REATI TRIBUTARI E IL CASO SIDERPOWER

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Cassazione n. 30532

COMMENTO

La situazione descritta riguarda un caso di omesso versamento dell’IVA da parte di Siderpower, un’azienda coinvolta nella filiera produttiva dell’Ilva, che si trova in difficoltà finanziarie a causa degli inadempimenti della stessa Ilva, suo unico committente.

In casi di omesso versamento dell’IVA, il giudice è chiamato a valutare le circostanze specifiche che hanno portato all’inadempimento. Nella situazione di Siderpower, il giudice non può ignorare la crisi economica che l’azienda sta affrontando, aggravata dagli inadempimenti contrattuali dell’Ilva. Inoltre, l’azienda ha dovuto destinare risorse al pagamento degli stipendi e dei contributi dei dipendenti, per evitare che irregolarità nel Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) potessero ostacolare ulteriormente i lavori presso l’Ilva.

Questa giustificazione si basa sul principio che, in situazioni eccezionali e non imputabili all’azienda, le difficoltà finanziarie possono costituire una causa di forza maggiore che esclude o attenua la responsabilità penale per l’omesso versamento dell’IVA. La necessità di mantenere la regolarità contributiva è essenziale per la continuità operativa dell’azienda, e la mancata emissione di un DURC regolare avrebbe potuto compromettere ulteriormente la situazione economica di Siderpower, rendendo ancora più difficile la prosecuzione delle attività lavorative.

In sintesi, il giudice deve considerare:

  1. La situazione di criticità finanziaria di Siderpower.
  2. Gli inadempimenti dell’Ilva, unico committente dell’azienda.
  3. La necessità di Siderpower di pagare stipendi e contributi per evitare ulteriori problemi operativi legati al DURC.

Tali elementi possono influenzare significativamente la valutazione della responsabilità per l’omesso versamento dell’IVA.

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SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
SENTENZA
avverso la sentenza emessa li 05/07/2023 dalla Corte d’Appello di Lecce – Sez. dist. Taranto
visti gli atti, li provvedimento impugnato ed li ricorso;
udita al relazione svolta dal consigliere Vittorio Pazienza;
udito li Pubblico Ministero, ni persona del Sostituto Procuratore Generale Marilia di Nardo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
¥
udito li difensore del ricorrente, avv. per l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
che ha concluso insistendo
.1 Con sentenza del 05/07/2023, la Corte d’Appello di Lecce – Sez. dist. Taranto ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto, in data
13/09/2022, con la quale
era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto
R.G.N.
3103/2024

  • relativamente agli anni di imposta 2014 e 2015 – ni qualità legale rappresentante della s.r.l.
  1. Ricorre per cassazione il a mezzo del proprio difensore, deducendo vizio di motivazione.
    Si censura la sentenza per aver ignorato le cause, indipendenti dalla volontà
    del ricorrente, che avevano determinato l’inadempimento dell’obbligazione tributaria: al riguardo, si deduce che la svolgeva esclusivamente lavori nell’ambito della gestione dello stabilimento siderurgico effettuata dall’ s.p.a., agendo come monomandatario di quest’ultima. Le vicende giudiziarie che avevano travolto I (proprio negli anni relativi al mancato pagamento dell’IVA oggetto di contestazione), con conseguente subentro di una nuova società e
    abbandono “alla deriva del fallimento dei pregressi crediti”, avevano determinato – come riconosciuto dalla stessa Corte territoriale – li mancato pagamento dei crediti vantati, oltre che una crisi delle commesse. La difesa richiama altresì la produzione documentale comprovante l’attivarsi della con azioni legali per li recupero dei crediti, che “avevano trovato sbarramento” nel fallimento dell’
    Tutto ciò, ad avviso della difesa ricorrente, consentiva di escludere profili di rilievo penale nella condotta del che si era attivato nell’unico modo
    possibile (ovvero proponendo azioni legali), e certo non avrebbe potuto provvedere al pagamento delle ingenti somme con il proprio patrimonio personale.
    Quanto poi alla scelta del ricorrente di provvedere al pagamento degli stipendi,
    ricorrendo allo sconto bancario delle fatture, la difesa evidenzia che la mancata corresponsione avrebbe causato un ostacolo ai lavori in corso all’interno dell (irregolarità del DURC e conseguente incompatibilità con ogni lavoro dell’indotto
  2. Con requisitoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, perché manifestamente infondato.
    CONSIDERATO IN DIRITTO
    .1 Il ricorso è fondato.
  3. Com’è noto, la consolidata elaborazione giurisprudenziale in tema di omesso versamento dell’IVA appare improntata a particolare rigore nella
    valutazione della condotta omissiva e, conseguentemente, nella individuazione di possibili situazioni idonee ad escludere la colpevolezza dell’agente.
    Basti qui richiamare, a titolo esemplificativo, Sez. ,3 n. 38594 del 23/01/2018, M., Rv. 273958 – 01, secondo la quale «in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al
    2 pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo». V. anche Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Mattiazzo, Rv. 278909 – 01, secondo la quale «in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che li mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi».
    Altrettanto noto è peraltro il fatto che alcune significative pronunce di questa Suprema Corte hanno, in una qualche misura, temperato tale rigore interpretativo: si è in particolare affermato che «in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso di crediti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, trattandosi di inadempimento riconducibile all’ordinario rischio di impresa, sempre che tali insoluti siano contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica» (Sez. 3, n. 31352 del 05/05/2021, Baracchino, Rv. 282237 – 01, la quale, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, riguardante insoluti per circa il 43% del fatturato, cui era seguita una gravissima crisi di liquidità).
    Tale decisione è stata esplicitamente richiamata, in senso adesivo, da Sez. 3, n. 19651 del 24/2/2022, Semprucci, la quale ha posto l’accento sulla necessità di tenere adeguato conto delle deduzioni difensive volte a comprovare una concreta impossibilità di far fronte agli obblighi di versamento, per la situazione di crisi dell’impresa determinata da ingenti inadempimenti dei clienti, le modalità e le tempistiche del ricorso al credito da parte del soggetto agente, ecc. (cfr. il § 2 della sentenza. In precedenza, per un’apertura in ordine al rilievo da conferire alla crisi di liquidità determinata dal mancato pagamento delle fatture emesse, v. Sez.
    ,3 n. 29873 del 01/12/2017, dep. 2018, Calabrò, Rv. 273690 – 01).
  4. Ad avviso di questo Collegio, i principi della sentenza Baracchino devono
    trovare applicazione nella fattispecie in esame.
    3.1. Emerge dall’odierno ricorso che, con l’atto di appello, la difesa del
    aveva lamentato la mancata considerazione di quanto tempestivamente dedotto in ordine alla impossibilità, per la (di cui l’indagato era legale
    rappresentante) di far fronte agli obblighi di versamento per cause indipendenti dalla volontà del ricorrente e a lui non imputabili.
    3 In particolare, anche attraverso la deposizione della teste
    impiegata amministrativa della
    , si era tra l’altro fatto riferimento: alla peculiare posizione sul mercato della società, che aveva I s . p . a . q u a l e unico committente, ed operava all’interno dello stabilimento tarantino di quest’ultima, per lo svolgimento dei lavori sugli impianti che le venivano affidati; ai gravissimi ritardi (dell’ordine di molti mesi) con cui !’ corrispondeva quanto dovuto, fino alla sospensione di ogni pagamento, con conseguente avvio della procedura di amministrazione straordinaria; al ricorso allo sconto bancario delle fatture, utilizzato per pagare fornitori e dipendenti e per far fronte agli obblighi contributivi e previdenziali “in quanto, nonostante che l’acciaieria non ti pagava, pretendeva comunque la regolarità contributiva sennò ti metteva da parte dal proseguire l’attività ed anche dai pagamenti” (cfr. le dichiarazioni del riportate nella terza pagina dell’atto di appello); all’istanza di ammissione al passivo per l’ingente importo di Euro 600.000; al conseguente, progressivo crollo della società, causato dalla totale mancanza di entrate.
    3.2. Con un percorso argomentativo improntato a sintesi estrema, la Corte d’Appello ha riassunto le censure formulate avverso la sentenza di primo grado, per poi riportare alcune massime dell’indirizzo rigoroso qui in precedenza richiamato e confermare, su tali basi, l’affermazione di responsabilità, “sebbene possa comprendersi quali siano state le cause della presunta crisi di liquidità” (pag. 4 della sentenza impugnata).
    In altri termini, nonostante tale “comprensione”, al Corte territoriale ha ritenuto le doglianze generiche, sia per l’impossibilità di stabilire “se li rapporto
    con
    avesse determinato il mancato pagamento dei crediti oppure una crisi
    nelle commesse”, sia per la mancata indicazione dei rimedi approntati (e della
    natura degli stessi); ha quindi richiamato la giurisprudenza che esclude qualsiasi
    possibilità di evocare la scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., in presenza di una
    “scelta precisa di privilegiare il pagamento delle retribuzioni anziché versare le ritenute” (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
    3.3. Ritiene il Collegio che le linee argomentative tracciate dalla Corte d’Appello non siano in linea con i principi enunciati dalla sentenza Baracchino e dalle altre pronunce richiamate.
    Appare anzitutto non agevolmente comprensibile la portata del già richiamato
    “sebbene possa comprendersi quali siano state le cause della presunta crisi di
    liquidità” (pag. 4): non essendo chiaro, in particolare, se, per esternare tale “comprensione”, si sia attinto al notorio (essendo in tale ambito certamente
    annoverabile la situazione di crisi dell
    ovvero alle risultanze processuali poste a sostegno della linea difensiva ed acquisite agli atti (deposizione della teste documentazione relativa all’ammissione al passivo).
    4 In ogni caso, appare manifestamente illogica, alla luce delle produzioni
    documentali effettuate dalla difesa, l’affermazione circa l’impossibilità di stabilire se la prospettata situazione di crisi “avesse determinato li mancato pagamento dei
    crediti oppure una crisi delle commesse” (pag. 5, cit.): affermazione che presta li
    fianco al rilievo difensivo per cui “si può pacificamente soddisfare la richiesta, ritenendo che entrambe le cause hanno concorso a svuotare le casse della società
    amministrata dal ricorrente (pag. 3 del ricorso).
    Allo stesso modo, le considerazioni svolte in ordine al mancato
    apprestamento di adeguati rimedi alla situazione critica non sembrano aver tenuto
    conto sia della specifica e del tutto peculiare situazione della
    anche
    quanto alla ingentissima entità degli inadempimenti dell’unica committente, sia
    comunque della documentazione prodotta sin dal giudizio di primo grado. Anche li
    rilievo concernente la scelta del ricorrente di corrispondere le retribuzioni (peraltro
    ricorrendo allo sconto bancario delle fatture) e di mantenersi in regola con gli
    obblighi contributivi, non appare essersi confrontata con la questione, già dedotta con l’atto di appello e ripresa poi nell’odierno ricorso, relativa al fatto che una diversa linea di condotta “avrebbe rappresentato un ostacolo proprio ai lavori in corso all’interno dell in quanto avrebbe comportato una irregolarità nel DURC che sarebbe gravato sulla società rendendola incompatibile con qualunque lavoro da effettuarsi all’interno dell’indotto (cfr. pag. 4 del ricorso).
    3.4. In definitiva, la sentenza impugnata non fornisce risposte adeguate alle deduzioni difensive concernenti la concreta impossibilità di far fronte ai versamenti
    dovuti. Ed è appena li caso di osservare, ni linea generale e conclusivamente, che la necessità di attribuire il massimo rilievo alle problematiche evocate dal ricorso del trova ormai un importante riscontro nel diritto positivo: il recentissimo d.lgs. n. 87 del 14/06/2024, intervenendo sull’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, ha introdotto (con il nuovo comma 3-bis) una ulteriore causa di non punibilità per i reati di cui agli artt. 10-bis e 10ter del medesimo decreto, “se li fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, li giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi &o al mancato pagamento di crediti certi de esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”.
  5. Le considerazioni fin qui svolte impongono l’annullamento della sentenza
    impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Lecce.
    5 Cosi deciso il 15 luglio 2024
    l1 Consgielre estensore Vitorio Pazienza
    Il Presidente Shinau
    Depositaia ni Conceteria 25 LUG. 2024
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VACANZA ROVINATA: RISARCIMENTO DEL DANNO PATRIMONIALE E NON PATRIMONIALE

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Tribunale Siracusa, Sez. II, Sentenza, 15 febbraio 2024, n. 356

Cass. civ., Sez. III, ordinanza, 1 marzo 2024, n. 5572

Le due recenti sentenze in tema di “vacanza rovinata” evidenziano come la giurisprudenza consideri risarcibili sia il danno patrimoniale sia il danno non patrimoniale derivante dai disagi e dalle aspettative deluse.

