più grande estensione del principio di autonomia contrattuale internazional-privatistica rispetto a quella ammessa dal legislatore nazionale. Difatti, le istanze provenienti dal commercio internazionale, hanno sospinto i singoli Stati verso la ricerca di una progressiva diversificazione della disciplina dell’autonomia contrattuale. Mentre nell’esercizio dell’autonomia contrattuale “interna” le parti non dispongono in ordine alla legge applicabile, nei contratti internazionali la volontà delle parti si proietta anche nella sfera della determinazione della giurisdizione, prima ancora che della lex contractus.

Proiettata nella prospettiva internazionalprivatistica, l’autonomia contrattuale di diritto interno – intesa come libertà di scegliere un contratto tipico, di determinarne il contenuto nonché di concludere contratti atipici – si arricchisce di un’ulteriore dimensione, quella conflittualistica. In tale contesto, la volontà funge da criterio di collegamento e, all’interno del contratto transnazionale, la sua funzione si estrinseca nell’individuare l’ordinamento “entro cui” e alla “cui stregua” delimitare il contenuto e l’esatta estensione delle obbligazioni delle parti.

Esigenze di certezza del diritto hanno condotto gli Stati membri della UE ad uniformare le norme di conflitto in materia di obbligazioni contrattuali mediante il varo della convenzione di Roma del 19 giugno 1980.

Così, in materia di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, il giudice interno di uno Stato che ha ratificato la convenzione di Roma del 1980 applicherà le norme di conflitto uniformi contenute nella convenzione stessa. Nelle materie rientranti nel proprio ambito di applicazione, la convenzione di Roma fissa all’art. 3 il principio di autonomia contrattuale, principio che esprime tutto il proprio vigore nell’ambito dei contratti business to business. In base ad esso il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti”, con ciò intendendosi che la libertà di scelta della lex contractus, ad opera dei contraenti, può investire qualsivoglia ordinamento statale – pure uno Stato non contraente ai sensi dell’art. 2 – anche non oggettivamente collegato alla fattispecie, fatto salvo il correttivo a scopo “antielusivo” di cui al par. 3. Inoltre, nell’art. 15 della convenzione medesima si precisa che l’ordinamento statale richiamato va inteso riferito esclusivamente alle norme giuridiche materiali in vigore, escludendo dall’ambito dell’autonomia contrattuale l’ipotesi dell’electio iuris di un diritto abrogato nonché il c.d. rinvio. La medesima convenzione prevede anche la possibilità di scelte parziali nel quadro del cd. depeçage che porta alla diversificazione delle leggi applicabili a clausole o a gruppi di clausole contrattuali.

Quanto alle modalità della scelta della lex contrasctus, oltre all’opzione positiva espressa viene prevista anche quella nella forma implicita, se la manifestazione di volontà in ordine all’electio iuris risulti “in modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze”.

Quanto al momento della scelta questa può intervenire pur dopo la conclusione del contratto, nella misura ciò costituisca espressione della volontà comune dei contraenti e non di quella di uno di essi.

In caso di assenza di scelta (esplicita o implicita) della lex contracts, soccorrono altre norme della convenzione di Roma, le quali sottopongono la fattispecie contrattuale all’ordinamento del Paese con il quale presenta il collegamento più stretto. Segue un sistema di presunzioni volte a permettere la non sempre agevole individuazione, in relazione ai criteri del luogo di residenza abituale o della sede dell’amministrazione centrale della parte che deve fornire la prestazione caratteristica.

Meritano menzione le disposizioni della convenzione di Roma in materia di contratti conclusi con i consumatori, nonché di contratti di lavoro ove le parti abbiano manifestato la loro volontà di designare la lex contractus. Per quei rapporti, valgano considerazioni diverse rispetto a quelle sopra precisate all’art. 3 della convenzione di Roma. A differenza delle soluzioni precedentemente evidenziate rispetto ai contratti B2B, qui la sfera di autonomia contrattuale viene compressa al fine di realizzare forme di tutela del contraente debole, cioè, rispettivamente, consumatore e lavoratore.

Inoltre, la tutela internazionalprivatistica del contraente debole si realizza, oltre che attraverso le norme di conflitto di legge, anche attraverso quelle relative alla competenza giurisdizionale contenute nel reg. (CE) N. 44/2001.

