IL FASCISMO DELL’ANTIFASCISMO DEL POTERE SENZA VOLTO

Condividi:
IL MONITO DI PASOLINI: «ATTENTI AL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI»-Pironti.org  - Il blog trasparente •••

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Ogni nazione è caratterizzata da un suo retaggio culturale che si riflette nei suoi costumi e nel modus vivendi della propria popolazione. La cultura di una nazione non è rappresentata dalla cultura dei letterati, dei docenti, degli artisti o attori e registi e dei politici o piuttosto da quella degli scienziati e neanche dalla cultura popolare. La cultura di una nazione è in realtà costituita dall’insieme di tutte queste componenti culturali, in sostanza è la media di esse. Queste suddette componenti sono visivamente tangibili nel nostro vissuto, proprio per la loro declinazione pratica nella vita reale nazionale.

Per diversi secoli, ogni accezione culturale sopra esposta era stata distinguibile, anche se congiunta l’una all’altra, in un’unicità storicizzata. Negli ultimi decenni questa distinzione storicamente unificata si è disciolta, declinando verso un’omologazione che ha irretito la massa in una sorta di “reinterpretazione consumistica” di quella utopia marxista, definita egualitarismo interclassista. Tutto questo grazie a un nuovo Potere, che come diceva lo stesso lucido e sagace letterato Pier Paolo Pasolini, con la “P” maiuscola, in quanto indefinibile per la sua recondita natura. Un nuovo Potere che non è più riconoscibile nella grande industria, piuttosto che nel Vaticano o nello stesso potere politico, in quanto esso appare come un tutto, monopolizzante in modo assoluto tutti i gangli della società italiana, per giunta neanche endemica, ma di matrice internazionale.

Nonostante che il volto di questo nuovo Potere non appaia in modo eloquente, i suoi tratti principali sono riscontrabili nella vita sociale, come l’incisivo allontanamento dai valori della tradizione cattolica, a vantaggio di una reinterpretazione della chiesa in chiave promiscua, convergente in una sorta di sincretismo dottrinale, guidata da un “capo popolo” anziché da un Pontefice, come il progressivo smantellamento del concetto di famiglia naturale a vantaggio della cultura transgender e come l’incisiva tendenza all’unificazione dei generi, sia da un punto di vista della moda e sia da un punto di vista comportamentale.

Il risultato di questa nuova cultura globalista e omogeneizzante è la tendenza nevrotica a un consumismo di bassa qualità e omologato verso quei paradigmi sociali, gestititi e surrettiziamente indotti in modo subliminale a svantaggio dell’identità individuale e della sua unicità, dalle lobby multinazionali che destabilizzano il libero mercato, compromettendone le sue dinamiche spontanee e tipiche di un sistema liberista, ossia basato sulla libera impresa e sulle piccole e medie imprese e sulla tutela della proprietà in generale, con un suo allarmante accentramento.

Tutto ciò sembra concretizzare (con mandanti differenti) quello stesso obiettivo internazionalista che fu dell’Unione Sovietica, ossia il monopolio collettivista, dominato da un’oligarchia “illuminata”, che impera su un forzato egualitarismo omologante di piccoli consumatori, a cui è impedito di emanciparsi economicamente, ottenendo così la progressiva e repentina distruzione della classe media, di quella sana e costruttiva borghesia, che fu la fonte principale di tutte quelle istanze di libertà che a loro volta furono declinate nei principi costituzionali, che oggi diamo per scontati nella nostra democratica Carta costituzionale, ma che oggi permettiamo che siano violati, in nome di un sedicente e reiterato stato d’emergenza, che da straordinario è diventato oramai ordinario.

Questa mutazione formale, che si è realizzata con la sostituzione dei Soviet con le grandi lobby finanziarie (appartenenti alle solite “illuminate” Famiglie) ha portato di pari passo alla trasformazione dogmatico-formale delle forze politiche di sinistra, passando nominalmente dal Partito Comunista italiano che fu, alla sua più recente interpretazione partitica, quale è il Partito Democratico, il quale ha sostituito come “padrino” l’Urss, con le suddette Lobby, mantenendo però nella sostanza la stessa visione collettivistica e lo stesso modus operandi, improntato sulla demonizzazione dell’avversario, in una sorta di manicheismo secondo il quale (come avviene con il Comunismo) chi non la pensa come la sinistra è suscettibile di ricevere un anatema.

Quindi vediamo che viene eletto come segretario del Pd, un fedele componente del Bilderberg Club (i cui argomenti trattati nei consessi svolti annualmente sono “democraticamente” occultati e secretati), abbiamo un emerito presidente della Repubblica, come Giorgio Napolitano, grande amico e referente di Henry Kissinger e abbiamo in sostanza una sinistra che felicemente continua a esercitare politiche distruttive per il suo atavico nemico ceto medio e che, in aggiunta, ha deciso di non rappresentare più le istanze degli strati più poveri e disagiati della società, diventando definitivamente radical-chic. Questa nuova sinistra ha permesso che questo nuovo Potere realizzasse ciò che essa definisce anacronisticamente ancora oggi come il suo peggiore nemico, ossia una forma totale di “fascismo”, permettendo che esso omologasse culturalmente l’Italia (realizzando così quell’endemica tendenza della sinistra all’egemonia culturale di matrice gramsciana, che come Pci non riuscì a realizzare compiutamente).

In finale, questa egemonia omologante oggi sta mostrando tutta la sua natura repressiva, con il monopolio dell’informazione e dei media, realizzando quella censura da pensiero unico, che viola i principi costituzionali delle libertà di espressione e di manifestazione del proprio pensiero, sanciti e tutelati dall’articolo 21 della Costituzione italiana e dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Dall’articolo 21 si evince sia il principio di tutela della libertà in senso negativo, ossia del diritto a non essere impediti nella formazione delle proprie opinioni e nell’esprimere il proprio pensiero come massima esigenza da tutelare, perché considerata direttamente connaturata alla personalità dell’uomo, ma altresì si evince il principio della tutela della libertà nella sua accezione positiva, considerata come pensiero attivo, realizzato verso altri soggetti in un contesto sociale complesso e tramite diversi strumenti di comunicazione, che nessun potere politico può ostacolare sia con “un fare” e neanche con un “non fare”, per impedire che tale libertà si possa declinare in ogni sua forma.