La prima sentenza riguarda un caso in cui i passeggeri hanno subito gravi disservizi, tra cui il ritardo del volo e la perdita dei bagagli, con conseguente necessità di acquistare nuovi effetti personali. La corte ha stabilito che tali disagi costituiscono un danno patrimoniale, risarcibile in quanto ha comportato una spesa aggiuntiva non prevista e necessaria. Inoltre, è stato riconosciuto il danno non patrimoniale per l’ansia e lo stress patiti a causa della situazione.

La seconda sentenza si riferisce a un caso di villeggiatura in cui la qualità della struttura ricettiva non corrispondeva a quanto pubblicizzato. Gli ospiti hanno trovato la stanza infestata da insetti e in condizioni igieniche precarie. La corte ha riconosciuto il danno patrimoniale per il costo della vacanza non goduta e il danno non patrimoniale per il disagio e la delusione derivanti dalle condizioni della struttura, che hanno compromesso l’intera esperienza di viaggio.

Queste sentenze sottolineano l’importanza di un’attenta valutazione delle circostanze specifiche di ogni caso per determinare l’entità e la natura del pregiudizio subito. Il diritto al risarcimento si fonda sulla violazione del contratto di viaggio e sull’impatto negativo che tale violazione ha avuto sull’esperienza del viaggiatore.

TRIBUNALE ORDINARIO DI SIRACUSA
SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Giacomo Rota, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa civile di primo grado promossa DA (…) ((…), con il patrocinio dell’avv. (…), elettivamente
domiciliato in (…)
ATTORE APPELLANTE
CONTRO
(…)
CONVENUTA APPELLATA CONTUMACE
Oggetto: azione di risarcimento del danno
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza n. 19 del 2020 il Giudice di Pace di Noto, definizione del procedimento n. 29/2020R.G.,
ha rigettato in quanto sfornita di prova la domanda di (…) di condanna della (…) al pagamento della
somma di Euro 3.500,00 a titolo di risarcimento dei danni sia per spese sostenute che per vacanza
rovinata a seguito dello smarrimento del proprio bagaglio in occasione di un viaggio in crociera,
nulla disponendo sulle spese di lite.
(…) ha proposto appello avverso la sentenza n. 19 del 2020 facendo leva su un unico profilo di
doglianza con il quale ha dedotto che il Giudice di prime cure aveva errato nella valutazione della
prova fornita ritenendo che la denuncia di smarrimento di bagaglio non poteva assurgere a prova in
quanto contenente dichiarazioni provenienti dalla parte interessata; a dire del (…), il Giudice di Pace
non aveva preso in considerazione il fatto che la denuncia di smarrimento conteneva dichiarazioni
rese dall’appellante soltanto nella parte riguardante la descrizione delle caratteristiche del bagaglio,
e che in realtà in essa erano presenti le dichiarazioni di mancato ritrovamento del bagaglio inserite
dal responsabile di bordo con apposizione del timbro ufficiale della nave da crociera.
(…) ha chiesto pertanto la riforma della sentenza impugnata con la condanna della società (…) al
risarcimento del danno da vacanza rovinata, per non avere potuto rilassarsi e godere della vacanza
a causa dello smarrimento del proprio bagaglio, nonché al risarcimento dei danni per le spese
sostenute l’acquisto di prodotti sostitutivi e vestiti necessari per la vacanza; (…) ha infine prodotto in
giudizio una mail di formazione successiva alla sentenza di primo grado con la quale la società
convenuta (…) aveva confermato che il bagaglio era stato riconsegnato solo in data (…), ovvero cinque
giorni dopo la data prevista del (…).
La società convenuta (…) sebbene regolarmente citata in giudizio non si è costituita ed è rimasta
contumace.
Radicatosi il contraddittorio la causa è giunta al naturale epilogo a seguito dell’udienza di
precisazione delle conclusioni del (…) e della concessione dei termini di cui all’art. 190 del codice di
rito civile. Esaminati i fatti di causa il Tribunale ritiene parzialmente fondato l’appello proposto da
Attore 1 avverso la sentenza n. 19 del 2020 del Giudice di Pace di Noto per i motivi di seguito indicati.
Nella vicenda in esame dai fatti narrati dall’appellante è emerso che (…), in occasione di un viaggio
in crociera, aveva provveduto all’acquisto di un servizio di spedizione bagaglio con ritiro previsto
in data (…) e riconsegna a bordo della nave da crociera della compagnia (…) in data non successiva
a quella della partenza nave, prevista da (…) il (…); che l’esborso del servizio era stato effettuato, in
virtù del possesso da parte di (…) del privilegio denominato (…)”, da (…) in nome e per conto del
passeggero con il quale materialmente si era perfezionato il contratto di trasporto; che il ritiro del
bagaglio era stato effettuato solo in data (…) ma comunque con la garanzia della consegna a bordo
della nave da crociera per la data di partenza prevista; che qualche giorno prima della partenza,
mentre l’odierno attore appellante e la propria compagna erano in viaggio in crociera su altra nave,
la (…) gli aveva comunicato, tramite mail, un breve ritardo nella consegna, ritardo comunque non
quantificato; che il giorno dell’imbarco, al porto di (…), (…) non aveva rinvenuto la presenza del
bagaglio spedito; che, essendo domenica, nessuno rispondeva al call center della … (…) e che solo il
giorno successivo, a nave ormai salpata, la (…) aveva comunicato a (…) che il bagaglio era
presumibilmente smarrito; che (…) e la sua compagna, i cui oggetti personali e beni di prima
necessità erano all’interno del bagaglio, essendo sprovvisti di tutto e avendo solo i vestiti indossati
al momento dell’imbarco, erano stati costretti a provvedere, su indicazione della compagnia di
navigazione, all’acquisto di beni sostitutivi, spendendo del denaro il cui impiego era originariamente
destinato ai servizi e alle escursioni della propria vacanza, non più goduti; che pertanto la vacanza
prenotata era del tutto rovinata dallo smarrimento del bagaglio; che l’ultimo giorno di crociera, la
(…) aveva comunicato alla compagnia di navigazione (…) che il bagaglio era stato ritrovato e sarebbe
stato consegnato da lì a qualche giorno al luogo di partenza; che con mail datata (…), prodotta nel
presente giudizio di appello in quanto successiva al momento in cui la causa era stata presa in
decisione dal Giudice di Pace di Noto, la … (…) aveva confermato che il bagaglio era stato
riconsegnato solo in data (…).
Ciò premesso il Tribunale ritiene di accogliere la domanda attorea di risarcimento danni da
cosiddetta “vacanza rovinata” e di rigettare la domanda di risarcimento del danno derivante dai costi
sostenuti per l’acquisto dei beni necessari a godere della vacanza.
Per danno da vacanza rovinata, il cui risarcimento è disciplinato dall’art. 46 del D.Lgs. n. 79 del 2011
cd. Codice del Turismo, si intende il pregiudizio rappresentato dal disagio e dall’afflizione subiti dal
viaggiatore per non avere potuto godere pienamente della vacanza come occasione irripetibile di
svago e di riposo conforme alle proprie aspettative, inquadrabile come voce di danno non
patrimoniale da distinguersi dal vero e proprio danno patrimoniale consistente nel caso specifico
nel pregiudizio economico conseguente allo smarrimento del bagaglio.
Oggetto del risarcimento a titolo di vacanza rovinata è, sempre secondo l’articolo 46 del Codice del
Turismo, l’inadempimento che non sia di scarsa importanza ai sensi dell’art. 1455 c.c. e superi una
soglia minima di tolleranza, da valutarsi caso per caso, con apprezzamento di fatto del giudice di
merito (vedasi Cass. n. 17724 del (…), Cass. n. 14662 del (…) e Cass. n. 7256 del (…)); quanto poi
all’onere probatorio in capo al viaggiatore, egli “ha l’onere di allegare gli elementi di fatto dai quali
possa desumersi l’esistenza e l’entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del
risarcimento del danno da inadempimento contrattuale” Cass. n. 12143 del (…)).
Nella vicenda in esame (…) ha dato prova di non avere potuto fruire del proprio bagaglio come
risulta sia dalla dichiarazione di smarrimento bagaglio, sottoscritta (…) dove era stata sbarrata la
risposta “no” nella casella “bagaglio ritrovato” e aggiunta in calce la nota in inglese “luggage did not
arrive on board, but was localized and will be delivered to guest’s home address after the cruise”
ovvero “il bagaglio non è arrivati a bordo, ma è stato localizzato e verrà consegnato all’indirizzo di
casa dell’ospite dopo la crociera” sia dalla mail della … (…) dell'(…) dove si confermava che il bagaglio
era stato riconsegnato soltanto in data (…).
(…) ha anche dimostrato che lo smarrimento del proprio bagaglio non gli ha permesso di godere e
di sfruttare al massimo il piacere del viaggio in quanto con la mancanza dei propri effetti personali
e del proprio abbigliamento non ha potuto partecipare ad escursioni, attività sportive e serate a tema
causandogli un evidente stato di stress che non gli ha consentito di rilassarsi come aveva previsto.
Con riferimento al quantum del risarcimento il Tribunale ritiene che la quantificazione debba
avvenire in senso equitativo ai sensi dell’art. 1226c.c., tenendo conto della irripetibilità del viaggio,
del valore soggettivo attribuito alla vacanza dal consumatore e dello stress subito a causa dei
disservizi, da valutarsi equitativamente in Euro 1.500,00 come dallo stesso appellante quantificato,
oltre rivalutazione monetaria ed interessi sulla somma annualmente rivalutata a far data dal (…)
(data in cui il bagaglio avrebbe dovuto essere consegnato) sino al soddisfo.
Quanto alla domanda di risarcimento dei danni per le spese sostenute per l’acquisto di beni ordinari
necessari per la vacanza deve rilevarsi che non vi è prova di un danno economico in quanto (…) è
tornato in possesso del proprio bagaglio e in quanto dalla documentazione delle spese sostenute vi
è la presenza di spese, quali acquisto di occhiali da sole e articoli di gioielleria, che non possono in
alcun modo considerarsi beni ordinari necessari allo svolgimento della propria vacanza. In definitiva
deve parzialmente accogliersi l’appello avanzato da (…) e riformarsi la sentenza appellata n. 19 del
2020 del Giudice di Pace di Noto con conseguente condanna della (…) al risarcimento a favore di (…)
del danno da vacanza rovinata valutato equitativamente in Euro 1.500,00 mentre devesi rigettare la
domanda attorea di risarcimento delle spese sostenute per l’acquisto di beni sostitutivi per lo
svolgimento della vacanza.
Le spese di lite dei due gradi di giudizio seguono la soccombenza e vengono poste a carico
dell’appellato (…) come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Siracusa, Seconda Sezione Civile, definitivamente pronunciando quale Giudice
d’Appello nella causa fra le parti di cui in epigrafe, ogni altra istanza, domanda ed eccezione
disattesa, così provvede: 1. Accoglie parzialmente l’appello proposto da (…) e, in riforma della
sentenza di primo grado n. 19/2020 del Giudice di Pace di Noto, condanna la (…) al pagamento, in
favore di (…), della somma di Euro 1.500,00 a titolo di risarcimento del danno da vacanza rovinata,
oltre rivalutazione … monetaria ed interessi sulla somma annualmente rivalutata a far data dal (…)
sino al soddisfo; 2. Condanna (…) al pagamento in favore di (…) delle spese processuali di primo
grado che liquida in Euro 900,00 per compenso di avvocato, Euro 44,00 per spese vive, oltre rimborso
forfettario spese generali 15%,i.v.a. e c.p.a. come per legge; 3. Condanna (…) al pagamento in favore
di (…) delle spese processuali di secondo grado che liquida in Euro 900,00 per compenso di avvocato,
Euro 178,00 per spese vive, oltre rimborso forfettario spese generali 15%,i.v.a. ec.p.a. come per legge.
Conclusione
Così deciso in Siracusa, il 15 febbraio 2024.
Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2024.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

.Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere – Rel.
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21860/2022 R.G. proposto da:
AE. in persona del rappresentante legale per l’Italia, A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
(Omissis), presso lo studio dell’avvocato …(Omissis) che la rappresenta e difende;

  • ricorrente –
    contro
    B.B. e C.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA (Omissis) presso lo studio dell’avvocato …
    (Omissis) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato …(Omissis);
  • controricorrenti –
    Avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 1885/2022 depositata in data 7/02/2022.
    Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere MARILENA
    GORGONI.
    Svolgimento del processo
    B.B. e C.C. convenivano dinanzi al Giudice di Pace di Roma Ae., chiedendone la condanna al
    risarcimento del danno da vacanza rovinata, quantificato in Euro 5.000,00, o, in subordine, al
    risarcimento del danno a favore della sola B.B., pari ad Euro 1.000,00 per diritti speciali di prelievo,
    previsti dalla Convenzione di Montreal quali limite risarcitorio per la perdita dei bagagli;
    adducevano a sostegno della domanda che il bagaglio di B.B., imbarcato a R sul volo internazionale
    con destinazione M, meta del loro viaggio di nozze, era stato consegnato con due giorni di ritardo il
    20 dicembre 2016;
    con la sentenza n. 1885/2022, il Giudice di Pace di Roma accoglieva parzialmente la domanda,
    osservando che la Convenzione di Varsavia prevedeva come limite risarcitorio per lo smarrimento
    del bagaglio quello di 17 Diritti speciali di prelievo e, in assenza di prova del danno sofferto,
    liquidava agli attori la somma di Euro 297,85 per un bagaglio di 15 Kg;
    il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 1885/2022, resa pubblica in data 7/02/2022, investito del
    gravame, in via principale, da Ae. e, in via incidentale, da B.B. e da C.C., ha riformato la decisione di
    prime cure, ritenendo provato da parte di B.B. e di C.C. l’acquisto di beni, per l’importo di Euro
    196,00, necessari “per affrontare la vacanza al mare nella prospettiva di rimanere senza i beni messi
    nel bagaglio a tale palese scopo”; ha accolto anche il motivo dell’appello principale con cui veniva
    denunciata la contraddittorietà della sentenza del Giudice di Pace che prima aveva ritenuto
    applicabile la Convenzione di Varsavia e poi aveva escluso ogni responsabilità del vettore aereo per
    la mancata dimostrazione da parte dei passeggeri del danno subito; gli errori del Giudice di Pace
    sono consistiti, secondo il Tribunale, nell’aver ritenuto l’indennizzo previsto dalla Convenzione di
    Varsavia dovuto a prescindere dalla prova del danno, avendolo considerato in re ipsa, e nell’aver
    considerato sufficiente “il fatto costitutivo dello smarrimento del bagaglio per far sorgere in capo al
    viaggiatore tout court il diritto al risarcimento che, invece, in base ai principi generali di cui agli artt.
    2043 e ss cod. civ. e dell’art. 2069 cc (tenuto conto che il limite di risarcibilità cumula in sé entrambi
    i pregiudizi, patrimoniali e non), deve essere provato in concreto in giudizio” e una volta provato “il
    danno non può essere liquidato tenendo sempre conto della somma massima prevista dalla
    convenzione quando il danno risulta di importo inferiore al massimo” (nel caso di specie i passeggeri
    avevano dimostrato di aver sostenuto spese per Euro 196,00);
    pertanto, il Tribunale ha reputato dimostrato il nesso causale tra l’acquisto dei beni e lo smarrimento
    dei bagagli, perché i beni erano stati acquistati in epoca successiva allo smarrimento delle valigie ed
    antecedente al loro rinvenimento, lo smarrimento si era verificato prima dell’inizio delle vacanze e
    la tipologia dei beni acquistati era rispondente a quella necessaria per affrontare dei giorni al mare
    in assenza dei propri, riposti nel bagaglio non riconsegnato per tempo all’atterraggio;
    Ae. ricorre per la cassazione della decisione del Tribunale, formulando tre motivi; resistono con
    controricorso B.B. e C.C.;
    la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 – bis 1 cod. proc. civ.; Ae. ha depositato
    memoria.
    Motivi della decisione
    1) con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 2729 cod. civ., in riferimento all’art.
    360, 1° comma n. 3, cod. proc. civ., avendo il Tribunale presunto l’esistenza del danno patrimoniale
    di Euro 196,00, nonostante mancasse un indizio circa il fatto che i prodotti tipici da mare fossero nel
    bagaglio consegnato in ritardo, rispondendo alla massima di comune esperienza che le attrezzature
    da spiaggia e i vestiti estivi etnici vengano acquistati in loco piuttosto che in pieno inverno a R;
    il motivo è inammissibile, perché esso si risolve in un diverso apprezzamento della ricostruzione
    della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa
    quaestio, collocando la censura su un terreno che non è quello dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc.
    civ.;
    va ribadito che la corretta applicazione dell’art. 2729 cod. civ. presuppone un apprezzamento degli
    elementi acquisiti in giudizio, dai quali inferire quello ignoto, che riconosca ad essi efficacia
    probatoria, “quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziarla”, se risultino “in grado di
    acquisirla ove valutati nella loro convergenza globale”, ovvero “accertandone la pregnanza
    conclusiva” (Cass. 16/07/2018, n. 18822), e ciò in quanto “la valutazione della prova presuntiva esige
    che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente,
    ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di
    essi sol perché equivoci, cosi da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente
    probabile l’esistenza del fatto da provare” (Cass. 13/03/2014, n. 5787);
    mette conto altresì rilevare che “per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non
    occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto
    secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva”, essendo, invece, “sufficiente che dal fatto
    noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sul
    “id quod plerumque accidit” (così Cass. 6/02/ 2019, n. 3513);
    a tanto ha provveduto il Tribunale che ha accolto, infatti, la richiesta di risarcimento solo per i beni
  • creme solari, costumi, ecc. – acquistati dopo lo smarrimento del bagaglio e prima del loro
    ritrovamento; beni, la cui tipologia ha considerato compatibile con le necessità di chi deve affrontare
    l’inizio di una vacanza al mare senza i beni messi nel proprio bagaglio a tale scopo (p, 4 della
    sentenza);
    2) con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 1226 cod. civ., per avere il
    Tribunale liquidato a favore di entrambi gli appellanti l’importo di Euro 196,00;
    il motivo è inammissibile, la relativa illustrazione non consentendo di comprenderne il fondamento;
    nell’epigrafe, infatti, è denunciata la violazione dell’art. 1226 cod. civ., quindi, il ricorso da parte del
    giudice a quo alla valutazione equitativa del danno;
    non essendo stato il danno liquidato equitativamente, ma sulla scorta della prova documentale – gli
    scontrini di acquisto prodotti in giudizio – il motivo non può che dirsi inammissibile, non essendo
    affatto incorso il Tribunale nella violazione dell’art. 1226 cod. civ., non avendone fatto applicazione;
    secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge,
    di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, 1° comma, n. 4,
    cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle
    affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto
    con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla
    giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a
    questa Corte di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata
    violazione (Cass., Sez. Un., 05/05/2006, n. 10313);
    parimenti inammissibile risulterebbe il motivo ove dovesse intendersi che con esso il vettore aereo
    abbia inteso denunciare l’avvenuta liquidazione del danno anche a favore di C.C., sebbene il
    bagaglio consegnato con ritardo fosse quello di B.B. e le spese oggetto degli scontrini concernessero
    quest’ultima;
    è sufficiente considerare che il danno liquidato agli istanti è stato quantificato complessivamente in
    Euro 196,00;
    3) con il terzo motivo è denunziata la violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., in riferimento
    all’art. 360, 1° comma n. 3, cod. proc. civ., per averla, nonostante fosse stata interamente vittoriosa in
    appello, condannata al pagamento della totalità delle spese di lite;
    il motivo è infondato;
    è opportuno ribadire il principio secondo cui, in materia di compensazione delle spese, “il sindacato
    della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., è limitato ad accertare
    che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della
    parte totalmente vittoriosa, poiché ciò si tradurrebbe in un’indebita riduzione delle ragioni
    sostanziali della stessa, ritenute fondate nel merito” (Cass.17/04/2019, n. 10685); in senso contrario,
    neppure può richiamarsi – come ha fatto la società ricorrente – la circostanza relativa al parziale
    accoglimento, in proprio favore, dell’appello; invero, nel “caso di accoglimento parziale del gravame,
    il giudice di appello può” – non deve – “compensare, in tutto o in parte, le spese, ma non anche porle,
    per il residuo, a carico della parte risultata comunque vittoriosa, sebbene in misura inferiore a quella
    stabilita in primo grado, posto che il principio della soccombenza va applicato tenendo conto
    dell’esito complessivo della lite;
    in aggiunta, le Sezioni Unite hanno affermato che “l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile,
    di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza configurabile
    esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo
    processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più
    capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali
    in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale,
    in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, 2° comma, cod. proc. civ.”(Cass., Sez. Un.,
    31/10/2022, n. 32061), vale a dire in presenza di giusti motivi, “la cui insussistenza il giudice del
    merito non è tenuto a motivare” (Cass. 26/11/ 2020, n. 26912);
    4) all’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso;
    5) le spese del giudizio di cassazione, sono liquidate come in dispositivo in favore dei
    controricorrenti, seguono la soccombenza.
    P.Q.M.
    La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
    legittimità, che liquida in Euro 600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15
    per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, in favore della parte
    controricorrente.
    Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.pr. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
    processuali per il versamento, da parte di Ae., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
    pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
    Conclusione
    Così deciso nella Camera di Consiglio del 5 dicembre 2023 dalla Terza Sezione civile della Corte di
    Cassazione.
    Depositato in Cancelleria il dì 1 marzo 2024.
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GIUSTIZIA COME “ΘΕΣΙΣ” (legislazione) O COME “ΝΟΜΟΣ” (diritto)

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  • Lo sviluppo inflativo della nostra legislazione che ha portato all’anomia della società è l’antitesi di un sistema fondato sul rispetto di principi sedimentati e quindi accettati dalla cittadinanza perché generati dal pragmatismo spontaneo della consuetudine, ossia il vero Diritto:

https://opinione.it/cultura/2024/07/24/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno-thesis-nomos-conflitto-giuridico-dogmatici-liberali/

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CASSAZIONE: DANNO MORALE PRESUNTO PER “MANCATO RIPOSO SETTIMANALE”

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Cassazione, civ., sez. L, Ordinanza del 05 luglio 2024, n. 18390

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COMMENTO

La questione trattata riguarda il diritto del dipendente al riposo settimanale, che è garantito dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea, in particolare dall’art. 5 della direttiva 2003/88/CE. Questo diritto è considerato indisponibile, il che significa che il datore di lavoro deve assicurare il riposo settimanale al dipendente indipendentemente da una richiesta esplicita da parte di quest’ultimo.

Il mancato rispetto di questo diritto da parte del datore di lavoro costituisce una violazione che può generare un danno non patrimoniale al lavoratore. Tale danno deve essere presunto perché l’interesse del lavoratore alla fruizione del riposo settimanale ha una diretta copertura costituzionale, come previsto dall’art. 36 della Costituzione italiana. Questo articolo stabilisce che il lavoratore ha diritto a un periodo di riposo settimanale e a ferie annuali retribuite.

Di conseguenza, se un datore di lavoro non rispetta questo diritto, è direttamente responsabile e può essere tenuto a risarcire il danno non patrimoniale subito dal lavoratore. Questo principio è stato affermato anche dalla Corte di Cassazione italiana, che ha stabilito che la violazione di tale diritto costituzionale espone il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal dipendente.

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SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente

Dott. RIVERSO Roberto – Rel. – Consigliere

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 28202-2020 proposto da:

SOCIETÀ TRASPORTI PUBBLICI B Spa, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, (…), presso lo studio dell’avvocato AR.MA., che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

La.St.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 251/2020 della CORTE D’APPELLO DI LECCE, depositata il 08/05/2020 R.G.N. 1941/2014, cui riunito R.G.N. 271/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/05/2024 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO.