I contratti internazionali del consumatore vengono definiti alla stregua di quei rapporti aventi per oggetto la fornitura di beni mobili materiali o di servizi (e i contratti destinati al finanziamento di tali forniture) per un uso che può considerarsi estraneo all’attività professionale. Per tali rapporti, ai sensi dell’art. 5 della convenzione di Roma e in deroga al precitato art. 3, la scelta ad opera delle parti della legge applicabile non può aver per risultato di privare il consumatore della protezione garantitigli dalle disposizioni imperative della legge del Paese nel quale risiede abitualmente. Soluzione che si allinea con quella già prevista dagli artt. 13 e ss. della convenzione di Bruxelles ed ora presente agli artt. 15-17 del reg. n. 44/2001 realizzando così un coordinamento tra i criteri per individuare il giudice competente e la legge applicabile.

Ma la tutela internazionalprivatistica del consumatore, alla stregua del citato art. 5, viene prevista solo in ipotesi ben circoscritte che, peraltro, solo apparentemente appaiono superate dall’avvento del commercio elettronico, fenomeno sostanzialmente sconosciuto ai tempi in cui la convenzione di Roma venne negoziata.

Anche in un contesto off line il principio di autonomia contrattuale viene compresso per permettere l’applicazione delle norme imperative di tutela vigenti nell’ordinamento in cui il di fuori di tali fattispecie – si pensi solamente al consumatore che si reca sua sponte in un altro Paese per concludere un contratto – l’autonomia delle parti riprende vigore rimanendo comunque soggetta ai più ampi limiti delle norme di applicazione necessaria ex art. 7 della convenzione di Roma.

Un modello di tutela analogo a quello appena descritto viene contemplato per il contratto individuale  di lavoro, anche qui l’opzione delle parti circa la lex contractus non vale a privare il lavoratore della protezione assicurategli dalle norme che regolerebbero il contratto in cui il lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro, ovvero la legge del Paese in cui si trova la sede che ha assunto il lavoratore,  ovvero il paese del luogo con il quale il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto . In tutte queste ipotesi l’autonomia contrattuale subisce sempre gli ulteriori limiti delle norme di applicazione necessaria e dell’ordine pubblico internazionale.

Deriva che, qualora si ammetta all’interno nella nozione di “diritto straniero” richiamato dalle norme di conflitto del regolamento comunitario, destinato ad assorbire la convenzione di Roma, la lex mercatoria e i Principi Unidroit, ne seguirebbe che scelta del diritto applicabile sarebbe comunque soggetta alle norme imperative. A conferma soccorre, fra l’altro, l’art. 1.4 dei principi Unidroit 1994 (anche nella versione del 2004), secondo il quale nessuna disposizione di questi principi è intesa a limitare l’applicazione delle norme imperative di origine nazionale, internazionale sovranazionale, applicabili secondo le norme di diritto internazionale privato.

Soccorre pure, su scala internazionale regionale, l’art. 1.103 dei PECL che, sebbene con formulazione ambigua, stabilisce che quando la legge applicabile lo consente, le parti possono decidere che il contratto sia regolato dai Principi: in tal caso le norme imperative nazionali non sono applicabili. In ogni caso troveranno applicazione quelle norme imperative della legge nazionale, del diritto sovranazionale e internazionale la cui applicabilità, secondo le norme proprie di diritto internazionale privato, non dipende dalla legge che regola il contratto. Comunque troveranno applicazione quelle norme imperative della legge nazionale, del diritto internazionale e sovranazionale la cui applicabilità, secondo le norme proprie di diritto internazionale privato, non dipende dalla legge che regola il contratto.

Va ricordato, altresì, che un ulteriore limite all’autonomia privata è imposto dalla clausola generale dell’ordine pubblico.

Nella teoria generale del diritto internazionale privato, le norme a tutela dell’ordine pubblico costituiscono un’eccezione alle norme di conflitto della lex fori, essendo poste esclusivamente a difesa degli interessi fondamentali dello Stato.

Purtuttavia, anche l’ordine pubblico costituisce una variabile comparatistica trattandosi, in definitiva, dell’ultimo baluardo dell’ordinamento statale opponibile al tentativo d’ingresso di valori e di soluzioni con esso confliggenti. Per ciascuno Stato vale un concetto distinto dell’ordine pubblico e inesorabilmente destinato a variare nello spazio e nel tempo.

Nel nostro ordinamento, la nozione di ordine pubblico internazionale ha origine giurisprudenziale e presenta una progressiva tendenza evolutiva.

Le norme di ordine pubblico si differenziano da quelle di interesse privato, perché, mentre le prime sono inderogabili, le altre possono essere derogate dalla volontà dei singoli.

L’evoluzione giurisprudenziale della nozione dell’ordine pubblico internazionale può farsi risalire all’inizio degli anni ’80, quando la Cassazione ebbe a precisare che, a differenza dell’ordine pubblico interno, attinente all’insieme delle norme imperative, quello internazionale attiene a principi generali che sono espressione di esigenze fondamentali della società destinate a variare secondo il momento storico in cui si tratta di tenerne conto.