Mentre l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sancisce al primo comma che “ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiere” e al secondo comma stabilisce che “la libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.

Di conseguenza, è evidente anche per il diritto europeo, il quale peraltro prevale su quello di ciascun Paese membro, che nessun Governo o potere pubblico possa interferire e quindi limitare o censurare la libertà di esprimere il proprio pensiero. Tutti questi dettami costituzionali sono stati recentemente violati in modo progressivo e scientificamente strategico, cercando di giustificare, con strumenti costituzionali impropri, come per esempio la legiferazione dello stato di emergenza, la limitazione del diritto di essere informati con un confronto scientifico sull’efficacia e sui potenziali effetti collaterali dei farmaci anti Covid-19, imponendone la somministrazione per poter lavorare e recentemente anche riguardo alla libertà di concorrere in modo democratico nelle ultime elezioni amministrative comunali, in quanto il confronto sul merito dei programmi dei rispettivi candidati del ballottaggio è stato inficiato con il vetusto strumento dell’antifascismo, accusando tout court il candidato di centrodestra e il partito principale della coalizione di centrodestra che lo sostiene, di assecondare ipotetici rigurgiti di un anacronistico fascismo.

Ormai è pleonastico, se non tautologico, reiterare il concetto secondo il quale il Fascismo è un periodo storico morto e sepolto con il suo fondatore Benito Mussolini, da cui è storicamente inscindibile, in quanto il Fascismo è stato tutto e il contrario di tutto e rappresenta un unicum nel suo genere, così strettamente legato e connesso alla camaleontica azione politica del suo creatore Mussolini, che come afferma il più illustre storico del Ventennio, ossia lo storico (di estrazione culturale socialista) Renzo De Felice, sarebbe più corretto parlare di Mussolinismo, anziché di Fascismo.

Lo stesso esponente politico comunista, nonché ex partigiano, Gian Carlo Pajetta, affermava che i conti con il Fascismo erano stati chiusi nel 1945, o come affermava l’illuminante scrittore Leonardo Sciascia “il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è”. Quindi, nel ventunesimo secolo, chi continua a parlare di pericolo fascista e di salvaguardare i valori antifascisti, se non soffre di patologie psichiatriche o neurologiche, non può non essere in malafede, perché l’anacronismo di tali argomentazioni è così eclatante che neanche la più profonda ignoranza non potrebbe non prenderne atto. Infatti, la propaganda antifascista dei giorni precedenti le elezioni ha dimostrato quanto la bieca azione politicante si sia prestata a usare qualsiasi meschino mezzo, pur di impedire un confronto sui programmi e quindi costruttivo per le stesse città interessate.

A orologeria sono usciti scoop televisivi con cui si è cercato di demonizzare il partito avversario (il giorno prima del primo turno elettorale, peraltro in pieno silenzio elettorale), facendolo apparire come non osarono fare neanche nei confronti del Movimento Sociale italiano nella Prima Repubblica. Poi, sabato 9 ottobre, la Prefettura, con il consenso del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha permesso, consapevolmente, a dei criminali pregiudicati, sotto Daspo e sotto sorveglianza, di inficiare una pacifica manifestazione popolare contro l’incostituzionale Green pass, annunciando pubblicamente l’intenzione di assalire la sede della Cgil e poi di concretizzare il loro disegno criminale, evidenziando l’incapacità o la non volontà di garantire e gestire l’ordine pubblico da parte delle Istituzioni preposte.

La sconcertante giustificazione del ministro Lamorgese, secondo la quale ella era consapevole di ciò che stava accadendo e per non esasperare e peggiorare la situazione non aveva fatto intervenire le forze dell’ordine, esposta durante un’interrogazione parlamentare, ha suscitato sgomento, al punto da far ipotizzare la rinascita della strategia della tensione che, come storicamente è stato assodato, è nata oltre i confini nazionali ed è stata realizzata per impedire che in Italia si sviluppasse un confronto e una maturazione democratica endemica e non indotta, affinché venissero salvaguardati interessi politici ed economici transnazionali.

In conclusione, l’omogeneità culturale e il consumismo sempre più qualitativamente basso, il monopolio economico e finanziario e della comunicazione da parte delle solite Lobby, nonché la rappresentanza dei loro interessi da parte di un partito che prima era il riferimento principale dell’Urss, i prodromi di una potenziale strategia della tensione per riproporre il terrore anacronistico del Fascismo, finalizzato alla distruzione del consenso democratico di una determinata parte politica non allineata, denotano la deriva totalitaria verso cui sta profondando la nostra nazione, con il progressivo disfacimento del suo Stato di diritto.

Noli tu quaedam referenti credere semper… (distico di Catone)

https://www.opinione.it/politica/2021/10/20/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_fascismo-antifascismo-potere-senza-volto/

Condividi:

METAMORFOSI SURRETTIZIA DELLO STATO DI DIRITTO IN STATO DI CONTROLLO

Condividi:
Home Page ~ STATO DI DIRITTO - BLOG

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Tutto iniziò l’8 marzo del 2020, quando si concretizzò la prima offensiva nei confronti della Carta costituzionale con l’emanazione dell’atto amministrativo da parte del presidente del Consiglio di allora, Giuseppe Conte, il cosiddetto decreto del presidente del Consiglio dei ministri, che eluse, in modo incostituzionale, il rispetto dei dettami sanciti dalla Costituzione, garanti dei principi inalienabili dell’uomo, come il diritto alla libera circolazione e quello della libertà economica.