FATTI DI CAUSA

1. – La Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza in atti, previa la loro riunione, ha rigettato l’appello principale e quello incidentale proposti da Società Trasporti Pubblici B Spa (in breve anche “STP”) avverso la sentenza del Tribunale di Brindisi ed accolto gli appelli principale e incidentale di La.St.; e pertanto in parziale riforma della sentenza appellata ha condannato Società Trasporti Pubblici B Spa a pagare in favore del La.St. la somma di Euro 9.308,34 oltre accessori e spese, a titolo di risarcimento del danno derivante dal mancato rispetto da parte della società datrice di lavoro dell’obbligo di attribuire nell’arco di tempo compreso tra il luglio 2003 e l’agosto 2008 il riposo minimo giornaliero di 11 ore consecutive e di quello settimanale di 45 ore imposto dai Regolamenti CE 3820/85 e 561/06 .

2. – A fondamento della decisione, la Corte d’Appello ha richiamato le proprie precedenti pronunce in tema di interpretazione delle norme comunitarie ritenute corrette dalla Corte di Cassazione (tra le tante Cass. n. 16516/2015); ha respinto le doglianze formulate da società Trasporti pubblici B, ha affermato che gravava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare il fatto astrattamente impeditivo o estintivo del diritto del lavoratore a conseguire il risarcimento del danno per mancato godimento dei riposi; ha confermato la sentenza del Tribunale circa la sussistenza dell’an debeatur con quantificazione del danno non patrimoniale secondo equità; ha invece accolto le censure espresse in via principale ed incidentale dal La.St. sul computo dei turni.

3. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione società Trasporti Pubblici B Spa con due motivi. La parte intimata non ha svolto attività difensiva. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis 1, secondo comma, ult. parte c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte d’Appello posto l’onere della prova del danno a carico della società STP anziché sul lavoratore. Secondo la Corte una volta dimostrata la violazione il danno si doveva presumere fino a prova contraria; ma nel caso in esame era mancata la prova della violazione.

2. Esso è inammissibile.

2.1. Non ricorre, infatti, alcuna inversione dell’onere probatorio, ma una mera contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale (con la conseguente inconfigurabilità della violazione dell’art. 2697 c.c.: Cass. n. 15107 del 17/06/2013; Cass. n. 13395 del 29/05/2018; Cass. n. 31158 del 3/12/2018), che ha compiuto un accertamento argomentato in ordine all’esistenza del danno da mancato riposo, in assenza di prova del fatto impeditivo di un adeguato ristoro da parte del datore di lavoro (al primo capoverso di pg. 6 della sentenza), indubbiamente a suo carico, coerentemente con i principi espressi da questa Corte (Cass. n. 14710 del 14/07/2015; Cass. n. 18884 del 15/07/2019).

3. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione ex articolo 360 n. 3 c.p.c. dell’articolo 8, par. 6, Reg. CE 561/2006 e art. 36 Cost. posto che il tema dei riposi compensativi, come sollevato dalla difesa della datrice di lavoro, è stato immotivatamente superato dalla Corte d’Appello di Lecce che non ha ritenuto di computare le giornate di riposo compensativo godute dal ricorrente nelle settimane successive al riposo non goduto, senza tuttavia giustificare tale scelta interpretativa.

4. Esso è infondato, alla luce del consolidato orientamento già espresso da questa Corte sulla questione in oggetto con provvedimenti pronunciati anche nei confronti della stessa società ricorrente.

4.1. Vale osservare anzitutto che la Corte di appello di Lecce ha analizzato la normativa comunitaria, richiamando in particolare il paragrafo 7 del Reg. CEE che afferma “Qualsiasi riposo preso a compensazione di un periodo di riposo settimanale ridotto è attaccato ad un altro periodo di riposo di almeno 9 ore”.

Quindi sulla scorta di tale normativa ha correttamente affermato che il recupero delle ore di mancato riposo non può essere frazionato, dovendo essere continuativo o cumulabile con i riposi giornalieri e/o settimanali previsti.

4.2. La Corte territoriale ha altresì affermato che il danno da usura non può essere adeguatamente ristorato dalla successiva compensazione con riposi concessi in tempo successivo rispetto alla previsione legale e contrattuale della loro fruizione, atteso che la penosità da protratto espletamento della prestazione lavorativa incide in misura più che proporzionale rispetto alla durata della prestazione richiedendo un crescendo dispendio di energie lavorative.

La fruizione intempestiva di riposi, anche in prosecuzione di altri, diventa quindi inutile e si pone appunto in contrasto con la normativa dell’Unione. Né è pensabile che il riposo compensativo possa essere frazionato e concesso a piacimento quando il riposo giornaliero e/o settimanale superi di qualche ora quello previsto dalla normativa di riferimento, perché la regolamentazione CEE sul regime delle compensazioni è esplicita nel richiedere la continuità del riposo compensativo, da aggiungersi nella sua interezza a un riposo ordinario e nel distinguere l’uno dall’altro.

4.3. Le superiori affermazioni appaiono corrette ed in linea con la giurisprudenza di questa Corte sia sul danno da usura lavorativa, sia sui contenuti della normativa comunitaria; per avere la Corte accertato il sistematico prolungamento dell’attività lavorativa, non intervallata da adeguati riposi tra un turno e l’altro; ed effettuato altresì il corretto governo delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova, ricadendo in effetti sull’impresa datrice la prova del fatto impeditivo del determinarsi del pregiudizio da usura psicofisica quale la concessione di riposi compensativi, comunque apprezzata con valutazione negativa incentrata sulla sporadicità del ricorso alla compensazione tardiva, parimenti non contestata.

4.4. Per il resto va ribadito che il danno da usura psicofisica risulta accertato sulla base di una valutazione che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte in controversie di analogo contenuto (cfr. Cass. n. 14710/2015), ha tenuto conto della gravosità della prestazione, apprezzata con riguardo alla frequenza dei mancati tempestivi riposi ed alla durata del complessivo periodo di riferimento ed altresì determinato in via equitativa con riferimento alla disciplina contrattuale più congrua rispetto alla situazione di fatto (la Corte territoriale ha infatti inteso valorizzare il dato dell’eccedenza oraria determinata dalla mancata fruizione dei riposi) che come ritenuto da questa Corte (cfr. ancora Cass. n. 14710/2015) non può essere confusa con la maggiorazione contrattualmente prevista per la coincidenza di giornate di festività con la giornata di riposo settimanale.

4.5. Con sentenza n. 14710 del 14/07/2015 questa Corte ha affermato in particolare che ” La prestazione lavorativa, svolta in violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali (nella specie, la guida di autobus senza fruire di un riposo minimo di 11 ore giornaliere e un riposo settimanale di 45 ore consecutive) protrattasi per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell'”an” in quanto lesione del diritto garantito dall’art. 36 Cost., mentre, ai fini della determinazione del “quantum”, occorre tenere conto della gravosità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento “de qua”, da non confondere con la maggiorazione contrattualmente prevista per la coincidenza di giornate di festività con la giornata di riposo settimanale.”

Con ordinanza n. 12538 del 10/05/2019 è stato chiarito che “In tema di orario di lavoro, la prestazione lavorativa “eccedente”, che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, dovendo escludersi che la mera disponibilità alla prestazione lavorativa straordinaria possa integrare un “concorso colposo”, poiché, a fronte di un obbligo ex art. 2087 c.c. per il datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, la volontarietà di quest’ultimo, ravvisabile nella predetta disponibilità, non può connettersi causalmente all’evento, rappresentando una esposizione a rischio non idonea a determinare un concorso giuridicamente rilevante.

Con ordinanza n. 18884 del 15/07/2019 questa Corte ha statuito che “La mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di previsioni legittimanti la scelta datoriale, è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto, perché l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento del datore ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione del predetto interesse espone direttamente il datore medesimo al risarcimento del danno.

La giurisprudenza di legittimità ha altresì affermato il diritto del dipendente alla fruizione del necessario riposo, che dovrà essere garantito dalla azienda, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile, riconosciuto dalla Carta costituzionale oltre che dall’art. 5 della direttiva 2003/88/CE; e che la mancata fruizione del riposo settimanale è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto perché “l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno…”(Cass., SS. UU. n. 142 del 2013; n. 24180 del 2013; n. 16665 del 2015; n. 24563 del 2016). In termini si sono pronunciate anche Cass. n. 24212/20; Cass. n. 25135 del 2019; Cass. n.14710 del 2015; cfr. altresì Cass. nn. 25067, 25068, 25069 del 2015; e Cass. 28177/2021.

Il Collegio ritiene di dare continuità ai principi affermati nelle sentenze sopra indicate condividendone le ragioni esposte, da intendersi qui richiamate ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.

5.- In conclusione, sulla scorta delle premesse, il ricorso è privo di fondamento e deve essere quindi rigettato. Nulla deve disporsi per le spese non avendo l’intimato compiuto attività difensiva. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, D.P.R.115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1-bis del citato D.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2024.

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CONSULTA: SORPRENDENTE SENTENZA SUL “TERZO GENERE” SESSUALE

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Sentenza n. 143 del 2024

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COMMENTO

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2024, ha affrontato due questioni cruciali in materia di rettificazione del sesso:

1. **Introduzione di un Terzo Genere**: La Corte ha dichiarato inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Bolzano riguardante la possibilità di introdurre un “terzo genere” oltre a quello maschile e femminile. La Corte ha sottolineato che una tale modifica richiederebbe un intervento legislativo piuttosto che giudiziario, data la complessità e l’impatto generale sul sistema normativo italiano. Nonostante il riconoscimento della dignità sociale e della tutela della salute delle persone non binarie, la Corte ha evidenziato che attualmente non esiste un consenso europeo sul tema, come dimostrato da recenti decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Suprema del Regno Unito.

2. **Autorizzazione all’Intervento Chirurgico**: La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui richiede l’autorizzazione del tribunale per interventi medico-chirurgici quando la transizione è già stata completata tramite trattamenti ormonali e psicologici. La Corte ha giudicato irragionevole questa prescrizione, poiché l’autorizzazione giudiziale non è funzionale se la rettificazione del sesso è già stata riconosciuta senza necessità di un intervento chirurgico, violando quindi l’art. 3 della Costituzione Italiana.

La sentenza, pertanto, spinge il legislatore a prendere in considerazione la condizione non binaria, evidenziando l’importanza di adattare il quadro normativo per rispettare la dignità e il benessere psicofisico delle persone non binarie.