Emblematica di questo filone interpretativo è la sentenza dell’8 gennaio 1991, n. 189 con cui la Suprema corte ha definito l’ordine pubblico interno come il complesso dei principi fondamentali caratterizzanti la struttura etico sociale della comunità nazionale in un dato momento storico, distinguendo da esso l’ordine pubblico internazionale che è costituito dai principi comuni alle nazioni di civiltà affine, intesi alla tutela di alcuni diritti fondamentali dell’uomo. Tali principi risultano sanciti in Dichiarazioni o accordi internazionali quali, ad esempio, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 4 novembre 1950, il Patto internazionale del 16 dicembre 1966 relativo ai diritti civili e politici nonché quello relativo ai diritti economici, sociali e culturali.

Viene ulteriormente precisato che, mentre l’ordine pubblico interno costituisce un limite all’autonomia privata nell’ordinamento giuridico nazionale, quello internazionale rileva come limite all’applicazione di norme straniere operanti nel nostro ordinamento per mezzo delle disposizioni di diritto internazionale privato. La mera difformità delle norme straniere (incluse per ipotesi quelle ascrivibili alla lex mercatoria) da quelle italiane, incluse quelle incarnanti l’ordine pubblico interno, non impedisce dunque l’applicazione del diritto straniero. Quest’ultimo, infatti, subisce solo il limite dell’ordine pubblico internazionale.

Agli effetti del diritto internazionale privato, l’ordine pubblico che – anche ai sensi dell’abrogato art. 31 delle preleggi, applicabile “ratione temporis” – impedisce l’ingresso nell’ordinamento italiano della norma straniera che vi contrasti si identifica con l’ordine pubblico internazionale”, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. In tale accezione, esso è stato ritenuto ostativo, ad esempio, all’applicazione nell’ordinamento italiano dell’art. 1327 ABGB (codice civile austriaco), che limita il risarcimento in favore dei congiunti di persone decedute a seguito di fatto illecito al solo danno patrimoniale ed esclude la risarcibilità del danno cosiddetto parentale, venendo in rilievo l’intangibilità delle relazioni familiari, ossia un valore di rango fondamentale, riconosciuto anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 7 della Carta di Nizza, per il quale il risarcimento rappresenta la forma minima ed imprescindibile di tutela.

Ai sensi dell’art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l’applicazione di una legge straniera nell’ordinamento italiano è inibita se determina effetti contrari all’ordine pubblico, da intendere come insieme dei principi essenziali della “lex fori”, tra i quali rientra anche quello per cui l’accesso all’impiego pubblico deve avvenire mediante concorso, salvo eccezioni introdotte dalla legge, purché rispondenti a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico.

Non sussiste coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano poste a tutela del lavoratore ed i principi di ordine pubblico rilevanti come limitazione all’applicazione di leggi straniere, in base all’art. 31 disp. prel. cod. civ. (nel testo anteriore all’abrogazione recata dalla legge 31 maggio 1995, n. 218), giacché questi ultimi non possono enuclearsi soltanto sulla base dell’assetto ordinamentale interno, così da ridurre l’efficacia della legge straniera ai soli casi di trattamento più favorevole per il lavoratore italiano, ma devono riconoscersi nei principi fondamentali della nostra Costituzione o, comunque, in quelle altre norme che rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo o, ancora, che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduca in uno stravolgimento dei suoi valori fondanti. Pertanto, integra la nozione di ordine pubblico, ex art. 31 citato, il principio fondamentale della tutela del lavoratore avverso comportamenti arbitrari del datore di lavoro, che trova esplicazione anche nel diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, la quale, essendo correlata all’inadempimento dell’obbligo di comunicare al lavoratore il recesso con congruo anticipo rispetto alla cessazione del rapporto (salve le ipotesi di giusta causa del licenziamento), rappresenta una regola di garanzia finalizzata a consentire la ricerca di una nuova occupazione o, comunque, di fronteggiare la situazione di bisogno derivante dalla cessazione della fonte di reddito, in forza della quale non può, quindi, darsi luogo ad una comparazione con il diritto al trattamento di fine rapporto quanto alla possibilità di assorbimento nella retribuzione corrisposta, al cui livello, al contrario, si correla la misura dell’indennità.