Dopodiché, lo Stato di Diritto, tutelato e garantito dalla Costituzione, in quanto costituente la sua fonte primaria nella gerarchia delle fondamenta da cui trae origine, è stato progressivamente minato e compromesso in nome di un nuovo indiscutibile “dogma giuridico”, riassunto nello “stato di emergenza” senza alcuna soluzione di continuità.

L’emergenza, difesa e avallata dai costanti richiami allarmistici della “dipendente” e asservita comunicazione dei mass media, è divenuta la giustificazione inconfutabile, al punto da essere il comun denominatore del Governo successivo a quello di Conte, il variegato Governo Draghi.

L’Esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, con il decreto legge del 1 aprile 2021, n. 44 (“Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, in materia di vaccinazioni anti Sars-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”), nello specifico all’articolo 3, introduce il cosiddetto “scudo penale”, il quale prevede la non punibilità per morte e lesioni causate nella somministrazione del farmaco anti Covid-19, legiferando la norma che esonera il personale che somministra i farmaci anti Covid-19 dalla responsabilità per omicidio colposo o lesioni colpose, fattispecie di reati previste dagli artt. 589 e 590 del Codice penale, al punto da configurare l’esonero di responsabilità per il Servizio sanitario nazionale e quindi per lo stesso Stato, come (testualmente riportato) una causa di esclusione della punibilità, subordinata alla prova che il vaccino sia stato utilizzato conformemente alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari del ministero della Salute sull’attività di vaccinazione.

Come può uno Stato discriminare come irresponsabili coloro che non intendono inocularsi dei farmaci ancora in fase di sperimentazione (almeno fino al 2023 afferma l’Aifa), declinando formalmente ogni responsabilità per eventuali effetti collaterali causati dai farmaci anti Covid-19?

Secondo i recenti studi della Politologia, la società moderna è passata dal sistema di “società di disciplina” a quello di una “società di controllo”, fondato sul monitoraggio digitale, virtualmente illimitato, dei comportamenti individuali quantificabili in un algoritmo ed il provvedimento del Green pass ne rappresenta l’estrema conseguenza. Rebus sic stantibus, è inverosimile che in una democrazia liberale come dovrebbe essere la nostra e come formalmente crediamo che essa sia e che vorremmo che anche sostanzialmente essa fosse, sia accettabile una deriva di controllo di matrice sovietica, che riporta alla memoria le pagine orwelliane, ahimè solo apparentemente surreali, del romanzo “1984”, attualizzandole in una interpretazione talmente realistica da metterne in discussione il loro stesso genere letterario fantastico di appartenenza, per ricondurle alla narrazione della cronaca attuale.

Se è storicamente fondato ciò che Niccolò Machiavelli sosteneva nelle sue opere, ossia che la storia è maestra di vita (“historia magistra vitae”), come nell’Unione Sovietica era obbligatorio esibire un lasciapassare per potersi spostare da un paese all’altro, attualmente in Italia la storia si ripete, andando però oltre l’immaginabile, ovvero imponendo il Green pass non solo per spostarsi, come per andare al ristorante al chiuso o ad un evento pubblico, ma anche per esercitare il fondamentale diritto costituzionale, come il diritto a lavorare.

Certa classe politica impregnata di quella bieca cultura secondo la quale ogni mezzo è giustificato per demonizzare la parte avversa, utilizzando anche l’anacronistico e vetusto strumento dell’antifascismo per silenziare e delegittimare l’avversario politico durante le campagne elettorali, con l’intento di minarne il consenso, non si ricorda o finge di non ricordare che proprio il Fascismo conquistò il potere e il Governo dell’Italia in modo inizialmente parlamentare e costituzionale, senza cambiare o modificare il testo dei dettami dello Statuto Albertino, ma attuando una politica surrettiziamente elusiva dei suoi principi fondanti, la quale in modo inerte venne accettata progressivamente dalla maggioranza dei cittadini.

Proprio in nome dell’emergenza causata dai disordini sociali di allora, Benito Mussolini ebbe successo fino a ricevere l’incarico di formare il suo primo Governo democratico, dopo la farsa della scampagnata del 28 ottobre del 1922, definita “Marcia su Roma”. Sempre in virtù di un’emergenza generata dai suddetti disordini, le compagini politiche di allora accettarono inizialmente di far parte di quel Governo guidato da Mussolini, il quale astutamente non osò modificare l’assetto costituzionale fino a quando non fu certo del suo potere, arrivando ad emanare le “leggi fascistissime”, che portarono all’esiziale annullamento dello Stato di Diritto. I cosiddetti anacronistici antifascisti di oggi non possono non ricordare che le leggi razziali emanate dal regime fascista impedirono ai cittadini italiani di origine ebraica di svolgere il proprio lavoro a causa della discriminante razziale. Mutatis mutandis, esclusivamente da un punto di vista di analisi giuridica, precisando che le due situazioni storicamente non sono equiparabili, se allora vigeva una ingiusta e aberrante discriminazione razziale, oggi vige una discriminazione socio-sanitaria secondo la quale coloro che non accettano di farsi somministrare dei farmaci anti Covid-19, considerati ancora sperimentali dall’europea Ema e di conseguenza dalla nostra Aifa e quindi con effetti collaterali a medio e lungo termine ancora sconosciuti, sono esclusi dal proprio lavoro, anche quando esso è svolto a distanza da casa e sono imputabili di essere responsabili di un’assenza ingiustificata, con la probabilità di incorrere in un licenziamento.

Ancora più sconcertante è la pseudo alternativa lasciata ai dissidenti contrari ai farmaci anti Covid-19, ossia quella di sottoporsi ogni 48 ore all’esame di sempre più introvabili tamponi, nonché troppo costosi, a causa dell’esponenziale aumento della richiesta per poter ricevere un provvisorio Green pass, affinché possano svolgere le proprie attività e soprattutto per poter lavorare.