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SENTENZA

CORTE COSTITUZIONALE
Sentenza 143/2024
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente BARBERA – Redattore PETITTI
Udienza Pubblica del 18/06/2024 Decisione del 03/07/2024
Deposito del 23/07/2024 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 1 della legge 14/04/1982, n. 164 e 31, c. 4°, del decreto legislativo 01/09/2011, n. 150.
Massime:
Atti decisi: ord. 11/2024
SENTENZA N. 143
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo
BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in
materia di rettificazione di attribuzione di sesso), e 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011,
n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), promosso
dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, nel procedimento
instaurato da L. N., con ordinanza del 12 gennaio 2024, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2024 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visto l’atto di costituzione di L. N. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti;
uditi l’avvocato Alexander Schuster per L. N. e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente
del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 3 luglio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 gennaio 2024, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2024, il Tribunale di
Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione
di sesso), e dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili
di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).
L’art. 1 della legge n. 164 del 1982 violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «nella parte in cui
afferma che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad
una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei
suoi caratteri sessuali”, anziché prevedere che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale
passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita
ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi
caratteri sessuali”».
L’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost., «nella parte in cui
prevede che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante
trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è
regolato dai commi 1, 2 e 3”».
1.1.– Per quanto esposto nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale di Bolzano è stato adito da L. N.,
persona di sesso anagrafico femminile, la quale non si riconosce tuttavia in tale genere, né propriamente in
quello maschile, bensì in un genere non binario, seppure incline al polo maschile; assunto durante la
frequenza degli studi universitari il prenome maschile di I., dal quale ormai si sente definita rispetto agli
altri, N. si è infine rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, presso le quali ha ricevuto una diagnosi di
disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con propensione alla componente
maschile; da qui la sua domanda giudiziale per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro”
e il cambiamento del prenome da L. a I., nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni
intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (innanzitutto, la mastectomia).
1.2.– In ordine alla rilevanza delle questioni aventi ad oggetto l’art. 1 della legge n. 164 del 1982, il
giudice assume che la formulazione attuale della disposizione non consenta di accogliere a quo la domanda
di rettificazione verso un genere non binario.
«Sebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in
termini strettamente binari» – deduce il rimettente – «deve, infatti, ritenersi che l’ordinamento dello stato
civile vigente sia informato implicitamente sulla bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che
pertanto non sia configurabile una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere terzo».
Le questioni riferite all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbero rilevanti poiché, ove esse
fossero accolte, la persona interessata potrebbe accedere agli interventi medico-chirurgici di adeguamento
dei caratteri sessuali su base esclusivamente sanitaria e dunque il procedimento giudiziale «si concluderebbe
verosimilmente – in parte qua – con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione».
Entrambe le norme censurate non sarebbero suscettibili di interpretazione adeguatrice, né l’art. 1 della
legge n. 164 del 1982, implicitamente informato ad una logica di genere binario, né l’art. 31, comma 4, del
d.lgs. n. 150 del 2011, chiaro nel subordinare i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri
sessuali alla preventiva autorizzazione del giudice.
1.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ne esamina distintamente i
parametri, che, riguardo al tema del dimorfismo di genere, evocano anche un profilo convenzionale.
1.3.1.– Il Tribunale premette che la psicologia sociale ha ormai acquisito una concezione non binaria
dell’identità di genere, sul condiviso presupposto che il genere stesso non sia determinato unicamente dal
dato morfologico e cromosomico, ma altresì da fattori sociali e psicologici.
Richiamate la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’identità sessuale e le
pronunce sul terzo genere rese da alcune Corti costituzionali europee, il giudice a quo assume che
l’impossibilità di riconoscere tramite procedura di rettificazione l’autopercezione non binaria dell’individuo
comporti la violazione degli artt. 2, 32, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU,
per la lesione inflitta all’identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare della persona.
L’ingerenza determinata dalla norma censurata sulla vita privata e familiare della persona non binaria
non risponderebbe ai canoni di necessità e proporzionalità enucleati dalla giurisprudenza di Strasburgo
nell’interpretazione dell’art. 8 CEDU.
In particolare, per il suo carattere assoluto e l’assenza di qualunque bilanciamento, il sacrificio del
diritto individuale della persona con identità non binaria non potrebbe trovare giustificazione nell’interesse
pubblico alla certezza dei rapporti giuridici, segnatamente all’esatta differenziazione tra i generi presupposta
dall’attuale sistema di diritto familiare.
L’art. 1 della legge n. 164 del 1982 violerebbe altresì il principio di uguaglianza, poiché a coloro che
percepiscono un’identità di genere non binaria sarebbe preclusa la rettificazione di sesso viceversa
consentita alle persone con identità binaria, in tal modo evidenziandosi nella norma censurata
un’irragionevole lacuna.
1.3.2.– Quanto all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, richiamata la giurisprudenza
costituzionale sul carattere non necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione di
attribuzione del sesso – è citata la sentenza n. 221 del 2015 –, il Tribunale di Bolzano dubita «della
ragionevolezza del regime autorizzatorio previsto dalla normativa censurata, la quale impone un
apprezzamento di natura giudiziale sulla necessità dell’intervento chirurgico che dovrebbe per contro essere
demandato in via esclusiva ad una valutazione di natura medica e psicologica».
Con specifico riferimento alla sentenza n. 151 del 2009 di questa Corte, il rimettente evoca i limiti che la
discrezionalità legislativa incontra nella materia della pratica terapeutica, nella quale la regola di fondo
dovrebbe essere l’autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le
necessarie scelte professionali.
L’opzione legislativa di condizionare gli interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali
all’autorizzazione del tribunale non risponderebbe a necessità e proporzionalità, giacché tempi e costi della
procedura giudiziale ostacolerebbero l’affermazione del diritto del paziente che pure abbia ottenuto
un’indicazione medica favorevole, dalla quale peraltro difficilmente il giudice potrebbe discostarsi.
Sarebbero dunque violati gli artt. 2, 3 e 32 Cost., per l’ingiustificata compressione
dell’autodeterminazione individuale e del diritto alla salute.
Apparirebbe d’altronde irragionevole la disparità di trattamento fra chi debba sottoporsi a un intervento
chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali per una disforia di genere e chi debba sottoporsi a un
intervento chirurgico di altra natura, ma ugualmente irreversibile, per il primo soltanto esigendosi – oltre alla
valutazione sanitaria – l’autorizzazione del tribunale.
Il regime autorizzatorio neppure potrebbe essere giustificato dall’interesse pubblico alla certezza delle
relazioni giuridiche sotto il profilo della definizione del genere, poiché a tale interesse corrisponderebbe la
verifica giudiziale sul completamento della transizione ai fini della rettificazione anagrafica, mentre
resterebbe ad esso estranea l’autorizzazione ai trattamenti chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– Le questioni relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sarebbero inammissibili per il carattere
«creativo» del , «eccedente rispetto ai poteri della Corte costituzionale, implicando petitum scelte affidate
alla discrezionalità politica del legislatore».
Esse inoltre darebbero «per scontate risultanze scientifiche, come l’esistenza di un sesso diverso da
quello maschile e femminile, sulle quali invece la comunità scientifica è ben lontana dall’aver raggiunto un
consenso e un’opinione pienamente condivisa».
Poiché il giudizio a quo riguarda un adulto transessuale, sarebbe poi irrilevante ogni riferimento alla
condizione degli intersessuali, giacché questa concernerebbe essenzialmente «il quadro clinico di bambini,
per i quali può risultare difficile, alla nascita, riconoscere il sesso biologico, o per i quali possono emergere,
nel corso dello sviluppo, degli elementi di disarmonia delle varie componenti del sesso biologico».
Immotivata sarebbe poi la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8
CEDU, giacché la Corte europea dei diritti dell’uomo non avrebbe mai statuito «che la tutela della
percezione di genere richieda l’inserimento nei registri di stato civile di un terzo sesso, come vorrebbe il
giudice a quo».
2.2.– La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile per difetto di
rilevanza, in quanto dagli atti del giudizio principale «non emerge che alla parte ricorrente sia stata negata
l’esecuzione di un intervento chirurgico non autorizzato giudizialmente e che la stessa abbia
successivamente investito il giudice della questione relativa alla legittimità di tale diniego»; poiché «è la
stessa parte ricorrente ad aver applicato la norma in questione nel promuovere il giudizio da cui è scaturito
l’incidente di costituzionalità, rivolgendosi al giudice prima che al medico», essa «non può dolersi ex post
dell’asserita illegittimità di quella stessa norma, che non viene in rilievo nella soluzione della controversia
sub iudice».
L’inammissibilità della censura sarebbe resa evidente dalla constatazione che il suo accoglimento
negherebbe la potestas iudicandi del medesimo giudice adito dalla parte.
2.3.– Le questioni relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sarebbero comunque non fondate, poiché
«l’identità di genere, per sua natura mutevole, anche giornalmente se del caso – si pensi al caso dei
“genderfluid” – non è un dato che si presta a essere fatto oggetto di attestazioni di stato civile».
Il riferimento legislativo all’identità sessuale, anziché all’identità di genere, sarebbe razionale in
funzione della certezza dei rapporti giuridici e della stabilità dello stato civile, nonostante la differente
evoluzione del diritto dell’Unione europea, la cui competenza «si arresta alla definizione di un perimetro
normativo orientato ad escludere opzioni normative lesive della piena esplicazione del diritto all’identità di
genere non già a conformare positivamente in un senso o nell’altro le scelte del legislatore nazionale, ove il
rispetto dei diritti fondamentali della persona sia soddisfatto».
2.4.– Non fondate sarebbero anche le questioni relative all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011,
essendo «del tutto ragionevole affidare al giudice il vaglio ultimo sull’effettiva appropriatezza
dell’intervento chirurgico», nell’ambito di una valutazione complessiva, «che non si limita al solo aspetto
medico, ma determina rilevanti conseguenze sociali».
Non sarebbe quindi prospettabile una disparità di trattamento rispetto ad altri trattamenti sanitari
irreversibili, ma ininfluenti sullo stato civile della persona, i quali, proprio per questa ininfluenza, non
esigerebbero un vaglio ulteriore a quello medico.
In ogni caso, l’art. 6 della legge n. 164 del 1982 «consente all’interessato di operarsi con costi a proprio
carico anche al di fuori del sistema sanitario nazionale, se ha urgenza tale da non poter attendere il vaglio
giudiziario richiesto dall’ordinamento, senza compromettere la possibilità di rettificazione anagrafica».
3.– Si è costituita in giudizio L. N., che ha chiesto l’accoglimento delle censure.
3.1.– Riguardo a quella sull’art. 1 della legge n. 164 del 1982, osservato che gli approdi scientifici
sull’esistenza dell’identità di genere non binaria hanno ormai trovato accoglimento in numerosi ordinamenti
europei, e nello stesso diritto dell’Unione – si cita il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e
del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti
per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n.
1024/2012 –, L. N. deduce che il mancato riconoscimento di tale identità da parte della norma censurata
lederebbe un diritto fondamentale della persona nella sua dimensione sociale, e quindi violerebbe l’art. 2
Cost.
Sarebbe violato anche l’art. 3 Cost., essendo contrario al principio di uguaglianza applicare alla persona
con identità non binaria «una disciplina che, invece, è confezionata per i diversi casi in cui chi chiede la
riattribuzione afferma una identità o maschile o femminile».
D’altro canto, la negazione dell’identità di genere non binaria violerebbe l’art. 32 Cost., in quanto
comprometterebbe il benessere psicofisico della persona, esponendola, soprattutto nella fase vulnerabile
dell’adolescenza, «ai rischi di autolesionismo, alle spinte suicidarie, alle situazioni di emarginazione e di
anoressia che troppo spesso rappresentano le narrazioni che giungono nelle aule dei tribunali d’Italia».
Emergerebbe infine un europeo sufficiente a ricondurre la tutela delle consensus persone non binarie
nell’alveo dell’art. 8 CEDU, richiamato dall’art. 117, primo comma, Cost.
3.2.– Subordinando all’autorizzazione giudiziale l’effettuazione dell’intervento chirurgico avvertito
come necessario dalla persona transessuale, l’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 ne lederebbe il
diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica, violando così l’art. 2 Cost., anche per i tempi e i
costi del processo.
Ricorrerebbe inoltre la violazione dell’art. 3 Cost., poiché esigere l’autorizzazione del tribunale per un
intervento chirurgico sorretto dall’alleanza tra medico e paziente sarebbe per un verso irragionevole,
trattandosi di un intervento lecito in sé, e per altro verso discriminatorio: «[q]uanto ad analoghi interventi di
natura terapeutica riconducibili non alla disforia di genere, ma a patologie oncologiche, infatti,
l’orchiectomia o l’isterectomia sono rimesse esclusivamente al giudizio medico e al consenso del paziente».
La discriminazione sarebbe «aggravata dallo stigma che rappresenta l’autorizzazione giudiziale riservata
specificamente alle persone trans adulte», sostanzialmente parificate all’incapace, che necessita
dell’autorizzazione del giudice tutelare, in spregio ai principi di autonomia del paziente consacrati dalla
legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di
trattamento).
Lo stigma indotto dal regime autorizzatorio sarebbe «profondamente lesivo della dignità delle persone
trans, tanto più in un contesto in cui la scienza medica internazionale ha depatologizzato la loro condizione».
La violazione più macroscopica sarebbe tuttavia inferta all’art. 32 Cost., in quanto il ritardo o il diniego
dell’autorizzazione giudiziale impedirebbero al medico di eseguire e al paziente di ricevere un trattamento
che essi reputano necessario.
Ad avviso della parte, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011
sarebbe riferibile anche a parametri non evocati dal rimettente: l’art. 13, primo comma, Cost., sotto il profilo
dell’inviolabilità della libertà personale del transessuale; l’art. 97, secondo comma, Cost., per l’aggravio
sull’amministrazione giudiziaria di un compito improprio; l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia
all’art. 8 CEDU, sia agli artt. 3 e 4 della direttiva 2004/113/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, che
attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi
e la loro fornitura, parametri, questi ultimi, violati rispettivamente dall’ingerenza pubblica nella vita privata
e familiare della persona transessuale e dall’ostacolo ad essa frapposto nell’accesso alla prestazione
sanitaria.
4.– Hanno presentato opinioni quali l’Osservatorio nazionale sull’identità amici curiae di genere
(ONIG), la Rete Lenford-Avvocatura per i diritti LGBTI+ e il Centro Studi “Rosario Livatino”, le prime due
associazioni di promozione dei diritti delle persone transgender, la terza ispirata ai valori e ai principi del
diritto naturale.
Le tre opinioni sono state ammesse con decreto presidenziale del 12 aprile 2024.
4.1.– L’ONIG cita letteratura scientifica e raccomandazioni sovranazionali orientate al riconoscimento
dell’identità di genere delle persone non binarie.
Quanto all’autorizzazione giudiziale ex art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, l’associazione
enfatizza il «primato della scienza sul diritto».
4.2.– La Rete Lenford illustra gli esiti di un’indagine nazionale condotta tra le persone non binarie, circa
la percezione negativa del binarismo di genere proprio dell’ordinamento italiano.
L’associazione deduce che la tutela antidiscriminatoria di queste persone non richiede necessariamente
l’introduzione di un «terzo genere» di stato civile, essendo sufficiente garantire la cancellazione
dell’attribuzione di un sesso nel quale l’individuo non si identifica.
L’opinione considera il regime autorizzatorio ex art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 gravemente
lesivo del diritto della persona all’autodeterminazione terapeutica, in quanto il vaglio del tribunale si
risolverebbe in una «superfetazione decisionale» sul corpo altrui.
4.3.– Per il Centro Studi “Rosario Livatino”, l’accoglimento delle questioni sollevate dal Tribunale di
Bolzano sovvertirebbe il bilanciamento legislativo tra il diritto all’identità delle persone con disforia di
genere e l’interesse pubblico all’attribuzione del sesso su base biologica: «[a]i fini della rettificazione
anagrafica sarebbe di fatto decisivo il solo dato puramente soggettivo della percezione di sé come persona
neutra».
D’altronde, non esisterebbe un’obbligazione positiva di fonte convenzionale quanto all’impostazione
non binaria dei registri di stato civile (si menziona Corte EDU, sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro
Francia).
Infine, la previsione dell’autorizzazione giudiziale al trattamento chirurgico di modificazione dei
caratteri sessuali sarebbe ragionevole perché diretta a «tutelare il soggetto interessato, il quale, trovandosi in
una situazione di particolare fragilità esistenziale proprio a causa della patologia dalla quale è affetto,
potrebbe assumere decisioni estremamente gravi ed irreversibili senza la necessaria consapevolezza ed
informazione che possono darsi solo in un rapporto autentico di cura».
4.4.– Una quarta opinione è stata presentata fuori termine da Transgender Europe (TGEU) e dal ramo
europeo della International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (ILGA-Europe).
5.– In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della parte ha depositato memoria, insistendo per
l’accoglimento di tutte le sollevate questioni.
5.1.– Riguardo al binarismo di genere, premesso che «[l]a comunità scientifica internazionale […] ha
accertato l’esistenza delle identità non binarie», la parte assume che le relative questioni di legittimità
costituzionale siano «a rime obbligate»: «considerato l’attuale assetto dello stato civile», infatti, si
tratterebbe di ammettere che la persona non sia attribuita né al sesso maschile, né al femminile, dovendosi
viceversa accogliere la «soluzione “altro” o “diverso” già adottata in altri ordinamenti».
La parte ritiene che la citata sentenza della Corte EDU, Y. contro Francia, la quale ha negato l’esistenza
di un’obbligazione statale di registrazione alternativa, non abbia carattere ostativo, trattandosi di un ambito
giuridico «in forte evoluzione», nel quale «proprio in questi anni si registra l’emergere di un consenso»
orientato alla tutela delle persone non binarie.
5.2.– Circa la previsione dell’autorizzazione giudiziale per l’intervento chirurgico di adeguamento dei
caratteri sessuali, la memoria ne assume l’irragionevolezza e l’obsolescenza.
Essa non potrebbe essere accostata alla prescrizione legale del vaglio giudiziario per la donazione di
rene tra viventi, giacché, a differenza della persona transessuale, «il donatore non tutela la propria salute e
non è un paziente nel momento in cui l’autorizzazione è data».
Mentre comprimerebbe il diritto individuale all’autodeterminazione terapeutica, il censurato regime
autorizzatorio risulterebbe ormai privo di qualunque giustificazione, specie alla luce della legge n. 219 del
2017 sul consenso informato e della sentenza di questa Corte n. 242 del 2019, con le quali persino «[l]a
dignità del fine vita è stata garantita senza la necessaria intermediazione dell’autorità giudiziaria».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bolzano ha sollevato due serie di questioni di
legittimità costituzionale, tra loro indipendenti.
Innanzitutto, è censurato l’art. 1 della legge n. 164 del 1982, poiché violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nella parte in cui non prevede che quello
assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso possa essere un «altro sesso», diverso
dal maschile e dal femminile.
È altresì censurato l’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, che violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost.,
nella parte in cui subordina all’autorizzazione del tribunale la realizzazione del trattamento
medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, eventualmente necessario ai fini della
rettificazione.
1.1.– Il giudice riferisce di essere stato adito da una persona di sesso anagrafico a quo femminile, che,
non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, bensì in un genere non binario, si è rivolta alle
strutture sanitarie pubbliche, dalle quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per