Come sopra già evidenziato, l’ordine pubblico, che, ai sensi dell’art 16 comma 1, n. 218 del 1995, costituisce il limite all’applicabilità della legge straniera in Italia e che si identifica in norme di tutela dei diritti fondamentali, deve essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari, con riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera, bensì “ai suoi effetti”, cioè alla concreta applicazione che ne abbia fatto il giudice di merito ed all’effettivo esercizio della sua discrezionalità, vale a dire all’eventuale adeguamento di essa all’ordine pubblico. Detto ordine pubblico non si identifica con quello interno, perché altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato 

In tema di rapporto di lavoro sorto, eseguito e risolto all’estero, la nozione di “ordine pubblico”, che costituisce un limite all’applicazione della legge straniera, è desumibile innanzi tutto dal sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla tutela del lavoro prevista dalla Costituzione (artt. 1, 4 e 35 Cost.) e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione europea dall’art. 6 TUE, fonti che includono le tutele del lavoratore contro il licenziamento ingiustificato .

In materia di rapporti familiari è stato stabilito che l’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i rapporti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini stranieri (nella specie, statunitensi) sposati all’estero e residenti in Italia, e che risulti valido secondo la legge nazionale dei medesimi (applicabile ai sensi degli artt. 19 e 20 delle Disposizioni sulla legge in generale), è operante in Italia, senza necessità di omologazione o recepimento delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto conto che l’ ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate Disposizioni come limite all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ ordine pubblico cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il principio dell’ordinamento italiano, circa l’Invalidità di un accordo di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il quale attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini italiani .

Nel diritto bancario si è affermato che l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del r.d. n. 1736 del 1933 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall’art. 1343 c.c., sicché, non viola il principio dell’ autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 c.c. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 c.c .

E la clausola n. 2 delle Norme Bancarie Uniformi per il servizio delle cassette di sicurezza del 1976, richiamata nei singoli contratti, avente ad oggetto l’impegno del cliente a non conservare nella cassetta cose di valore complessivo superiore a quello convenuto, non integra l’oggetto del contratto introducendo un ulteriore obbligo del cliente, oltre quello primario di corrispondere il canone, ma ha l’unica funzione di limitare la responsabilità della banca; detta pattuizione, pertanto, mentre mantiene la sua validità, quale espressione di autonomia contrattuale non contraria a norme imperative, in ipotesi di colpa lieve, per il caso di dolo o colpa grave non solo contrasta con il principio di ordine pubblico interno insito nella norma dell’art. 1229 cod. civ., ma è anche inconciliabile con la funzione che il legislatore ha inteso assegnare alle cassette di sicurezza, in virtù della professionalità bancaria, cui deve connettersi un servizio caratterizzato dal massimo di sicurezza ipotizzabile contro eventi dannosi, umani e naturali, prevedibili .

In tema di prestazione d’opera intellettuale, la onerosità del relativo contratto, che ne costituisce elemento normale, come risulta dall’art. 2233 cod. civ., non ne integra, peraltro, un elemento essenziale, né può essere considerato un limite di ordine pubblico alla autonomia contrattuale delle parti, le quali, pertanto, ben possono prevedere espressamente la gratuità dello stesso.

Nel diritto delle assicurazioni, la disposizione dell’art. 1933, primo comma, cod. civ., che esclude la spettanza dell’azione per il pagamento di debiti di giuoco o di scommesse, non trova applicazione a quei contratti – come il contratto di assicurazione cui sia apposta la clausola di beneficio del cambio a favore dell’assicuratore per la eventualità che il corso di conversione della valuta in cui è espresso il credito per le operazioni di esportazione oggetto della copertura assicurativa, risulti superiore al corso di cambio garantito (clausola che non incide sulla qualificazione generale del contratto, il quale assolve la funzione propria dell’assicurazione, e che comunque potrebbe, se mai, configurarsi come contratto atipico valido, siccome diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela in quanto non in contrasto con la legge, l’ ordine pubblico e il buon costume) – i quali, pur caratterizzati dall’alea, non sono riconducibili alla nozione di giuoco e di scommessa.

Nell’ambito delle garanzie patrimoniali, la disposizione dell’art. 1945 cod. civ., che disciplina le eccezioni opponibili dal fideiussore nei confronti del creditore, non tutela un interesse di ordine pubblico ma un interesse di natura privata e può quindi essere derogata dalle parti nell’esplicazione del principio di autonomia contrattuale, mediante apposita clausola con la quale il fideiussore rinunci ad eccepire l’invalidità dell’obbligazione principale, senza che ne risulti alterata la natura del negozio fideiussorio .