La situazione è talmente surreale che mi sembra manifestare tutto il suo recondito intento, il quale non consiste nell’inocularsi un farmaco per ottenere un Green pass, ma al contrario sembra che l’imposizione dell’inoculazione di questi farmaci sia uno strumento per avere un lasciapassare e uno strumento di controllo individuale. Comunque, in nessun caso è possibile non constatare che la continua sicurezza sanitaria e la reiterata emergenza relativa non sono più fenomeni transitori, ma sono diventati la nuova forma di governabilità, trasformando progressivamente e in modo reticente i paradigmi della politica in generale e del Governo in particolare.

Non credete che questa metamorfosi corrente della politica italiana stia svuotando il Parlamento dei suoi poteri costituzionali, riducendolo ad un mero organo burocratico, limitato nella sua inerzia alla semplice approvazione (sempre in virtù della sedicente emergenza per la tutela della bio-sicurezza) di decreti emanati da tecnocrati, i quali più che rappresentare gli interessi della collettività sembrano rispondere a quelli di organizzazioni e poteri che sono alieni tanto al Parlamento italiano quanto alla sovranità popolare, che lo stesso non riesce più a rappresentare?

“O pessimum periclum, quod opertum latet!” (Publio Siro).

https://www.opinione.it/politica/2021/11/02/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_stato-di-diritto-emergenza-covid-democrazia-costituzione-stato-controllo/

Condividi:

IL DIRITTO COME ORDINE SPONTANEO

Condividi:
Cos'è il Diritto, definizione e significato - Studia Rapido

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

In Italia, in questo determinato periodo storico, stiamo assistendo a una progressiva crisi dell’ordine costituito, direttamente proporzionale all’emergere di una sempre più incontrollata anomia, che destabilizza, ab origine, ogni ganglio della società e la tenuta del suo stesso Stato di diritto. Tutto questo ha origine da un malcostume, tipicamente italiano, del continuo aumento della legislazione, al punto da vilificare il diritto, concependolo come atto di produzione legislativa affidata alle maggioranze parlamentari di turno e non come espressione dei comportamenti – e delle esigenze – spontanei dei cittadini.

La preoccupante crisi sistemica della Magistratura e del suo Organo di auto-controllo, il Consiglio superiore della magistratura, con le diverse indagini di corruzione in corso, come il “Caso Palamara” o il “Caso Amara”, insieme alla repentina trasformazione dell’Italia da “società di disciplina” in “società di controllo digitale”, con l’istituzione del Green pass, oltre all’aumento di reati inerenti alla violazione della proprietà privatacome il recente caso del pensionato ottantaseienne romano Ennio Di Lalla il quale, anche a causa delle lungaggini dell’improduttiva e sempre più imperante burocrazia, ha dovuto aspettare diverso tempo per riappropriarsi del proprio immobile di proprietà, occupato abusivamente da delle donne nomadi, denotano una quasi irreversibile e strutturale compromissione dello Stato di diritto.

Questa decadenza giuridica e sociale che emerge attualmente in modo sempre più esponenziale, è causata soprattutto dall’incremento del potere dei legislatori, ossia dall’invadenza sempre maggiore del mito del “Grande Legislatore”, basato sull’aberrante concezione che sia possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. Alla base della deformazione distopica della concezione del diritto italiano vige l’assenza di una cultura evoluzionistica della società, a vantaggio di quella pianificata dallo Stato. Questa cultura ha portato al pernicioso fenomeno dell’inflazione legislativa che ha compromesso la certezza del diritto.

La fonte di questa degenerazione risiede principalmente nell’irrazionale fede nella democrazia rappresentativa concepita come una fonte del diritto che può assumere i più svariati connotati secondo come mutano le maggioranze alternate, con i loro accordi politici e secondo il volere di determinati gruppi sociali, i cui interessi di parte rappresentano. La classe politica italiana, dimostrandosi ancora immatura da un punto di vista liberale, sempre pronta a esercitare le sue funzioni più su uno scontro che su un confronto tra diverse visioni ideali e programmatiche, è degenerata verso una deriva di guerra giuridica sconcertante e deleteria per gli interessi del cittadino, utilizzando il potere legislativo come strumento per realizzare e garantire interessi di parte.

Il celebre giurista Bruno Leoni, la cui opera omnia giuridico-liberale è stata sempre e costantemente boicottata dall’intellighenzia collettivistica da un lato e solidaristico-cattolica dall’altro, di cui L’Italia è tuttora permeata radicalmente e per cui sarebbe necessario un cambiamento ab imis fundamentis, sosteneva che la certezza del diritto, inteso come prodotto di una negoziazione di pretese individuali differenti, poteva essere garantita e tutelata applicando la concezione secondo la quale al pari della libertà individuale “nessun libero mercato è veramente compatibile con un processo di legislazione centralizzato da parte di autorità”, perciò “se ammettiamo che la libertà individuale negli affari, cioè il libero mercato, è uno dei caratteri essenziali della libertà politica concepita come assenza di costrizioni esercitate da altri, autorità comprese, dobbiamo anche concludere che la legislazione in questioni di vita privata è fondamentalmente incompatibile con la libertà individuale” e per questo deleteria per lo Stato di diritto.