identificazione non binaria, con inclinazione al polo maschile.
Al Tribunale di Bolzano la persona ha chiesto la rettificazione di attribuzione del sesso da femminile ad
“altro”, il cambiamento del prenome (dal femminile L. al maschile I.) e il riconoscimento del diritto di
sottoporsi ad ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (principalmente, una mastectomia).
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente assume che quelle relative all’art. 1 della legge
n. 164 del 1982 non possano essere superate in via interpretativa, poiché, «[s]ebbene tale disposizione non
faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in termini strettamente binari»,
dovrebbe ritenersi «che l’ordinamento dello stato civile vigente sia informato implicitamente sulla
bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che pertanto non sia configurabile una rettificazione
anagrafica con attribuzione di un genere terzo».
Dal canto loro, le questioni riferite all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbero rilevanti
poiché, ove esse fossero accolte, l’interessato potrebbe accedere agli interventi medico-chirurgici di
adeguamento dei caratteri sessuali su base esclusivamente sanitaria e, dunque, il procedimento giudiziale si
chiuderebbe in parte qua «con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione».
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente assume che l’impossibilità di attribuire in
rettificazione il genere non binario leda l’identità sociale della persona, la sua salute come benessere
psicofisico e il rispetto della sua vita privata e familiare; sarebbe inoltre violato il principio di uguaglianza,
poiché la rettificazione sarebbe consentita solo ai portatori di un’identità binaria, con immotivata esclusione
di coloro che viceversa sentano di appartenere a un genere non binario.
Per altro verso, il regime autorizzatorio del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri
sessuali, prescrivendo un vaglio giudiziale su una scelta terapeutica di un adulto, ne comprimerebbe
ingiustificatamente i diritti all’autodeterminazione e alla salute, discriminandolo rispetto a chi debba
sottoporsi a un intervento chirurgico parimenti irreversibile ma ad un fine diverso da quello dell’attribuzione
di sesso.
2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– L’inammissibilità delle questioni sul binarismo di genere è eccepita in ragione della creatività del
petitum, ad esse peraltro imputandosi di dare per scontata l’esistenza di un sesso diverso dal maschile e
femminile, di sovrapporre i pur distinti concetti di transessualità e intersessualità, nonché di lasciare
immotivato il riferimento al parametro convenzionale.
La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile per difetto di
rilevanza, non risultando che vi sia stato nella specie un diniego di autorizzazione all’intervento chirurgico.
2.2.– Nel merito – secondo l’Avvocatura generale – tutte le questioni sarebbero non fondate.
L’identità di genere, «per sua natura mutevole», non si presterebbe a formare oggetto delle attestazioni
di stato civile, che quindi ragionevolmente il legislatore baserebbe sull’identità sessuale, quale dato
provvisto di stabilità.
D’altro canto, il peculiare impatto sociale della rettificazione anagrafica di sesso giustificherebbe la
prescrizione dell’autorizzazione giudiziale circa l’appropriatezza dell’intervento chirurgico, fermo che, alla
luce dell’art. 6 della legge n. 164 del 1982, l’interessato potrebbe pur sempre «operarsi con costi a proprio
carico anche al di fuori del sistema sanitario nazionale, se ha urgenza tale da non poter attendere il vaglio
giudiziario richiesto dall’ordinamento».
3.– Costituitasi in giudizio, la parte ha aderito agli argomenti del rimettente, peraltro evocando, quanto
alla censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, parametri ulteriori (artt. 13, primo comma, 97,
secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU, 3 e 4 della direttiva
2004/113/CE).
4.– Come anticipato, le due serie di questioni proposte dal Tribunale di Bolzano sono autonome l’una
dall’altra.
Invero, la prima concerne la dimensione – relativamente nuova per il diritto – della rivendicazione di
un’identità di genere non binaria, mentre la seconda rileva anche per la condizione, ormai ben nota
all’ordinamento, della persona che transiti dal genere femminile al maschile, o viceversa.
È opportuno premettere all’esame di entrambi i gruppi di censure una sintetica ricostruzione del quadro
normativo e giurisprudenziale, come evoluto in materia.
4.1.– La legge n. 164 del 1982 è stata emanata per affrontare la problematica della transessualità, vale a
dire il disallineamento e la ricomposizione tra il sesso biologico, attribuito alla nascita su base
morfologico-genotipica, e l’identità sessuale, percepita dall’individuo nello sviluppo della sua personalità
(l’art. 2 della legge, poi abrogato, parlava, al quarto comma, di «condizioni psico-sessuali»).
Le questioni non riguardano dunque il tema – contiguo, ma diverso – dell’intersessualità, la quale
concerne le ipotesi in cui, per ermafroditismo o alterazioni cromosomiche, lo stesso sesso biologico risulti
incerto alla nascita.
Allo scopo di permettere il riallineamento tra le condizioni somatiche e quelle
psicologico-comportamentali, l’art. 1 della legge n. 164 del 1982 ha consentito la rettificazione di stato
civile «in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da
quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
4.2.– Nella sentenza n. 161 del 1985, questa Corte ha sottolineato come la legge allora da poco varata si
collocasse «nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità,
della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie».
La stessa sentenza ha rimarcato che l’allineamento somatico all’identità sessuale è funzionale a
ripristinare lo stato di benessere della persona e che è dovere di solidarietà per gli altri membri della
collettività riconoscere l’identità oggetto di transizione, senza che quest’ultima possa essere considerata
fattore di perturbamento dei rapporti sociali e giuridici, atteso che «il far coincidere l’identificazione
anagrafica del sesso alle apparenze esterne del soggetto interessato o, se si vuole, al suo orientamento
psicologico e comportamentale, favorisce anche la chiarezza dei rapporti sociali e, così, la certezza dei
rapporti giuridici».
4.3.– Con la sentenza n. 221 del 2015, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sul requisito normativo
delle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali», quale condizione della pronuncia di
rettificazione, ha escluso che le stesse includano necessariamente un trattamento chirurgico, in quanto le
modalità dell’adeguamento dei caratteri sessuali devono adattarsi all’«irriducibile varietà delle singole
situazioni soggettive».
«L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica» –
si è precisato – «appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali
– rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di
altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici,
comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere».
Posto che quest’ultima è «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo
nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)», il trattamento
chirurgico è stato quindi riconfigurato «non quale prerequisito per accedere al procedimento di
rettificazione», bensì «come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere
psicofisico».
4.4.– Successivamente, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, sebbene «l’interpretazione
costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento
chirurgico di normoconformazione», «ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un
accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva
transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che
corrobora e rafforza l’intento così manifestato», sicché «va escluso che il solo elemento volontaristico possa
rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione» (sentenza n. 180 del 2017;
poi, nel medesimo senso, ordinanza n. 185 del 2017).
4.5.– L’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011 è intervenuto sugli aspetti procedurali della legge n. 164 del
1982.
I primi tre commi della norma stabiliscono che le controversie in materia di rettificazione di attribuzione
di sesso, ove non diversamente disposto, sono regolate dal rito ordinario di cognizione (comma 1); la
competenza spetta al tribunale, in composizione collegiale, del luogo di residenza dell’attore (comma 2);
l’atto di citazione è notificato al coniuge e ai figli dell’attore e al giudizio partecipa il pubblico ministero
(comma 3).
Il comma 4 dell’art. 31 – qui oggetto di censura – dispone che «[q]uando risulta necessario un
adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo
autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3».
Si tratta di un adattamento processuale di quanto già prevedeva l’art. 3 della legge n. 164 del 1982
(contestualmente abrogato dall’art. 34, comma 39, lettera , dello stesso d.lgs. n. 150 c del 2011), il quale
infatti stabiliva che «[i]l tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da
realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza» (primo comma) e che «[i]n tal
caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di
consiglio» (secondo comma).
Nel passaggio dalla legge n. 164 del 1982 al d.lgs. n. 150 del 2011 non è, quindi, mutata la struttura
unitaria ed eventualmente bifasica del procedimento di rettificazione e, anzi, pur nell’ambito di una
legislazione delegata alla semplificazione dei riti, quella struttura è stata assoggettata al modello del giudizio
ordinario di cognizione, in luogo della precedente forma camerale.
Un ritorno a forme procedimentali più snelle deriverebbe dall’attrazione delle controversie di
rettificazione nell’ambito di applicazione del rito unificato in materia di persone, minorenni e famiglie,
attrazione delineatasi nel quadro dell’elaborazione delle disposizioni integrative e correttive al decreto
legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al
Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione
alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti
delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata).
5.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982
sono inammissibili.
Pur evidenziando un problema di tono costituzionale, esse, per le ricadute sistematiche che implicano,
eccedono il perimetro del sindacato di questa Corte.
5.1.– La diagnosi rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica in funzione del giudizio a quo conferma
nella specie la realtà clinica dell’identificazione non binaria e invero essa, come trascritta nell’ordinanza di
rimessione, sottolinea che «[i] termini disforia di genere (DSM-5) e incongruenza di genere (ICD-11)
includono sia le denominazioni di genere binarie (maschile/femminile) sia tutte le altre forme di definizione
di genere (riassunte nel termine non-binario)».
Per il DSM-5 (quinta revisione del «Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders»), la
disforia di genere, oltre che al maschile e al femminile, può attenere a «some alternative gender»; lo stesso
per l’incongruenza di genere, classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)
nell’ICD-11 (undicesima revisione dell’«International Classification of Diseases»).
5.2.– Non pochi ordinamenti europei – da ultimo quello tedesco, con la recente legge
sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso («Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug
auf den Geschlechtseintrag SBGG») – hanno riconosciuto e disciplinato l’identità non binaria, seppure in
forme diversificate.
La Corte costituzionale belga ha censurato la delimitazione binaria della disciplina legislativa della
transizione di genere, stigmatizzando l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al
sesso maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n° 99/2019 del
19 giugno 2019).
Lo stesso diritto dell’Unione europea da tempo va evolvendo in tal senso, e infatti, per favorire la
circolazione dei documenti pubblici tra gli Stati membri, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i
requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il
regolamento (UE) n. 1024/2012, presenta moduli standard recanti alla voce «sesso» non due diciture, ma tre,
«femminile», «maschile» e «indeterminato».
5.3.– Le indicazioni che provengono dagli ordinamenti degli Stati europei e dalle Corti sovranazionali
non sono tuttavia univoche.
Mentre è ormai ferma nell’accordare tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario (fin
dalla sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, Christine Goodwin contro Regno unito), la Corte EDU
ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non
binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio
2023, Y. contro Francia).
In senso analogo si era già espressa la Corte suprema del Regno unito, a proposito dell’identificazione
non binaria tramite marcatore “X” sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).
5.4.– La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da
cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio
significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2
Cost.).
Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della
persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della
salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.
In vari ambiti della comunità nazionale si manifesta una sempre più avvertita sensibilità nei confronti di
questa realtà pur minoritaria, come dimostra, tra l’altro, la pratica delle “carriere alias”, tramite le quali
diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai
fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito.
Tali considerazioni, unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la
condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale.
5.5.– D’altronde, l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale,
che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i
numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria.
Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia
(così per il matrimonio e l’unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello
stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per
la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i “luoghi di contatto”, quali carceri,
ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile).
L’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a
norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), dopo aver sancito il principio della parità di
trattamento e di opportunità «tra donne e uomini», da assicurare in tutti i campi (comma 2), precisa che esso
non osta al mantenimento o all’adozione di misure in favore del «sesso sottorappresentato» (comma 3).
La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto
per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona.
Infatti, l’art. 35, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe
superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell’onomastica
italiana i nomi ambigenere sono rarissimi (lo conferma proprio il caso di specie, nel quale la persona chiede
il riconoscimento dell’identità non binaria e vuole pertanto abbandonare il nome femminile imposto alla
nascita, e tuttavia opta, in sostituzione, per un nome maschile).
5.6.– Tutto ciò considerato, in accoglimento della pertinente eccezione della difesa statale, le questioni
di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164
del 1982 vanno dichiarate inammissibili.
6.– La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 è invece fondata, nei limiti di cui
appresso.
6.1.– All’esame di merito di tali ulteriori questioni non ostano ragioni di inammissibilità.
6.1.1.– L’eccezione di difetto di rilevanza sollevata al riguardo dalla difesa statale è priva di
fondamento.
Invero, la deduzione dell’Avvocatura per cui «è la stessa parte ricorrente ad aver applicato la norma in
questione nel promuovere il giudizio da cui è scaturito l’incidente di costituzionalità, rivolgendosi al giudice
prima che al medico», non è pertinente, in quanto è proprio la disposizione oggetto di censura, nella
formulazione vigente, a prescrivere tale sequenza.
6.1.2.– Neppure è persuasivo l’argomento della facoltatività dell’autorizzazione giudiziale all’intervento
chirurgico, speso dall’Avvocatura generale nella trattazione di merito e che tuttavia – ove fosse fondato –
inciderebbe proprio sulla rilevanza delle questioni.
Per sostenere tale argomento la difesa statale richiama l’art. 6 della legge n. 164 del 1982, che tuttavia
riguarda una fattispecie di diritto transitorio, i cui effetti sono ormai da tempo esauriti (la disposizione fissa
un termine annuale per la domanda di rettificazione «[n]el caso che alla data di entrata in vigore della
presente legge l’attore si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso»).
Verosimilmente, l’Avvocatura intende piuttosto riferirsi all’orientamento della giurisprudenza di
legittimità secondo il quale la persona transessuale che si sia sottoposta all’intervento chirurgico di
adeguamento dei caratteri sessuali senza l’autorizzazione giudiziale non per questo perde il diritto alla
rettificazione anagrafica (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 14 dicembre 2017, n. 30125).
È evidente tuttavia che trattasi di due piani differenti, giacché le conseguenze dell’eventuale mancata
autorizzazione non possono riflettersi sulla relativa prescrizione, che è tuttora nella legge.
6.1.3.– Occorre interrogarsi d’ufficio riguardo all’incidenza che sulla rilevanza delle questioni ora in
scrutinio potrebbe spiegare la constatata inammissibilità di quelle relative al binarismo di genere.
Neppure questo profilo si rivela però ostativo all’esame di merito della censura dell’art. 31, comma 4,
del d.lgs. n. 150 del 2011, poiché, a conferma della più volte segnalata autonomia delle due serie di
questioni, l’attore del giudizio chiede di sottoporsi a interventi chirurgici di adeguamento a quo in senso
gino-androide, funzionali ad una transizione che, non potendo essere allo stato non binaria, sarà dal genere
femminile al maschile.
6.1.4.– Le questioni relative all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 devono essere, pertanto,
vagliate nel merito.
I parametri sono unicamente quelli evocati dal rimettente – artt. 2, 3 e 32 Cost. –, non potendosi
considerare gli ulteriori dedotti dalla parte costituita, la quale, per giurisprudenza costante di questa Corte,
non ha il potere di ampliare il thema decidendum del giudizio incidentale di legittimità costituzionale (tra
molte, sentenze n. 112 e n. 50 del 2024, n. 215, n. 184 e n. 161 del 2023).
6.2.– La previsione dell’autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento
dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla legge n. 164 del 1982 nel momento in cui
l’ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell’attribuzione di sesso.
Pur non avendo eguali nel panorama comparatistico, che evidenzia semmai una progressiva
focalizzazione sull’autodeterminazione individuale, e pur non essendo priva di tratti paternalistici, rispetto a
persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi, questa prescrizione normativa non può dirsi in sé
manifestamente irragionevole, e quindi esorbitante dalla sfera della discrezionalità legislativa, considerata
l’entità e la irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici.
6.2.1.– Il regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina
con l’incidenza sul quadro normativo della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20
luglio 2015, n. 15138, e successivamente della sentenza di questa Corte n. 221 del 2015.
Come più sopra ricordato, tale evoluzione giurisprudenziale ha escluso che le modificazioni dei caratteri
sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un
trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un «possibile mezzo, funzionale al
conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (sentenza n. 221 del 2015).
La sentenza n. 180 del 2017 ha quindi ribadito – come già visto – che agli effetti della rettificazione è
necessario e sufficiente l’accertamento dell’«intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa
nel percorso seguito dalla persona interessata».
Potendo questo percorso compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno
psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, la prescrizione
indistinta dell’autorizzazione giudiziale denuncia una palese irragionevolezza: in tal caso, infatti, un
eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione.
6.2.2.– Tale mutato quadro normativo e giurisprudenziale, in cui l’autorizzazione prevista dalla
disposizione oggi censurata mostra di aver perduto ogni ragion d’essere al cospetto di un percorso di
transizione già sufficientemente avanzato, è alla base dell’orientamento diffusosi presso la giurisprudenza di
merito, che sovente autorizza l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non
prima e in funzione della rettificazione stessa (tra molte, da ultimo, Tribunale ordinario di Padova, sezione
prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, sentenza 27
marzo 2024).
6.2.3.– Nella fattispecie concreta di cui al giudizio principale si verte appunto in un caso di questo tipo,
poiché l’ordinanza di rimessione sottolinea come l’attore per rettificazione abbia «sufficientemente
dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici
effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione».
Anche in tal caso, quindi, pur potendo seguire la pronuncia della sentenza di rettificazione, in funzione
di un maggior benessere psicofisico della persona, l’intervento chirurgico di adeguamento dei residui
caratteri del sesso anagrafico non è necessario alla pronuncia medesima, sicché la prescritta autorizzazione
giudiziale non corrisponde più alla ratio legis.
6.2.4.– Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n.
150 del 2011 – per irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui prescrive l’autorizzazione
del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già
intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione
di attribuzione di sesso.
Restano assorbite le altre censure.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011,
n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte
in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le
modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per
l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982,
n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32
e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28
dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell’art. 29 delle
Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.