L’ordine pubblico interno è, dunque, uno strumento-limite dell’autonomia dei privati, consistente in determinati principi etico-sociali, di rilievo fondamentale, di cui la comunità avverte l’esigenza in un dato periodo storico ed assunti dal legislatore per informare i singoli istituti giuridici. Nell’area di queste direttive generali imperative – che non sono aprioristiche o contenute in testi fondamentali, ma si deducono da tutto il sistema giuridico positivo – si inseriscono quelle norme che il legislatore ha reso inderogabili dai privati per provvedere anche alla diretta tutela di interessi della collettività.

Ulteriori limiti al principio di autonomia della volontà sono dettati da fonti di diritto internazionale di terzo grado rientranti nell’alveo del diritto internazionale privato comunitario. Da qualche tempo, infatti, il legislatore comunitario provvede a formulare speciale norme di conflitto che vanno ad arricchire il quadro generale in cui opera, inter alia, la convenzione di Roma e che con essa interagiscono attraverso il meccanismo posto all’art. 20 della convenzione medesima. Così si è formata una vera e propria disciplina settoriale di diritto derivato contenente norme di diritto internazionale privato “a connotazione materiale” del tutto particolare. L’obiettivo è rafforzare la tutela del consumatore (o del lavoratore) mediante la predisposizione di una sorta di minimum standards fissati a livello comunitario, destinati ad ovviare alla difformità delle normative nazionali cui la consueta tecnica della localizzazione conduce. In assenza di tali norme alla disomogeneità della tutela del consumatore tra i singoli ordinamenti degli Stati membri conseguirebbe la crisi ideologica del mercato unico europeo: senza un consumatore europeo non può esservi mercato unico europeo.

Va peraltro osservato che la produzione normativa della Comunità Europea ha ricevuto un forte slancio dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam adottando ulteriori regolamenti nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile (quali ad esempio il reg .”Bruxelles II” ora reg. Bruxelles II bis del 27 novembre 2003) ; in materia fallimentare , di notificazione e trasmissione degli atti;  ; di assunzione delle prove .Tale attività è culminata  nella trasformazione, come si è detto sopra, della “storica”convenzione di Bruxelles del 1968 in regolamento comunitario (il reg. 44/2001); nella medesima prospettiva si consideri il regolamento comunitario sulla legge applicabile alle relazioni extracontrattuali (c.d. reg “Roma II”).

Il problema della “diversità” interpretativa era particolarmente vistoso fino al 31 luglio 2004: mentre l’interpretazione degli atti in materia di giurisdizione e di responsabilità extracontrattuale rientrava nella competenza del giudice comunitario, l’interpretazione della conversione di Roma, restava, nelle mani dei giudici nazionali. Certo, restava ( e resta) fermo l’obbligo fissato all’art. 18 della convenzione di Roma, diretto a garantire l’interpretazione delle norme da parte dei giudici nazionali tenendo conto “del loro carattere internazionale e dell’opportunità che siano interpretate ed applicate in modo uniforme”, obbligo peraltro rafforzato dalla norma generale posta all’art. 2 della legge italiana di riforma del diritto internazionale privato (l. n. 218/95); tuttavia era quantomeno improbabile almeno sul piano comparatistico che si raggiungesse una piena uniformità di giudicati.

Dal 1° agosto 2004 si è aperta una nuova fase del diritto internazionale privato comunitario: con l’entrata in vigore dei due Protocolli concernenti l’interpretazione da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee della convenzione di Roma del 1980  diviene possibile l’unificazione su scala comunitaria di nozioni fondamentali quali quelle di contratto, consumatore, lavoratore, scelta tacita della lex contractus, norme di applicazione necessaria, ordine pubblico, assicurando una maggiore certezza del diritto dei contratti internazionali.

Come si è accennato, dall’autonomia di d.i.pr. avente per oggetto la determinazione del diritto applicabile alle obbligazioni contrattuali si deve distinguere un’ulteriore fondamentale species avente oggetto processuale.

Sotto quest’ultimo profilo, le parti godono di autonomia nella misura in cui l’ordinamento statale consente loro di derogare alla giurisdizione del giudice interno disponendo, appunto che l’eventuale controversia tra loro insorta venga risolta oda un giudice statale straniero oppure da arbitri. Si tratta, qui, di una forma di autonomia che si sviluppa in due direzioni: (a) la deroga alla giurisdizione in favore del giudice statuale straniero e (b) la deroga in favore dell’arbitrato internazionale.

Il primo caso è coperto dal reg. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale ove, al 14 considerando si ammette che fatti salvi i criteri di competenza esclusiva previsti dal presente regolamento, deve essere rispettata l’autonomia delle parti relativamente alla scelta del foro competente per i contratti non rientranti nella categoria dei contratti di assicurazione, di consumo e di lavoro in cui tale autonomia è limitata.