Il diritto, analizzandolo nella sua genesi storica di matrice giuridica greco-romana e facendo riferimento ai contributi analitici di illustri pensatori liberali come Albert Venn Dicey e Friedrich August von Hayek, è il frutto di una tradizione politica, che si basa sulla concezione che le istituzioni giuridiche sono il risultato di un processo sociale e culturale, secondo un approccio consuetudinario, proprio perché fondato sul principio della massima giuridica opinio iuris atque necessitatis, secondo cui il cittadino acquisisce in modo empirico e non imposto dal cosiddetto “Grande Legislatore” la convinzione che dati comportamenti (quindi date norme) siano giusti e obbligatori e di cui i giureconsulti prendono atto, declinandoli in un sistema giuridico, espresso in codici promulgati dal potere politico. In questo modo lo Stato non esercita le sue funzioni come supremo ordinatore sociale, stabilendo quali siano i comportamenti giusti, tramite la pianificazione e l’incremento della legislazione, ma prende atto delle diverse aspettative dei cittadini, che si manifestano secondo un ordine spontaneo e non pianificato a priori, nello stesso modo di come si genera il linguaggio.

Allo stesso modo, non possiamo peritarci dall’affermare che sarebbe impossibile salvaguardare la certezza del diritto con uno Stato che assomma il potere politico al potere economico, perché come conseguenza verrebbero meno quelle libertà individuali che rappresentano le fonti paradigmatiche del nostro patrimonio esistenziale. L’irrefrenabile regresso economico, giuridico e di conseguenza culturale, che stiamo vivendo, si fonda, quindi, sull’idea che per realizzare il processo di democratizzazione e la cosiddetta “giustizia sociale”, siano necessarie la pianificazione economica e quella legislativa, a svantaggio del processo di formazione spontanea delle istituzioni sociali e delle regole di condotta generali astratte, che consentono la realizzazione dei fini individuali. La suddetta visione statalista vuole imporre dei comportamenti che prevalgono sulle libertà individuali, che vengono riconosciute tali solamente se conformi alle finalità sociali pianificate dal legislatore.

Con un sistema politico e sociale improntato sull’ideologia pianificatrice, o per citare i termini usati da von Hayek, dello “scientismo” e del “razionalismo costruttivistico”, secondo la quale il legislatore è onnisciente, si crogiola, lievitando in modo esorbitante, l’elefantiaca burocrazia, che va in solluchero con i suoi lunghi tempi di esercizio, molto spesso annosi e per questo fonte di ingiusti ritardi, tutto a danno della tutela e del rispetto dei diritti dei cittadini. Come preconizzò Bruno Leoni, stiamo inequivocabilmente assistendo a una progressiva devastazione del nostro ordinamento a causa sia dell’incessante delirio demiurgico dell’invadente Stato e sia delle metastasi normative che il “corrotto” sistema politico ha generato e che stanno distruggendo il nostro Stato di diritto.

Se il diritto è il risultato finale della convergenza inintenzionale di individuali comportamenti spontanei, come avviene con la moda, il mercato, le arti e la stessa evoluzione scientifica, come si può accettare che esso invece sia il prodotto di una codificazione legislativa imposta dall’alternarsi di maggioranze dispotiche, che dimostrano di essere solamente delle lobby liberticide!?

Legem brevem esse oportet” (Lucio Anneo Seneca)

https://www.opinione.it/politica/2021/11/10/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_stato-diritto-legislazione-crisi-leoni-democrazia/

Condividi:

GEOGRAFIA GIUDIZIARIA DECENTRATA E GIUSTIZIA DI PROSSIMITÀ

Condividi:
Giustizia, la relazione del Ministro Bonafede

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Come si evince anche dalla recente narrazione giudiziaria, è sempre più consuetudinaria l’incapacità dell’attuale pletorica e anomica legislazione italiana di garantire la certezza del diritto, in cui ormai il cittadino rimane irretito perché defesso e inerme, dove la certezza di garantire lo Stato di diritto è più un’aspirazione utopistica che un’effettiva declinazione dei dispositivi costituzionali, i quali vengono continuamente compromessi con l’elusione, o peggio ancora, con la violazione dei principi inviolabili che sono alla base della principale fonte della gerarchia delle fonti del nostro diritto. In questa costante incertezza del diritto, sale alla ribalta della cronaca l’impotenza giuridica di tutelare il Diritto civile come il diritto della proprietà o del possesso, tanto quanto di garantire il Diritto penale, come la certezza della pena. Tutta questa imperitura e caotica anomia ha reso necessario una radicale e profonda riforma della giustizia italiana, che rappresenta un caposaldo del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza).

Questa riforma, oltre a prevedere l’incremento del numero di magistrati e del numero di assunzioni del personale amministrativo, non potrà non tener conto sia dell’obiettivo di ridurre i tempi del processo, applicando riforme strutturali, non limitandosi solamente a modificare le norme di rito, e sia dell’intento di risolvere l’annoso problema riguardante la geografia giudiziaria nella scelta tra un accentramento o un decentramento degli uffici giudiziari, optando definitivamente per il secondo, in nome della giustizia di prossimità, senza la quale non può esistere alcuna reale giustizia e nessuno Stato di diritto.

Parte della magistratura è propensa, invece, verso un drastico accentramento e tale tendenza è riassunta nella posizione espressa dal magistrato Edmondo Bruti Liberati in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera”, in cui letteralmente afferma che “il Tribunale sotto casa non ce lo possiamo più permettere; inoltre le innovazioni cui siamo stati “forzati” dall’emergenza Covid-19 una volta a regime vedranno uno sviluppo del processo telematico civile e penale. La comparizione personale delle parti e dei testimoni in molti casi potrà essere sostituita dal collegamento a distanza”, arrivando al punto di invocare misure draconiane per obliterare, secondo la sua stessa definizione, “l’insensatezza del Tribunale per ogni capoluogo di provincia”.

Per evitare di dare ansa alle critiche, come quella sopra riportata, della tesi, dal sottoscritto fermamente propugnata, di applicare un drastico decentramento degli uffici giudiziari, adduco quanto stabilisce il dispositivo dell’articolo 24 della Costituzione italiana: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. In questo dettame costituzionale vengono sanciti due principi inviolabili dell’ordinamento, che sono rispettivamente il diritto alla tutela giudiziaria e il diritto alla difesa in ogni giurisdizione.