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SVOLTA DELLA COMPOSIZIONE NEGOZIATA: maggiore impulso con il correttivo della crisi

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Il recente decreto correttivo al Codice della crisi d’impresa, approvato lunedì dal Consiglio dei Ministri, mira a dare maggiore impulso alla composizione negoziata come strumento per facilitare una gestione soft della crisi d’impresa. L’intervento del decreto si estende su diversi fronti.

In primo luogo, per quanto riguarda le condizioni di accesso, il decreto chiarisce che la composizione negoziata è accessibile non solo quando l’impresa è in crisi o insolvente, ma anche, diversamente dagli altri strumenti di regolazione della crisi, quando si trova semplicemente in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario.

Un punto cruciale del decreto è il miglioramento delle trattative con gli istituti di credito. A un richiamo generico alla partecipazione attiva e informata degli istituti si affianca una soluzione più specifica: il flusso di credito verso l’impresa. L’obiettivo è bilanciare la necessità dell’impresa di continuare a disporre di liquidità con l’esigenza degli istituti di credito di non subire danni patrimoniali a causa dell’obbligo di continuare a erogare finanziamenti.

Il Ministero della Giustizia ha osservato che spesso l’accesso alla composizione negoziata porta gli istituti di credito a sospendere o interrompere le linee di credito, invocando la disciplina prudenziale, con il rischio di compromettere il processo di risanamento dell’impresa. Per affrontare queste criticità, il decreto precisa il rapporto tra accesso alle trattative e normativa prudenziale bancaria, stabilendo che l’accesso alla composizione negoziata non comporta automaticamente una diversa classificazione del credito.

In questo modo, si enfatizza la necessità che gli istituti bancari valutino caso per caso se l’impresa che apre le trattative si trovi effettivamente in una situazione di difficoltà tale da giustificare l’applicazione della normativa prudenziale, considerando le condizioni dell’impresa e il progetto di piano presentato, nonché le concrete prospettive di risanamento.