Ai sensi dell’art. 23, le parti possono specificamente stabilire ex contractu quale sarà il giudice competente invia esclusiva a conoscere le controversie, presenti o future, relative ad un determinato rapporto giuridico transnazionale. Il sistema della prorogatio fori è destinato ad interagire con quello della convenzione di Roma del 1980. A criteri uniformi per la determinazione della giurisdizione si aggiungono, infatti, criteri altrettanto uniformi nella determinazione del diritto applicabile ad un dato contratto internazionale. Ma attraverso la convenzione di Roma del 1980 il giudice statale, di ciascuno Stato membro della UE, dovrà escludere la lex mercatoria dalla nozione di lex contractus come si è visto poc’anzi.

Opposte valutazioni si impongono in caso di deroga alla giurisdizione del giudice interno a favore dell’arbitro internazionale.

L’espressione “arbitrato internazionale”, introdotta ex novo nell’ordinamento italiano dalla recentissima riforma, costituisce l’arco di volta di un’apposita disciplina di favore per la risoluzione delle controversie economiche transnazionali, disciplina che, superando le concezioni più tradizionali, è destinata ad allineare il sistema italiano a quello dei Paesi economicamente più avanzati.

L’ordinamento italiano prevede, dunque, per l’arbitrato interindividuale avente carattere di internazionalità, una disciplina speciale. La filosofia che anima il legislatore italiano si ispira alla flessibilizzazione della disciplina dell’arbitrato rituale domestico, su aspetti cruciali del procedimento puntualmente indicate agli art. 832 838 del codice di rito, concernenti la forma dell’accordo compromissorio, la determinazione del diritto sostanziale applicabile, la lingua dell’arbitrato, la ricusazione degli arbitri, la fase di deliberazione del lodo, la impugnabilità del medesimo. Così, la clausola compromissoria, contenuta in condizioni generali di contratto, risulta valida ed efficace, ex art. 833 c.p.c., non occorrendo l’approvazione specifica di cui agli artt. 1341 e 1342 del Codice civile.

Nella nostra indagine assume, inoltre, un’importanza cruciale l’esegesi della nuova norma contenuta nell’art. 834 c.p.c. secondo cui le parti hanno facoltà di stabilire d’accordo tra loro le norme che gli arbitri debbono applicare al merito della controversia oppure di disporre che gli arbitri pronuncino secondo equità. Se le parti non provvedono, si applica la legge con la quale il rapporto è più strettamente collegato. In entrambi i casi gli arbitri tengono conto delle indicazioni del contratto e degli usi del commercio.

In prima approssimazione, l’articolo richiamato distingue due situazioni fondamentali caratterizzate rispettivamente dalla presenza e dall’assenza di scelta del diritto applicabile ad opera delle parti.

Nel primo caso la volontà delle parti, assunta quale criterio di collegamento, si esplica in pieno e può avere per oggetto la scelta di qualunque ordinamento giuridico statuale – sulla scia di quanto previsto all’art. 3 della convenzione di Roma del 1980- a prescindere dal possibile collegamento oggettivo esistente tra lo stesso e la lex causae. Inoltre, sempre in caso di scelta positiva della legge applicabile, sembra pacifica l’ammissibilità della c.d. scelta successiva della legge applicabile ovvero l’electio iuris che venisse manifestata dalle parti durante il procedimento arbitrale.

Sembra ammissibile, altresì, la scelta positiva tacita della lex contractus, sempreché si riscontri una volontà reale ed effettiva delle parti sia pure espressa mediante comportamenti inequivoci. E sempre con riferimento all’oggetto della scelta del diritto applicabile, sembra altrettanto pacifico, ai sensi della norma in esame, che le parti possano operare il c.d. depeçage e, quindi, oltre a richiamare la disciplina straniera nel suo complesso, possano riferirsi a singole norme o complessi di norme tratti da ordinamenti (statali) diversi.

Orbene, data l’espressione legislativa “norme di diritto”, in luogo della più tradizionale accezione “legge applicabile”, ci si chiede se si deve ritenere ammissibile l’applicazione della lex mercatoria e dei Principi Unidroit al merito di controversie sottoposte ad arbitrato internazionale.