A tutela del diritto alla tutela giurisdizionale, la nostra Carta costituzionale garantisce a ciascun cittadino di essere titolare del diritto di rivolgersi al giudice per tutelare i propri diritti, escludendo in modo categorico che lo Stato o qualsiasi altra autorità possano ostacolare o impedire l’accesso al “sistema giudiziario” e quindi agli uffici giudiziari, in cui le sue funzioni vengono svolte nel modo più consono, permettendo che il cittadino possa difendersi nella maniera più costituzionalmente compiuta in ogni stato e grado del giudizio, dove con stato del giudizio si intende un momento del grado del processo o il periodo che intercorre tra due gradi dello stesso, mentre per grado del processo s’intende una fase del processo.

Poiché l’esercizio del diritto di agire in giudizio in modo rispettoso del suddetto dettame costituzionale può concretizzarsi solo con la presenza delle parti in un ufficio giudiziario, questa modalità resta esclusiva per tutelare i loro diritti e le loro libertà costituzionali. Inoltre a conferma di quanto sostengo, cito ciò che stabilisce la stessa Unione europea nelle sue “linee guida sulla revisione della geografia giudiziaria” del 2013, con cui asserisce in modo apodittico ed inconfutabile che lo Stato di diritto impone come valore fondante l’applicazione della giustizia di conformità, che garantisce per tutti la parità di accesso alla giustizia, sia a chi risiede in un centro rurale sia a chi invece vive in un grande centro urbano, sia a chi è abbiente e sia a colui che è indigente, tanto a chi è esperto di nuove tecnologie informatiche e telematiche quanto a chi non lo è. Proprio per questi motivi l’Unione europea prevede che le riforme del Pnrr ineriscano ai principi dello Stato di diritto, condizionando l’erogazione del prestito del “Recovery Fund” al rispetto di tali principi. Perché, anche in riferimento all’ambizioso obiettivo di completare l’arduo processo di integrazione europea, l’Ue considera pernicioso l’accentramento dei tribunali, in quanto limiterebbe a pochi il confronto dialettico e quindi umano con il giudice naturale.

Inoltre, i grandi Tribunali sono fonte di inefficienza e ciò induce a un razionale ed equo riordino territoriale degli uffici giudiziari, ab imis, che secondo quanto afferma nella sua parenesi l’Ue, deve basarsi sulla creazione di sedi giudiziarie di medie dimensioni. Al postutto, da quanto finora esposto non può non dedursi che l’accentramento dei Tribunali è diametralmente antitetico all’efficienza e alla funzione che la giustizia deve esercitare per la tutela dei diritti dei cittadini.

Cuique defensio tribuenda” (Tacito)

https://www.opinione.it/politica/2021/11/23/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_giustizia-diritto-civile-penale-pnrr-sistema/

Condividi:

L’HABEAS CORPUS “HORRIDUM” DEGLI ERRORI GIUDIZIARI

Condividi:
Indagine sul Processo Penale: Fara: “La giustizia sta peggio di 10 anni fa”  - L'Eurispes

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Abraham Lincoln, in riferimento alla guerra civile scoppiata fra i nordisti e i sudisti, affermò, durante un discorso tenuto presso la città di Baltimora, nello stato del Maryland, che essa era stata generata in qualche modo da una errata comprensione del significante “libertà”. Infatti, per il sedicesimo presidente degli Stati Uniti la ragione di tale conflitto consisteva nel fatto che: “Il mondo non ha mai avuto una buona definizione della parola “libertà” (…) Usando la medesima parola, non intendiamo la stessa cosa”.

Ogni ordinamento politico assegna al termine “libertà” un significato diverso, sebbene sia utilizzato per designare un principio generale e per questo apparentemente similare in ogni sua accezione declinata. Gli ordinamenti politici britannici e statunitensi si sono strutturati fondando le loro istituzioni sul principio fondamentale della “libertà” politica e sebbene molte nazioni europee abbiano imitato la struttura costituzionale basilare di questi Paesi, nella realtà dei fatti si sono dimostrati lungi dal poter concretamente vantare una vera “libertà” politica. Un esempio eclatante è rappresentato dall’Italia che, pur essendo una delle più antiche civiltà europee, nel declinare il principio politico della “libertà” dimostra di interpretarlo nel modo più antinomico a come è considerato in Inghilterra e negli Usa. Infatti, negli Stati Uniti il termine “libertà” fu sancito come principio politico in modo chiaro e concreto con i primi dieci emendamenti della costituzione. Mentre in Inghilterra tale significante divenne il perno del suo Stato di diritto con l’istituzione del principio definito “Habeas corpus” (onde il nome, in latino “abbi il – tuo – corpo), il quale consiste in un atto, rilasciato dalla giurisdizione competente, con cui si ingiunge a chi detiene un prigioniero di dichiarare sia il giorno in cui è stato arrestato e sia il motivo per cui è detenuto.

Il suddetto principio fu inizialmente sancito nella “Petition of Rights” del 1627, per poi essere successivamente promulgato nel 1679 con “Habeas corpus Act”, il quale ha decretato il principio dell’inviolabilità personale e ne regola ancora oggi le garanzie, le quali, nel 1816, furono estese anche riguardo alle detenzioni per cause civili, assegnando ai giudici la competenza di stabilire la verità del rapporto.

Questa differente cultura giuridica e di conseguenza politica ha determinato due visioni antitetiche tra loro, che di seguito esporrò. La prima è costituita da quella anglosassone in cui per esempio le vertenze penali devono essere risolte, come fattivamente poi accade, con un “procedimento rapido e pubblico”, principio ribadito anche nel sesto emendamento della Costituzione americana. La seconda è ben rappresentata da quella italiana, in cui nonostante sia vigente una formulazione normativa che esprime la garanzia fondamentale del principio di legalità, improntato sulla riserva di legge, affinché venga tutelato il principio della libertà personale di matrice costituzionale, nei fatti ciò non si concretizza.