Inoltre, la composizione negoziata è uno strumento utilizzabile anche in una situazione di pre-crisi, come evidenziato dalla precisazione sulle condizioni di accesso, e solo nei casi in cui sia possibile il pieno recupero dell’equilibrio economico-patrimoniale dell’attività imprenditoriale.

Infine, il decreto introduce una previsione secondo cui la prosecuzione dei rapporti non è causa di responsabilità per gli istituti bancari, proteggendoli da possibili future azioni di abusiva concessione del credito. Questo dovrebbe indirettamente incoraggiare la concessione di liquidità all’impresa.

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“APPREZZAMENTO PROVE TESTIMONIALI RISERVATO AL GIUDICE” – Cass. Sent. n. 19519/2024

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COMMENTO

.La sentenza della Cassazione n. 19519 del 2024 riafferma che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come pure la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, rientrano negli apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito. Il giudice, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, ha come unico limite quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive. Si devono infatti ritenere implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

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“MOTIVAZIONE APPARENTE” – SENTENZA CASSAZIONE N. 19305/2024:

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Afferma la sussistenza della “MOTIVAZIONE APPARENTE”

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COMMENTO

L’ordinanza afferma che si ha una “motivazione apparente” quando, nonostante la motivazione sia presente graficamente e materialmente nel documento che costituisce il provvedimento giudiziale, non riesce a rendere comprensibili le ragioni della decisione. Questo accade perché le argomentazioni riportate sono obiettivamente incapaci di chiarire il percorso logico seguito per giungere alla conclusione. In tal modo, la motivazione non permette alcun effettivo controllo sulla correttezza e sulla coerenza del ragionamento del giudice, poiché non si può lasciare all’interprete il compito di integrare la motivazione con congetture varie e ipotetiche.

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SENTENZA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:
Oggetto:
TRIBUTI ALTRI Ud.23/05/2024 C
ANDREINA GIUDICEPIETRO GIAN PAOLO MACAGNO
PAOLO DI MARZIO
MARCELLO MARIA FRACANZANI FEDERICO LUME
Presidente
Consigliere-Rel. Consigliere Consigliere Consigliere
ha pronunciato la seguente ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28607/2017 R.G. proposto da: elettivamente domiciliata in ROMA
presso lo studio dell’avvocato
chel orappresentae difendeunitamente
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE domiciliata ex lege in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso lA’ VVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende
e contro EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA
-resistente-
-intimata-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LAZIO n. 2596/2017 depositata li 10/05/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/05/2024 dal Consigliere Gian Paolo Macagno.
1.
FATTI DI CAUSA
ricorre, con due motivi, avverso al
sentenza della CTR del Lazio di cui in epigrafe, che, ni accoglimento dell’appello erariale, ha rigettato li ricorsop r o p o s t o dalla

Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48
Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024 Numero di raccolta generale 1930512024 contribuente avverso al cartella di pagamento notificatale pal pubblazione 12/07/2024
2006, e di cui aveva lamentato l’illegittimità per difetto di notifica del presupposto avviso di accertamento.

  1. L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione per l’eventuale discussione in udienza pubblica e l’Agenzia delle entrate – Riscossione è rimasta intimata.
    RAGIONI DELLA DECISIONE
  2. Con il primo motivo di ricorso la contribuente lamenta il
    vizio di motivazione della sentenza impugnata, per errata
    valutazione delle istanze istruttorie.
    La censura, pur
    non richiamando espressamente il riferimento normativo, deve ritenersi formulata in relazione al vizio di cui all’art. 360, n. 4 cod. proc. civ.
    1.1. Lamenta in particolare la ricorrente che i giudici di
    appello non abbiano preso in considerazione le difese della
    contribuente e, che, ni particolare, non abbiano dato conto: i) della incompletezza della relata di notificazione dell’avviso di accertamento, per essere la stessa carente del numero della
    raccomandata informativa inviata; ii) del fatto che, in pari data, siano stati notificati alla contribuente tre diversi avvisi di
    accertamento; iii) del fatto che, conseguentemente, la raccomandata prodotta in giudizio dall’Amministrazione non fosse riferibile con certezza all’atto in contestazione.
  3. Il motivo è fondato.
    La violazione denunciata si configura quando la motivazione
    «manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue
    l’enunciazione della decisione
    senza alcuna argomentazione –
    ovvero … essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente
    contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Tale anomalia si
    esaurisce nella “mancanza assoluta di 2 di 5
    motivi sotto l’aspetto Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024
    materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, Numero pi raccolta geperale 19305/2024 , nel contrasto
    Jata pubblicazione 12/0/12024
    irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
    perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione,
    sempre che li vizio emerga immediatamente e direttamente dal
    testo della sentenza impugnata» (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n.
    8053; successivamente tra le tante Cass. 01/03/2022, n. 6626; Cass. 25/09/2018, n. 22598).
    2.1. In particolare, si è in presenza di una «motivazione apparente» allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicita del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete li compito di integrarla con le più varie ed ipotetiche congetture. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella «perplessa e incomprensibile»; in entrambi i casi, invero – e purché li vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error ni procedendo e, ni quanto tale, comporta al nullità della sentenza impugnata per cassazione (Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. 22232 e le sentenze ivi citate).
    2.2. Occorre ancora premettere che la parte rimasta totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre
    appello incidentale per chiedere il riesame delle domande e delle eccezioni respinte, ritenute assorbite o comunque non esaminate con la sentenza impugnata dalla parte soccombente, essendo sufficiente la riproposizione di tali domande od eccezioni in una
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    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48 Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024
    delle difese del giudizio di secondo grado (cfr. Cass. 10966/200478 15012024 Data pubblicazione 12/07/2024
    Cass. 9606/2004; Cass. 14085/2014)
    2.3. Si rileva inoltre che la ricorrente, in ossequio al principio
    di autosufficienza ha riprodotto le articolate contestazioni in merito
    alla non riconducibilità della relata di notifica prodotta
    dall’Amministrazione all’avviso di accertamento, riproposti nelle
    controdeduzioni ni appello, e ha integralmente trascritto al relata di notifica di cui contesta l’attribuibilità all’avviso di accertamento
    controverso.
    2.4. La CTR ha accolto l’appello dell’ufficio argomentando che
    «Dalla documentazione versata in atti risulta che nel caso di specie l’amministrazione finanziaria ha provveduto alle relative
    incombenze con invio anche di questa ulteriore raccomandata di conferma dell’avvenuto deposito dell’atto notificato in data 06/12/2012. Tale raccomandata è risultata non ritirata dal
    destinatario e conseguentemente si considera notificata per
    compiuta giacenza. Quindi, l’assunto della decisione appellata secondo il quale nel caso di specie sarebbe stata incompleta il
    rituale la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento a fondamento della cartella di pagamento direttamente impugnata in primo grado risulta smentita in punto di fatto».
    2.5. Nel caso di specie, benché la motivazione della sentenza impugnata sia graficamente presente, di fatto essa si traduce nella formulazione di conclusioni meramente assertive, avendo al CTR omesso del tutto ogni motivazione in merito alle censure della ricorrente.
  4. In conclusione, assorbito li secondo motivo, li ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di
    giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nel rispetto dei principi sopra illustrati, nonché provveda alle spese del giudizio di
    legittimità.
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    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48 Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024 Numero di raccolta generale 19305/2024 P.Q.M.
    Data pubblicazione 12/07/2024 La Corte accoglie li ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia
    alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché,
    ni diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
    Così deciso in Roma, il 23/05/2024.
    La Presidente
    Andreina Giudicepietro
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    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da

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LA CONTINUITÀ AZIENDALE PREVALE SULLA TUTELA DEI CREDITI FISCALI

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Correttivi al Dlgs 14/2019 

Il Consiglio dei ministri, svoltosi il 10 giugno 2024, ha approvato in prima lettura il decreto correttivo del Codice della Crisi, che sarà oggetto di esame da parte delle commissioni competenti, il quale affronta il problema che sussiste nel concordato preventivo in continuità aziendale tra la regola della priorità relativa e il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contrbutivi., ricolvendolo a favore della priorità relativa che sarà applicabile anche al fisco.

CAUSA DEL CONFLITTO

Dal secondo e terzo periodo del comma 1 dell’art. 88 del Codice della Crisi si evicne che i suddetti crediti non possono subire un trattamento peggiore di quello che sarebbe riservato a crediti omogenei o di rango inferiore e di conseguenza avviene una deroga alla regola della priorità relativa (ex art. 84, comma 6 – art. 112, comma 2, lettera b).

Pertanto, quando a causa di incapienza i crediti privilegiati di grado superiore a quelli fiscali o contributivi sono degradati per incapienza, il trattamento della quota chirografaria del creditore insoddisfatto a cui è oferrto il soddisfacimento più alto condiziona il trattamento di tutti gli altri crediti degradati, salvo quanto stabilito dalle disposizioni degli artt. 84 e 112, i quali stabiliscono che ai crediti degradati, compresi quelli fiscali, siano oggetto di un trattamento peggiore di quello riservato ai crediti privilegiati degradati di rango superiore.

Nello specifico, a titolo esemplificativo, si prenda il caso dei crediti privilegiati detenuti da Sace, INPS, Agenzia delle Entrate (ritenute e IVA) e Agenzia delle Dogane per i tributi (articolo 2783-ter c.c.), tutti declassati a chirografario per mancanza di capacità. :

Oppure in base agli articoli 84 e 112 il loro trattamento dovrebbe essere graduato per la quota chirografaria (ad esempio: 16% per Sace, 14% per l’INPS, 12% per l’Agenzia delle Entrate in relazione alle ritenute e, infine, 10% per l’Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane rispettivamente per IVA e dazi);

O in base all’articolo 88, comma 1, ultimo periodo, il credito verso l’Erario non potrebbe tuttavia ricevere un trattamento diverso rispetto a quello attribuito a tutti gli altri crediti chirografari (anche per degrado), con la conseguenza che Sace, Inps e le tasse dovrebbero essere trattate allo stesso modo (ad esempio con un pagamento del 14% o del 13%).

Il conflitto tra le predette norme potrebbe ritenersi superato attribuendo alle disposizioni dell’articolo 88 un effetto derogatorio rispetto a quelle previste dagli articoli 84 e 112 con riferimento al solo patto di continuità aziendale. Tuttavia, l’incipit dell’articolo 88, comma 1 (“Fermo salvo…”) può essere inteso come un richiamo alle norme sostanziali del patto di continuità aziendale e ciò lascia ritenere che il conflitto tra le predette disposizioni devono essere risolte rendendo prevalenti quelle che risultino in contrasto con l’articolo 88.

MODIFICA PREVISTA

Per la risoluzione di tale conflitto, il decreto correttivo introduce al comma 1 dell’articolo 88 una disposizione che, fatto comunque salvo il rispetto del comma 6 (e comma 7) dell’articolo 84, stabilisce la prevalenza della regola di priorità relativa rispetto a quella che vieta il trattamento inferiore dei crediti fiscali e previdenziali.

A tale conclusione si potrebbe infatti pervenire già sulla base della normativa vigente, con la conseguenza che è possibile delineare tre ipotesi:

1 – nel patto di continuità, le disposizioni dell’articolo 84, comma 6, e della lettera b) del comma 2 dell’articolo 112 prevalgono sul divieto di peggior trattamento dei crediti tributari e previdenziali stabilito dal comma 1 dell’articolo 88, in relazione a crediti tributari e contributivi agli enti assistiti da privilegio generale;

2 – la regola della priorità relativa dovrebbe essere in ogni caso limitata ai soli creditori che godono di privilegio generale mobiliare e, quindi, con riferimento ai debiti di impresa, ai crediti di lavoro (diversi da quelli di lavoro subordinato a termini dell’articolo 84, comma 7 del Codice della crisi) e a quelli contributivi e tributari, trovando essa applicazione soltanto nel concordato in continuità aziendale e in favore esclusivamente di quei crediti (di lavoro, contributivi e tributari) che nel concordato liquidatorio o nella liquidazione verrebbero equiparati ai creditori chirografari;

3 – l’ultimo periodo del predetto comma 1 si applica invece alla quota degradata di contribuzione e di crediti d’imposta assistiti da privilegio speciale.

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