Secondo una prima tesi interpretativa, il legislatore italiano ha impiegato una formula neutrale, non intendendo prendere parte né a favore né contro le elaborazioni scientifiche in tema di lex mercatoria, elaborazioni che non risulterebbero ancora mature per una adeguata sistemazione legislativa. In base a tale assunto, che comunque rinvia la soluzione della questione alla elaborazione giurisprudenziale,si giunge ad ammettere il ricorso alla lex mercatoria ed ai Principi Unidroit ma, nel contempo, si induce l’interprete a prediligere la soluzione meno controversa, cioè quella dell’ammissibilità del diritto statale applicabile

Altra parte della dottrina ha espresso, tuttavia, forti perplessità, circa ogni possibilità di richiamo della lex mercatoria e, quindi, anche dei Principi Unidroit, tramite l’art. 834 c.p.c., nel vigore della convenzione di Roma del 1980. Esigenze di interpretazione sistematica porterebbero, infatti, a considerare che la convenzione di Roma si applichi all’arbitrato rituale secondo diritto e tale rilievo troverebbe puntuale conferma nel fatto che l’art. 1, par. 2, lettera d, della convenzione citata esclude dal proprio ambito di applicazione solo i compromessi e le clausole compromissorie e non l’intero istituto arbitrale. Muovendo da tale presupposto si giungerebbe alla conclusione secondo la quale, essendo la convenzione di Roma lex specialis rispetto al diritto comune interno, risulterebbe speciale anche rispetto all’art. 834 c.p.c. e quindi a quest’ultimo resterebbe solo un ambito di applicazione residuale.

Una terza tesi interpretativa interpreta l’espressione “norme di diritto”, adottata dall’art. 834 c.p.c. nel senso di includere complessi normativi più ampi di quelli esistenti negli ordinamenti statali. Siffatta interpretazione che risulta confortata dalla prassi arbitrale internazionale ed in parte anche dalla relazione parlamentare, oltre che dai lavori preparatori di convenzioni internazionali vigenti e della legge modello dell’Uncitral – appare in linea con le più recenti ed avanzate esperienze legislative straniere e con i rilievi contenuti nel precitato libro verde della Commissione.

L’art. 834 c.p.c. individua, dunque, il riconoscimento legislativo formale della nuova lex mercatoria e dei Principi Unidroit alla stregua del diritto applicabile al merito della controversia nella disciplina italiana dell’arbitrato internazionale, ferma restando l’eseguibilità in Italia di lodi decisi in base a quelle stesse norme secondo la disciplina dell’arbitrato estero.

Va precisato a tale riguardo che la normativa dell’arbitrato internazionale domestico esula dal campo di applicazione della convenzione di Roma e l’art. 834 c.p.c. possiede un campo di applicazione assai più vasto di quello appena delineato. Certo, il rinvio internazionale privato (l. n. 218795) comporta un’estensione della convenzione di Roma che non trova equivalenti negli ordinamenti degli altri Stati europei e quindi merita un’attenzione particolare.

Senonché è altrettanto vero che la convenzione di Roma è lex specialis solo in quanto disciplini fattispecie che ricadano nel proprio ambito di applicazione. Perciò, muovendo da tale presupposto, appare evidente che il rinvio recettizio operato dall’art. 57 della legge di riforma del diritto internazionale privato (l. n. 218/95) costituisce una norma generale che il legislatore italiano si è dato ma che diviene automaticamente limitata ai casi in cui lo stesso legislatore non disponga altrimenti con proprie norme speciali.

Si impone la conclusione secondo la quale, attraverso le norme di conflitto contenute all’art. 834 c.p.c. il legislatore italiano si è dotato di norme di conflitto speciali valevoli in materia di arbitrato internazionale sicché il rinvio operato dall’art. 57 non scalfisce la normativa arbitrale.

Peraltro, nel quadro dell’art. 834 c.p.c. distinta dall’arbitrato secondo diritto, resta ferma la nozione di arbitrato secondo equità, categoria nella quale è possibile evidenziare ulteriori applicazioni sia della lex mercatoria che dei Principi Unidroit.

Assai più controverso è, invece, il tema dell’applicabilità della lex mercatoria e dei principi Unidroit alla stregua di norme applicabili al merito, in ipotesi di assenza di electio iuris delle parti. Abbandonando l’orizzonte della voie directe individuato dall’art. 1496 N.C.P.C. francese, secondo il quale gli arbitri possono applicare d’ufficio le “regole di diritto” che ritengano appropriate alla fattispecie, la lettera dell’art. 834 c.p.c. prevede che, in caso di assenza di scelta della lex contractus, gli arbitri dovranno applicare “la legge” con cui il rapporto controverso è più strettamente collegato. Qui, secondo l’interpretazione comune, il riferimento alla “legge” porta indubbiamente ad escludere qualunque collegamento diretto con complessi normativi non statali come, appunto, la lex mercatoria ed i complessi normativi non statali come, appunto la lex mercatoria ed i Principi Unidroit, rilasciando, invece, al di fuori delle fattispecie ricomprese nell’ambito di applicazione analogica ai meccanismi di soluzione conflittualistica tradizionali operativi mediante la convenzione di Roma del 1980 , l’applicazione analogica di meccanismi di soluzione conflittualistica di Roma del 1980 . Il che, tuttavia, non porta ad escludere sic et simpliciter l’applicabilità della lex mercatoria, bensì ne demanda le modalità di applicazione all’ordinamento statale che presenta il collegamento più stretto con la controversia.

