LOCKDOWN DELLA DEMOCRAZIA

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Coronavirus, l'anno del lockdown: in bilico tra libertà e restrizioni
Il lockdown delle libertà costituzionali

Il terrorismo mediatico continua a interpretare il suo squallido copione, declinando dati aggiornati sull’evoluzione della pandemia, allarmando ulteriormente la già provata opinione pubblica.

Nell’arco di 24 ore sono raddoppiati il numero dei positivi e i soloni scienziati di turno elaborando numeri e modelli statistici cominciano ad annunciare l’ennesima catastrofe.

Allora i rispettivi Governi si mostrano solerti a prendere i più oculati provvedimenti drastici, che causano la restrizioni dei diritti costituzionali, in uno stato di nevrosi politica assoluta, sottovalutando il fatto che i contagiati della seconda ondata di SARS-COV-2 sono per lo più asintomatici ed il numero di decessi è decisamente minore rispetto a quello della prima ondata.

I vari Governi si prestano a dare sfogo alle strategie più fantasiose e irrazionali per crearare dei reconditi lockdown limitati per fingere di non applicare delle restrizioni totali che tanto spaventano la collettività per le conseguenze economiche che si creerebbero.

La rivolta del popolo

Se la curva epidemiologica impone ai governi di attuare strette più o meno forti per limitare la corsa del virus, allo stesso tempo, leggendo i principali valori economici, è difficile immaginare uno Stato che scelga di affidarsi a un secondo lockdown completo e su scala nazionale. Al netto della reale utilità di questa strategia (il tema è ancora molto dibattuto), molti governi hanno attuato e stanno attuando serrate su scala locale.

Detto altrimenti, anziché chiudere l’intera nazione, si scelgono di bloccare soltanto le aree più critiche dal punto di vista sanitario. Impensabile fare altrimenti, visto e considerando non solo lo stato dell’economia globale, affossata dalla pandemia in modo serio, ma anche la tenuta mentale dei cittadini. Eppure, nonostante le misure più soft varate dai governi, in molte città abbiamo assistito a feroci proteste. Da Parigi a Praga, da Londra a Berlino passando per Melbourne, in Australia, Madrid e Gerusalemme: la rabbia del popolo è esplosa di fronte all’annuncio di possibili nuove strette, in quella che alcuni commentatori hanno definito, forse esagerando, “guerra civile Covid“.

Il caso di Manchester

Dietro alle proteste si nasconde in realtà un disagio più grande. Uno dei casi più emblematici è avvenuto a Manchester, nel Regno Unito, dove il sindaco laburista Andy Burnham si è letteralmente scagliato contro Boris Johnson. Ricordiamo che il premier inglese ha annunciato restrizioni su tutta la nazione su tre livelli. In altre parole, l’Uk è stata suddivisa in zone a seconda dei dati epidemiologici. Nelle aree che rientrano nel primo livello restano in vigore le regole già in vigore nel Paese, ovvero limite massimo di riunioni a sei persone e chiusura alle 22 per i pub. Il secondo livello prevede invece il divieto di incontri al chiuso tra nuclei familiari diversi. L’ultimo livello, quello “molto alto”, risponde a misure più ferree: mescolamento sociale proibito, divieto di incontri anche in casa e chiusura di pub e ristoranti.

Nel terzo livello rientrano le città di Liverpool e, appunto, Manchester. Proprio a Manchester, come detto, è incorso un braccio di ferro tra il sindaco dell’area metropolitana di Manchester e il governo centrale. Il signor Burnham lo ha detto chiaramente: la sua comunità non è né sarà “l’agnello sacrificale” di Londra. Tradotto: prima di accettare le nuove misure anti Covid, Johnson dovrà dare garanzie. Come ha riportato la Bbc, Burnham ha spiegato che il massimo livello di restrizioni andrebbe a penalizzare attività commerciali come pub, palestre e bookmaker, cioè “luoghi in cui le persone hanno salari bassi”. È necessario che il governo, anziché pensare a politiche locali “punitive”, ragioni su un piano di sussidi e supporto all’economia. In quel caso, allora, potrà anche esserci una “tregua” su scala nazionale. Guai a parlare di lockdown.

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