Infatti, all’articolo 13 della Carta costituzionale italiana si sancisce il principio inviolabile secondo il quale: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

In questo dettame, il costituente esplicita in modo categorico che la libertà personale è un diritto naturale dell’individuo a non subire nessun tipo di menomazione della sua dignità, né alcuna coercizione fisica, né assoggettamento all’altrui potere che non trovi fondamento nella Costituzione, prevedendo che la tutela della libertà personale sia salvaguardata da tre garanzie: la riserva assoluta di legge, la riserva di giurisdizione e l’obbligo della motivazione. A maggior garanzia, viene comunque sempre riconosciuta la facoltà di ricorrere sia al Tribunale della Libertà che in Cassazione, ma in questo caso solo per una eventuale violazione di legge.

Ebbene, nonostante tutte queste garantiste declinazioni del principio di legalità che si evincono dalla nostra Costituzione, ancora oggi in Italia si può riscontrare che un imputato venga detenuto diverso tempo prima del giudizio, al punto che qualora venisse riconosciuto colpevole, verrebbe comunque rimesso in libertà per aver già scontato il periodo detentivo previsto dalla successiva e tarda sentenza. E se invece fosse ritenuto innocente, avrebbe subito una gravissima violazione della propria libertà. A ritroso, tornando alla diversa interpretazione dello stesso significante “libertà”, per la prevalente opinione pubblica italiana, l’Italia è una nazione libera, proprio perché questo aberrante sistema giudiziario alla maggioranza degli italiani non appare incomparabile col principio della libertà politica, come invece risulterebbe per l’opinione pubblica inglese e statunitense.

A conferma di quanto finora esposto, riporto i dati aggiornati al 31 dicembre del 2020, in riferimento agli errori giudiziari che hanno determinato un’ingiusta detenzione. Secondo quanto indica il sito errorigiudiziari, dal 1991 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.659 casi di errori giudiziari, con una media di poco più di 988 casi all’anno, sommando i dati inerenti alle vittime di ingiusta detenzione (coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, per poi venire assolti), con i dati riguardanti le vittime di un errore giudiziario in senso stretto, ossia di coloro che dopo essere stati condannati con una sentenza definitiva, vengono assolti grazie a un successivo processo di revisione.

Inoltre, questa erronea procedura costituisce un ingente costo per l’erario dello Stato, a causa degli indennizzi e dei risarcimenti che genera e che assomma a 869.759.850 euro, con una media superiore ai 28.990.000 euro all’anno. Al postutto, come può definirsi libera una nazione in cui lo Stato di diritto è compromesso da un modus operandi lesivo della libertà personale e del principio inviolabile dell’“Habeas corpus”?

Debita redde mihi” (Massimiano)

https://www.opinione.it/politica/2021/11/30/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_habeas-corpus-errori-giudiziari-costituzione-italia/

Condividi:

IL DIRITTO REALE DI GODIMENTO ASSOLUTO DELLA LIBERTÀ

Condividi:
art U9004 Targa ''PROPRIETA' PRIVATA''

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

L’evoluzione sociale e quindi economica dell’uomo si è basata sul perno principale della proprietà privata dalla quale si declinano tutte le libertà di cui oggi godiamo, la stessa personalità individuale si identifica e realizza compiutamente solo nella sua espressione materiale, ovvero la propria proprietà. La fonte basilare della nostra libertà individuale consiste nell’esercizio della libertà economica senza la quale non potremmo essere in grado di godere di alcuna libertà e per enucleare in modo più apodittico questo concetto prendo in prestito il modus cogitandi aristotelico, citando il seguente sillogismo, se gli uomini aspirano alla libertà e se la proprietà privata è la fonte principale di ogni libertà, gli uomini non possono prescindere dalla tutela della proprietà privata.

Purtroppo siamo irretiti in un periodo storico in cui la proprietà privata è progressivamente considerata una minaccia e una causa di ingiustizia sociale. In Italia, soprattutto, anche grazie ad un retaggio socio-giuridico culturale collettivistico che ha permeato la nostra stessa Carta costituzionale, vige una tendenza politica e giudiziaria alla delegittimazione della proprietà privata o se non altro al suo ridimensionamento a vantaggio di principi ed impostazioni normative di matrice statalista. L’incompiutezza della Costituzione italiana si evince anche da questa disattenzione nei suoi dettami ai principi liberali, che favoriscono una cultura plebiscitario-democratica protesa a politiche collettivistiche anziché liberali e quindi a scapito della tutela delle libertà individuali, che non possono prescindere dalla tutela e dal rispetto del diritto della proprietà privata in modo assoluto, da parte dell’Ordine costituito.

Dallo stesso “Corpus Iuris Iustinianeum” (529-534), nella sua concezione interpretativa delle consuetudini civilistiche degli antichi romani e quindi non nella prerogativa di imporre dei comportamenti avulsi dalla realtà empirica finalizzati a favorire degli interessi di parte a danno della libertà individuale, emerge quanto la tutela della proprietà privata in ogni sua declinazione sia un principio fondativo dello stato di diritto, prevedendone una difesa giuridica e giudiziaria che si concretizza con il risarcimento anche extra contrattuale, come si evince dalla storica “Lex Aquilia”, sui cui, peraltro, si basa anche l’articolo 2043 del nostro Codice civile, riguardo al risarcimento per fatto illecito. La decadenza di una società e del suo stato di diritto è direttamente proporzionale all’incapacità giudiziaria di garantire la tutela di questo principio inalienabile per la sussistenza della libertà. Quando iniziano a manifestarsi i prodromi di un regresso culturale e giuridico, a causa del quale la proprietà privata soccombe a principi demagogici e pretestuosi che si nascondono dietro frodi lessicali come quella di “giustizia sociale”, allora cominciano a svilupparsi inquietanti fenomeni involutivi di metastasi anomiche, a causa delle quali le norme sociali risultano incapaci di garantire lo stato di diritto.