Orbene anche su questi ultimi aspetti, sembra oggettivamente possibile una “lettura alternativa”.

L’ampiezza del principio di autonomia contrattuale fissato all’art. 834 c.p.c., non vieta di considerare la sola  scelta del regolamento di arbitrato amministrato (che, in realtà, costituisce espressione della lex mercatoria processualis) equivalente ad una scelta delle “norme di impostazione, se le parti hanno previsto l’arbitrato amministrato per la risoluzione delle proprie controversie e, nel contempo, non hanno indicato la lex contractus, ne segue che il richiamo del regolamento di arbitrato ed in particolare delle norme di conflitto in esso contenute porta ad applicare queste ultime senza, dunque, ricorrere alla norma in materia di assenza di scelta di cui all’art. 834 c.p.c.. Orbene, poiché i principali regolamenti arbitrali del mondo, in primis quelli della CCI, della LCIA o della AAA, prevedono l’applicazione d’ufficio delle “regole di diritto” che l’arbitro ritiene essere più appropriate al merito della controversia, ne discende che la lex mercatoria ed i Principi Unidroit potranno essere applicati dagli arbitri sulla base della volontà espressa dalle parti di scegliere un dato regolamento di arbitrato amministrato.

Ne discende dunque che l’ambito di applicazione della seconda parte del comma 1 dell’art. 834 c.p.c. risulta limitato alla categoria residuale degli arbitrati internazionali ad hoc i cui gli arbitri riscontrano l’assenza di electio iuris.

A conclusione di queste osservazioni occorre indicare, en passant, le ulteriori dimensioni del principio di autonomia contrattuale secondo la disciplina dell’arbitrato internazionale:

a) Autonomia nella fissazione del locus arbitri;

b) Autonomia nella scelta del regolamento arbitrale;

c) Autonomia nella scelta delle norme applicabili al merito della controversa;

d) Autonomia nella fissazione della lingua del procedimento arbitrale;

e) Autonomia nella nomina degli arbitri, nella fissazione delle qualifiche loro richieste e nell’esercizio dell’azione di ricusazione.

L’emanazione di un’apposita disciplina in materia arbitrale volta a differenziare l’arbitrato internazionale da quello interno costituisce, dunque, un segno indelebile della presa in considerazione della lex mercatoria o, comunque, delle esigenze del commercio internazionale ad opera dello Stato. Proprio attraverso questa disciplina, si è già potuto osservare che il legislatore italiano, sulla scia di quello di altri Paesi economicamente avanzati, ha notevolmente ampliato la libertà contrattuale delle parti contraenti di deferire la cognizione delle controversie commerciali internazionali all’arbitro, sia il potere di quest’ultimo di decidere la lite riferendosi a complessi normativi più vasti del diritto statale.

Le considerazioni appena esposte sono ulteriormente rafforzate dalla lettura della disciplina dell’impugnazione del lodo internazionale e del dolo estero.

Nella prima ipotesi, il legislatore italiano, a differenza di quanto previsto per il lodo interno ha escluso, inter alia, salvo diverso accordo delle parti, l’impugnabilità del lodo internazionale per violazione delle norme di diritto da parte degli arbitri, con il risultato concreto di eliminare il controllo del giudice di merito su tale punto cruciale.

Per quanto riguarda i lodi esteri pronunciati in riferimento alla lex mercatoria od i Principi Unidroit, basti osservare che né la convenzione di New York del 1958, né le norme poste agli artt. 839-840 c.p.c. precostituiscono specifici ostacoli all’exequator relativi alla natura giuridica delle norme di diritto applicate dagli arbitri al merito della controversia da essi decisa.

Ne segue dunque che i lodi internazionali e quelli esteri, decisi in base alla lex mercatoria ed ai Principi Unidroit, risultano di per sé, idonei a produrre effetti nell’ordinamento statale italiano, al pari, rispettivamente, di qualunque altro lodo internazionale o estero deciso in base alla legge straniera.

Spetta dunque alle parti, nel terzio millennio, fare un uso misurato e appropriato della propria libertà contrattuale e agli arbitri decidere le controversie nel rispetto delle norme a carattere inderogabile.

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