Con questa premessa, possiamo più efficacemente comprendere la pericolosità che rappresenta l’ultima sentenza della Cassazione n. 36251/2021 del 23 novembre del 2021, inerente all’esistenza del danno per occupazione di un immobile “sine titulo”.

La sentenza suddetta si riferisce ad un caso di occupazione abusiva di un immobile, perché in assenza di alcun titolo, stabilendo l’eventuale esistenza di un danno economico e quindi del conseguente diritto a ricevere un risarcimento da parte del proprietario. Gli ermellini della Suprema Corte hanno stabilito il principio di diritto secondo il quale, in caso di occupazione di un immobile “sine titulo”, non può ritenersi fondato a priori il diritto a essere risarcito per il proprietario, basandosi sul presupposto dell’esistenza del danno “in re ipsa” (nella stessa natura della cosa), ma devono sussistere delle valide prove che avallino l’intenzione fattiva di rendere fruttifero l’immobile da parte del suo titolare.

Inoltre, la liquidazione equitativa dell’eventuale danno subito deve essere vincolato a un’analisi contemperata di quanto esso possa essere stato concretamente pregiudizievole, donde il giudice ha il dovere di dimostrare nella sua motivazione il peso specifico dell’incidenza pregiudizievole rappresentata dal danno, citando nella sentenza il percorso logico compiuto nella propria decisione di determinare sia l’entità del danno e sia gli elementi su cui ha stabilito il “quantum”, affinché possa consentire un valido sindacato di quanto siano stati rispettati giuridicamente i principi del danno effettivo e del suo conseguente risarcimento nella sua integralità. In tal modo i giudici di Cassazione hanno accolto il ricorso di una società contro la sentenza della Corte di Appello, che in una vertenza inerente al preliminare di un contratto di locazione immobiliare al suo mancato rilascio del bene senza alcuna giustificazione giuridica, aveva rigettato la domanda ex articolo 2932 del Codice civile, condannando la società che occupava abusivamente l’immobile a rilasciarlo, nonché stabilendo a suo carico il pagamento di mille euro mensili fino a quando non avrebbe concretamente liberato l’immobile, a titolo di risarcimento del danno subito dal titolare del diritto reale assoluto.

Con questa sentenza, la Suprema Corte ha riconosciuto la doglianza della società ricorrente sul fatto che la Corte di Appello aveva sostanzialmente configurato il danno derivante da occupazione “sine titulo” come “damnum in re ipsa”. In sostanza, la Cassazione ha confermato la tendenza giurisprudenziale della sentenza del 25 maggio del 2018 n. 13071 della Cassazione Sezione 3, secondo la quale nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato”. Al postutto, secondo quanto si evince dalla giurisprudenza prevalente del nostro diritto, le conseguenze della violazione della proprietà privata non sono sancite in termini risarcitori in modo automatico, ma spetta a colui che subisce l’occupazione del proprio immobile dimostrare l’eventuale esistenza di un danno economico derivante dalla condotta abusiva dell’occupante “sine titulo”.

Questo a riprova del fatto che al contrario dell’evoluto e pragmatico Common Law, in cui esiste la legittima difesa della proprietà privata, che genera uno scudo penale per chi la esercita per difendersi da coloro che entrano abusivamente nella propria abitazione, con le conseguenze risarcitorie civilistiche a favore del titolare dell’immobile, la nostra pletorica e pleonastica legislazione, tipica dell’impostazione giuridica del Civil Law, cui appartiene il nostro diritto, secondo cui la tutela della propria proprietà non è immediata e diretta da parte del cittadino, ma è mediata dalla magistratura con azioni giuridiche come le azioni possessorie o azioni petitorie, che nella lentezza della loro efficacia, manifestano tutta la loro inadeguatezza giuridica a garantire il diritto inalienabile e fondamentale della proprietà privata. Non è un caso che i suddetti strumenti procedurali risultino inefficaci, infatti rispondono ad una filosofia giuridica ben espressa nell’articolo 42 della Costituzione, secondo il quale, al secondo comma: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Indi, da quanto sopra riportato, si deduce che secondo il dettame costituzionale vige il principio che la libertà individuale espressa e concretizzata nella proprietà privata debba essere sempre regolata in funzione di una concezione collettivistica dell’Ordine costituito, per cui la proprietà è subordinata allo Stato e ai suoi interessi, ossia a quelli che le maggioranze relative legiferano con i propri Governi, tramite norme particolari, anziché astratte e generali e quindi rispettose della libertà individuale e della minoranza parlamentare, che molto spesso è minoranza più a causa di complicate leggi elettorali e non grazie ad una corrispondente volontà popolare di maggioranza. Proprio nella ratio legis di questo dettame costituzionale si annida la matrice filosofica illiberale e collettivistico-democratica, confermata dalla stessa scelta che all’epoca della stesura della Costituzione fu compiuta dalla Costituente sia nel porre la proprietà tra i diritti economici e non più tra quelli fondamentali del singolo, come al contrario prevedeva lo Statuto Albertino all’articolo 29, sia nello stabilire che essa doveva avere una funzione sociale. In nuce, la finalità del legislatore fu quella di privarla di una dimensione individuale, per ricondurla ad una concezione collettivistica dell’economia e quindi illiberale.

Può esistere un reale stato di diritto la dove il suo principio di libertà fondante, come la proprietà privata, è limitato o considerato secondario e quindi non come un concreto diritto reale di godimento assoluto, ovviamente sempre entro i limiti del rispetto della legalità?

“Non lex, sed faex”.

https://www.opinione.it/politica/2021/12/07/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_evoluzione-sociale-modus-cogitandi-aristotelico-retaggio-socio-giuridico-culturale-costituzione-italiana-suprema/

Condividi: