La cancellazione dell’impresa blocca piano del consumatore e concordato

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di Roberto Marinoni

Fonte: La cancellazione dell’impresa blocca piano del consumatore e concordato | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

02 Ottobre 2023

L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese, ove le obbligazioni da ristrutturare abbiano natura mista (sia civile che commerciale), non può avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, né accedere al concordato minore, al concordato preventivo o a quello di omologazione degli accordi di ristrutturazione. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13299 del 26 luglio scorso con la quale la Corte (adita con il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale introdotto dall’articolo 363 – bis della legge 149/2022) è tornata sul tema della ammissibilità, e delle condizioni di ammissibilità, di una proposta di ristrutturazione dei debiti del consumatore e, in subordine, di una domanda di concordato minore (articolo 74 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) .

Il caso

Il rinvio pregiudiziale nasceva dal reclamo di cui la Corte d’Appello di Firenze era stata investita in base agli articoli 50 e 70 del Codice della crisi contro il decreto di inammissibilità emesso dal Tribunale di Firenze e verteva su tre questioni:

la prima, di diritto processuale, relativa alla competenza per il reclamo, in particolare se lo sia il Tribunale in veste collegiale o la Corte di Appello;

la seconda, di diritto sostanziale, per chiarire se la qualificazione giuridica di consumatore ricomprenda anche l’imprenditore individuale cessato che formuli una proposta riferita a debiti misti, civili e commerciali;

la terza, sempre di diritto sostanziale, per determinare se la qualificazione di imprenditore, ai fini dell’accesso all’istituto del concordato minore, si attagli anche all’ex imprenditore una volta cessata l’impresa e cancellato dal Registro Imprese.

I giudici di legittimità negano però l’ammissibilità del rinvio: le questioni sostanziali per mancanza di novità poiché la Corte si era già espressa sul tema con pronunce ancora valide in quanto l’entrata in vigore del Codice della crisi non ha introdotto modifiche normative sostanziali. La questione processuale mancava invece di necessità poiché era funzionale ai questiti relativi alle questioni sostanziali.

Accesso al piano del consumatore

Pur affermando l’inammissibilità delle questioni sostanziali sollevate dalla Corte d’appello di Firenze per difetto della condizione di novità, la Cassazione entra comunque nel merito.

Sulla possibilità per l’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese di avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, la Cassazione conferma la risposta negativa, richiamando la propria decisione 1869/2016.

Tale decisione, si legge nell’ordinanza del 26 luglio, «rimane ancora attuale» perché la definizione di “consumatore”, fornita oggi dal Codice della crisi (articolo 2, comma 1, lettera e), è solo «minimamente cambiata» rispetto a quella data dalla legge 3/2012 (articolo 6, comma 2, lettera b). Quindi, come già affermato nel 2016, l’imprenditore ed il professionista possono rientrare nella nozione di consumatore solo se i debiti oggetto del piano siano estranei alle obbligazioni commerciali; vale a dire nel senso che le obbligazioni devono essere state contratte per per far fronte ad esigenze personali, familiari e non ad attività d’impresa o professionale. La qualifica di consumatore o professionista si basa quindi sulla natura delle obbligazioni che devono essere ristrutturate: va perciò verificato se, al momento in cui sono state assunte, il debitore ha agito come consumatore o come professionista.

Accesso al concordato

La seconda questione riguardava invece la possibilità che l’ex imprenditore la cui impresa era cessata e cancellata dal Registro Imprese, potesse accedere al concordato minore.

Secondo la Cassazione, anche in questo caso la norma del Codice della crisi non è innovativa ma è in continuità con la giurisprudenza precedente. L’articolo 33, comma 4 del Codice della crisi prevede l’inammissibilità delle domande di accesso non solo al concordato minore, ma anche al concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione presentati dall’imprenditore cancellato dal Registro imprese.

La questione era infatti stata affrontata dalla sentenza 4329/2020 secondo la quale il combinato disposto degli articoli 2495 del Codice civile e 10 della legge fallimentare impediva di richiedere il concordato preventivo al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cu viene chiesto il fallimento entro l’anno dalla cancellazione: e ciò per la evidente ragione l’obiettivo del concordato è risolvere la crisi di impresa, mentre la cessazione dell’attività imprenditoriale fa venir meno il bene che dovrebbe essere risanato.

D’altro canto, sottolinea la Cassazione, l’impossibilità di ricorrere al concordato non preclude l’esdebitazione, «che anzi con il nuovo Codice diviene un vero e proprio diritto (articolo 282 del Codice della crisi), con il decorso di un triennio dall’apertura della liquidazione controllata, senza neppure dover attendere la chiusura della procedura liquidatoria

La massima
L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal registro delle imprese non può accedere al concordato minore, preventivo, né al piano di ristrutturazione, per inesistenza del bene (impresa) al cui risanamento si vorrebbe mirare
Corte di Cassazione, ordinanza n. 22699 del 26 luglio 2023

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Concordato preventivo in continuità aziendale, dilazione oltre l’anno del pagamento dei crediti privilegiati

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di Mario Finocchiaro

Concordato preventivo in continuità aziendale, dilazione oltre l’anno del pagamento dei crediti privilegiati | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

20 Ottobre 2023

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Nel concordato preventivo con continuità aziendale è consentita la dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall’omologazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi. In tal caso, il diritto di voto dei privilegiati dilazionati andrà calcolato sulla base del differenziale tra il valore del loro credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello calcolato al termine della moratoria, dovendo i criteri per tale determinazione essere contenuti nel piano concordatario a pena di inammissibilità della proposta, come si desume sia dall’articolo 86 del decreto legislativo n. 14 del 2019 che dall’articolo 2426, comma 1, n. 8), Cc. Questo il principio espresso dalla Sezione I della Cassazione con l’ordinanza 11 luglio 2023 n. 19648.

I precedenti
In termini, richiamata in motivazione nella pronunzia in rassegna, Cassazione, sentenza 18 giugno 2020, n. 11882, in Fallimento, 2021, p. 349, con nota di Trentini C., Ammissibilità del pagamento dilazionato dei creditori privilegiati nel concordato preventivo.
Non diversamente, per l’affermazione che negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall’articolo 8, comma 4, della legge n. 3 del 2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore, Cassazione, sentenza 3 luglio 2019, n. 17834, ivi, 2020, p. 215, con nota di Rolfi F., Sovraindebitamento e “moratoria” ultrannuale dei privilegiati tra regole attuali e future.
Per la precisazione che negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall’articolo 8, comma 4, della legge n. 3 del 2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore, Cassazione, sentenza 3 luglio 2019, n. 17834, ivi, 2020, p. 215, con la già ricordata nota di Rolfi F., Sovraindebitamento e “moratoria” ultrannuale dei privilegiati tra regole attuali e future.

Determinazione della perdita
Sempre in argomento, nel senso che tema di concordato preventivo la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale ad una soddisfazione non integrale degli stessi, in ragione della perdita economica conseguente al ritardo rispetto ai tempi normali con il quale i creditori conseguono le somme dovute. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex articolo 177, comma 3, legge fallimentare, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata del professionista ex articolo 160, secondo comma, legge fallimentare, tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di liquidazione dei beni gravati dal privilegio in ipotesi di soluzione della crisi alternativa al concordato, Cassazione, ordinanza 4 febbraio 2020, n. 2424 e sentenza 9 maggio 2014, n. 10112.

Fattibilità giuridica ed economica del concordato preventivo
Pur essa ricordata in motivazione, nella pronunzia in rassegna, sulla distinzione tra fattibilità giuridica ed economica del concordato preventivo, per il rilievo che la stessa postula che il sindacato del tribunale riferito alla prima appuri la non incompatibilità del piano con norme inderogabili, mentre quello relativo alla seconda si incentri sulla realizzabilità del piano medesimo nei limiti della verifica della sua eventuale manifesta inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, rimanendo riservata ai creditori la sola valutazione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa fallimentare, oltre a quella della specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione prevista per ciascuno di essi; né sulla detta distinzione ha inciso il comma 4 dell’articolo 160 legge fallimentare (introdotto dal decreto legge n. 83 del 2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 132 del 2015), laddove prevede che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta di concordato deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, limitandosi ad introdurre un requisito ulteriore di validità della proposta, al cui riscontro il giudice deve procedere già in sede di ammissione alla procedura, Cassazione, sentenza 15 giugno 2020, n. 11522.

Fattibilità del piano
Sostanzialmente nella stessa ottica, per il rilievo che in tema di concordato preventivo, il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta). Tali principi vengono maggiormente in rilievo nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale ex articolo 186-bis legge fallimentare, laddove la rigorosa verifica della fattibilità in concreto presuppone una analisi inscindibile dei presupposti giuridici ed economici, dovendo il piano con continuità essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un contesto in cui il favor per la prosecuzione della attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele inerenti il piano e la attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione della attività non può che essere funzionale, Cassazione, sentenza 7 aprile 2017, n. 9061.

Il giudizio dei creditori
Sempre sulla questione specifica.
– la previsione dell’articolo 186 bis, ultimo comma, legge fallimentare, che attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato con continuità aziendale qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, non attribuisce all’organo giudicante il compito di procedere alla valutazione della convenienza economica della proposta che, quando non sia implausibile, è riservata al giudizio dei creditori ma solo verificare che l’andamento dei flussi di cassa, ed il conseguente indebitamento, non siano tali da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori., che attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato con continuità aziendale qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, non attribuisce all’organo giudicante il compito di procedere alla valutazione della convenienza economica della proposta che, quando non sia implausibile, è riservata al giudizio dei creditori ma solo verificare che l’andamento dei flussi di cassa, ed il conseguente indebitamento, non siano tali da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori, Cassazione, sentenza 27 settembre 2018, n. 23315;

Sindacato del giudice sulla fattibilità
– In tema di concordato preventivo, il sindacato del giudice sulla fattibilità, intesa come prognosi di concreta realizzabilità del piano concordatario, quale presupposto di ammissibilità, consiste nella verifica diretta del presupposto stesso, sia sotto il profilo della fattibilità giuridica, intesa come non incompatibilità del piano con norme inderogabili, sia sotto il profilo della fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del piano medesimo, dovendosi in tal caso, verificare unicamente la sussistenza o meno di un’assoluta e manifesta non attitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obiettivi prefissati, ossia a realizzare la causa concreta del concordato, Cassazione, sentenza 6 novembre 2013, n. 24970 (in Giurisprudenza commerciale, 2015, II, p. 53, con nota di Ciervo G., Ancora sul giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo e in Fallimento, 2014, p. 662, con nota di Conte R., Tributo indiretto, tassa di scopo e privilegi concorsuali) (Nella specie, concernente un’ipotesi di omologazione di concordato preventivo con continuità aziendale, le osservazioni contenute nel parere del commissario giudiziale ex articolo 180, comma 2, legge fallimentare – inerenti alla mancanza di apporto di nuova finanza da parte delle banche in epoca successiva all’omologa, nel deficit patrimoniale registrato dal debitore con conseguente totale perdita del capitale, nella mancanza di garanzie di vendita degli immobili e nella mancanza di copertura del fabbisogno concordatario con le risorse previste dal piano e, dunque, sostanziandosi in rilievi valutativi e prognostici – sono state ritenute inidonee a palesare la manifesta irrealizzabilità del piano e a giustificare l’intervento officioso del tribunale).

Concordato in continuità aziendale
In termini generali, in tema di concordato preventivo in continuità aziendale, si è precisato, tra l’altro:
– il concordato preventivo è qualificabile come in continuità aziendale, salvi i casi di abuso dello strumento, allorquando alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale, tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del successivo trasferimento cui l’azienda in esercizio dev’essere dichiaratamente destinata, senza che rilevi in senso ostativo all’applicazione del regime ex articolo 186-bis legge fallimentare l’eventuale intervenuta modificazione di una parte dell’attività produttiva, Cassazione, ordinanza 15 giugno 2023, n. 17092;
– in tema di accertamento del passivo fallimentare, sull’advisor che intenda far valere crediti per l’attività di assistenza prestata in favore dell’ente per la predisposizione di un piano di concordato preventivo in continuità aziendale incombe – a fronte dell’eccezione del curatore di non corretta esecuzione della prestazione o di sua totale o parziale inutilità per la massa – l’onere di dimostrare l’esattezza del proprio adempimento o l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili della negativa evoluzione della procedura concorsuale minore, culminata nella dichiarazione di fallimento; detto onere postula anche la rappresentazione puntuale, completa e veritiera della situazione patrimoniale, tale da renderla idonea a propiziare l’ammissione alla procedura concordataria, con l’indicazione dei crediti risarcitori conosciuti o conoscibili, suscettibili di derivare da azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori per atti di mala gestio, Cassazione, ordinanza 13 dicembre 2022, n. 36319;
– il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’articolo 186 bis legge fallimentare, è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) – assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. intangibles), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe; resta comunque fermo il limite del c.d. abuso del concordato con continuità, da verificare in concreto, avuto riguardo agli artt. 160 ultimo comma e 173 legge fallimentare, Cassazione, sentenze 1 marzo 2022, n. 6772, in Società, 2022, p. 1382, con nota di Miramondi M., La compatibilità dell’affitto d’azienda con il concordato preventivo in continuità aziendale: stato dell’arte e alcune considerazioni alla luce del D.lgs. n. 83/2022 e 19 novembre 2018, n. 29742, in Foro italiano, 2019, I, c. 162, con nota di Fabiani M. Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche ammissione.

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Pec: se l’allegato è illeggibile la notifica non è inesistente

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di Francesco Machina Grifeo

30 Ottobre 2023

Fonte: Pec: se l’allegato è illeggibile la notifica non è inesistente | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

Per la Cassazione, sentenza n. 30083 depositata oggi, di fronte a delle “anomalie” il destinatario ha il dovere di informare il mittente

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L’ illeggibilità del file allegato alla Pec non rende inesistente la notifica, se per il resto l’invio è regolare. L’importante chiarimento arriva dalla Sezione lavoro della Cassazione, sentenza n. 30083 depositata oggi, che ha così accolto, con rinvio, il ricorso del ministero dell’Istruzione nei confronti di una decisione della Corte d’Appello di Palermo che aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto contro la decisione del tribunale di accoglimento delle domande di cinque impiegati amministrativi (personale A.T.A.) volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato.

Per il giudice di secondo grado, infatti, dalla dimensione degli atti allegati – «1 byte» – non si poteva che desumere, come sostenuto dagli appellati, che si trattasse di file del tutto vuoti e ha così ritenuto “inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare”.

La Sezione lavoro, per prima cosa ricorda che le S.U. hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il non-atto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (n. 14916/2016).

Tornando al caso specifico, prosegue la decisione, il procedimento di trasmissione degli atti “risulta perfettamente conforme al diritto”. In quanto “sia il mittente che il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti”. Ciò che viene in rilievo invece è l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.

Ebbene, in un simile caso, quando cioè delle anomalie rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio, il destinatario ha il «dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente». Né vale l’obiezione per cui il mittente avrebbe facilmente potuto accorgersi dell’anomalia, perché qui non conta la “colpevolezza o meno” quanto piuttosto “se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello”.

E qui, prosegue il ragionamento, gioca un ruolo decisivo il fatto che il messaggio PEC “indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»)”. Ne deriva che la consegna del messaggio, “seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione”.

Ciò dunque esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.

In definitiva per la Sezione lavoro va affermato il seguente principio di diritto: «Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».

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Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti

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di Antonino La Lumia, Claudia Carmicino*

06 Ottobre 2023

E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza del 28 settembre 2023. n. 27545. Nella stessa pronuncia la Corte ha richiamato, poi, l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimi, l’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”

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Fonte: Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

 I saggi di interesse usurari – che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa – costituiscono in ogni caso importi indebiti . Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra-legale pretenderebbe per ciò stesso l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata : il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto”: è questo il principio affermato dalla Suprema Corte con la recentissima ordinanza n. 27545 del 28 settembre 2023.

La Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’annosa questione della c.d. usura sopravvenuta, con una decisione che si pone in netto contrasto con quello che, dopo la nota sentenza della medesima Corte n. 24675 del 18 luglio 2017 , sembrava l’orientamento ormai predominante.

Come noto agli operatori di settore, con tale sentenza le Sezioni Unite avevano escluso la sussistenza dell’usura sopravvenuta nei contratti di mutuo, rilevando che: “Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto”.

Era stata, quindi, esclusa la nullità sopravvenuta della clausola contrattuale di determinazione degli interessi che, originariamente sottosoglia, avessero superato in corso di esecuzione del contratto di mutuo il tasso soglia dell’usura; secondo la Corte le clausole di determinazione del tasso di interesse sarebbero pienamente legittime e l’esercizio dei diritti che discendono dal contratto non potrebbe configurare violazione del canone di buona fede.

Tale decisione aveva accesso un lungo dibattito interpretativo, considerato che parte della giurisprudenza si era spinta a ritenere estensibile anche ai rapporti di conto corrente l’inesistenza della usurarietà sopravvenuta sancita dalle Sezioni Unite della Cassazione solo con riferimento al contratto di mutuo, ritenendo che quanto affermato dalla Corte dovesse essere considerato un principio generale in materia di usura, derivante da un’interpretazione sistematica degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, c.c.

Secondo tale orientamento, quindi, nei rapporti di mutuo e in quelli di conto corrente, l’unico momento rilevante sia ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 644 c.p. sia per l’applicazione della sanzione civile disposta dall’art. 1815, comma 2, c.c., sarebbe quello della stipula del contratto, con la conseguenza che le successive variazioni dei tassi operate dalla banca sarebbe irrilevante ai fini della nullità previste dalla legge.

Tale impostazione viene ribaltata dalla Corte che, nella fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento, cassa la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, confermando la sentenza di primo grado emessa in esito a un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva respinto l’eccezione di usurarietà del tasso di interesse debitorio applicato in corso di rapporto (ritenendo che gli attori non avevano allegato specificatamente né che tali interessi fossero frutto di una diversa pattuizione, né che la pretesa fosse contraria a buona fede) e aveva rigettato la richiesta dell’attrice di portare in compensazione con quanto dovuto alla banca gli importi ultralegali accertati dalla consulenza tecnica espletata in giudizio.

L’ordinanza in commento giunge ad affermare proprio in relazione ad un rapporto di conto corrente che “… è illegittima la pretesa della banca in relazione all’importo (individuato dal CTU) eccedente la soglia di usura, anche se i saggi di interesse usurario sono sopraggiunti in corso di rapporto”.

Il Supremo consesso afferma, quindi, che gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti, con la conseguenza che il creditore che pretenda il pagamento di interessi divenuti ultralegali nel corso del rapporto richiederebbe l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata; il suo comportamento sarebbe, infatti, contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto.

Tale interpretazione è in linea con la necessità che gli intermediari, quali operatori qualificati, abbiano contezza – in virtù degli strumenti di rilevazione e di controllo normalmente adottati nell’esercizio dell’attività bancaria – quando il rapporto è venuto, in un certo momento, a oltrepassare la soglia vietata: perciò, se non intervengono tempestivamente per adottare le misure di rimedio (continuando ad applicare e variare unilateralmente tassi e condizioni economiche) è arduo sostenere che stiano mantenendo una condotta conforme al canone di buona fede o che le eventuali illiceità commesse non abbiano rilevanza ai fini delle sanzioni fissate dall’ordinamento.

Con la citata sentenza n. 24675 del 18 luglio 2017, la Suprema Corte ha soltanto ribadito un principio, secondo cui il superamento del tasso soglia non comporta l’azzeramento degli interessi, quando si verifichi – successivamente alla stipula del contratto di mutuo – soltanto in due ipotesi: quando il contratto sia stato stipulato in periodo antecedente all’entrata in vigore della normativa antiusura (L. 108 del 1996) oppure quando – in corso di rapporto – il tasso soglia diminuisca e, per effetto di questa discesa, il tasso del finanziamento (nel frattempo rimasto fisso) diventi usurario.
Altra fattispecie è quella relativa ai contratti di conto corrente che deriva dalle modifiche unilaterale delle clausole contrattuali da parte della banca.

La Suprema Corte ha, poi, richiamato l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimil’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”.

Fatta tale premessa e rilevato che, nella fattispecie in esame, gli attori avevano allegato all’atto di citazione perizia di parte, nella quale il tecnico aveva indicato i saggi di interesse applicati dall’Istituto nel corso del rapporto nel periodo contestato, i giudici hanno affermato il principio secondo cui “In caso di azione giudiziaria con la quale si contesta mediante dettagliata relazione peritale l’applicazione di saggi di interesse illegittimi nel corso di rapporti bancari, per l’istituto bancario convenuto, che intenda contestare il computo dei saggi, non è sufficiente una contestazione generica , che faccia riferimento all’art. 115 c.p.c., ma è necessaria l’indicazione dei saggi che, in tesi difensiva, sarebbero stati effettivamente applicati .

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*A cura dell’avv. Antonino La Lumia e dell’avv. Claudia Carmicino – Lexalent

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Legge delega fiscale – Riscritta la disciplina dell’autotutela in campo tributario: i limiti della riforma

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di Beatrice Fimiani, Davide Landa*

27 Ottobre 2023

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Fonte: Legge delega fiscale – Riscritta la disciplina dell’autotutela in campo tributario: i limiti della riforma | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

In base allo schema di decreto legislativo delegato, il Governo introduce finalmente l’obbligatorietà dell’esercizio del potere di autotutela.

A ben vedere, il Legislatore delegato introduce una vera e propria distinzione tra i casi in cui l’esercizio del potere di autotutela diverrebbe obbligatorio e i casi in cui, viceversa, detto potere darebbe luogo ad un esercizio meramente facoltativo.

Al di là della poco felice formulazione normativa che punterebbe, a stretto rigore, su un ossimoro giuridicamente improprio (“l’obbligo di autotutela”), la disposizione licenziata dal Governo sembrerebbe introdurre, piuttosto, l’ “obbligo di provvedere” – anche senza necessità di istanza di parte – nei casi in cui la discrezionalità dell’Amministrazione Finanziaria dovrebbe necessariamente recedere di fronte a fatti che rendono manifestamente illegittima la pretesa impositiva.

Tuttavia, sembrerebbe che la riforma sia stata poco coraggiosa poiché è evidente che l’ “obbligo di provvedere” imposto dal Legislatore delegato non pregiudica l’esistenza di un potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria, il quale potrebbe essere, al limite, valutato sotto il profilo della responsabilità contabile e solo per le ipotesi specificatamente sorrette da dolo. Oltre queste ipotesi, dunque, permane intatta la prerogativa della discrezionalità amministrativa, la quale pure potrebbe risolversi in un esercizio negativo del potere di autotutela ovvero in un vero e proprio diniego di autotutela, sia esso esplicito ovvero implicito.

A questo punto, resterebbe intatto l’interrogativo circa i possibili rimedi avverso l’esercizio negativo del potere di autotutela, posto che la norma nulla prevederebbe al riguardo. Non è previsto infatti espressamente il potere di impugnazione del diniego espresso di autotutela ma nemmeno il potere di impugnazione del diniego tacito di autotutela o meglio non è previsto un espresso rimedio rispetto alla mancata osservanza dell’obbligo di provvedere.

In questo senso, l’operazione normativa – lodevole sotto il profilo delle finalità – di voler sostituire le parole “ può procedere in tutto o in parte all’annullamento ” con le parole “ procede in tutto o in parte all’annullamento ” appare svuotata della sua (almeno nelle intenzioni) portata innovativa.

Pertanto, rispetto ai possibili vuoti di tutela cui l’introduzione dell’obbligatorietà era preordinata, occorrerà ancora una volta fare ricorso ai principi generali già affermati dalla giurisprudenza della Suprema Corte (v. ex multis, Cass. civ., Ordinanza n. 7318/2022 del 7 marzo 2022 ) e della Corte Costituzionale (v. sentenza Corte Cost. n. 181/2017 del 21 giugno 2017 ), laddove l’impugnabilità del diniego di autotutela è in principio ammissibile nella misura in cui si assuma la violazione di un rilevante interesse di portata generale e che spinge, inevitabilmente, ad una non sempre facile valutazione di bilanciamento, avuto riguardo al caso concreto, tra l’interesse alla corretta esazione dei tributi e l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici.

A ben vedere, dunque, la riforma non risolve i problemi che l’istituto recava (e tutt’ora reca) con sé nella misura in cui la norma non si spinge (purtroppo) sino al limite di voler trasformare il procedimento di autotutela, per sua intima natura officioso e discrezionale, in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso.

Al di là di queste considerazioni, la novellata disciplina nell’abrogare espressamente le precedenti fonti di disciplina dell’istituto in discorso (i.e. l’art. 2-quater del D.L. n. 564/1995 ed il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37), dimentica, in maniera grave, di riproporre quelle norme disciplinanti espressamente l’istituto della sospensione amministrativa, di definizione agevolata delle sanzioni, per il caso di revoca e/o annullamento parziale dell’atto impositivo, alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell’atto originario, oltre alla disciplina sul divieto di autonoma impugnabilità degli atti di annullamento o revoca.

Trattasi di istituti introdotti con D.Lgs. n. 159/2015, già frutto di una faticosa elaborazione operata in sede di attuazione della precedente legge delega di riforma del sistema fiscale (legge 11 marzo 2014, n. 23), che aumentavano di misura o quantomeno chiarivano espressamente il livello di tutela cui il contribuente poteva fare affidamento e che, auspicabilmente, non possono non trovare ulteriore replica nel novellato istituto del procedimento di autotutela.

L’impressione, più in generale, è che la ben più articolata disciplina previgente, a prescindere dalla previsione di obbligatorietà di provvedere e pur con i limiti sin qui accennati, offrisse – nel suo concreto dispiegarsi – maggiori spazi di tutela del contribuente.

La nuova disciplina – pure ispirata da lodevoli intenzioni – non coglie dunque perfettamente nel segno ed è pertanto auspicabile che il Legislatore delegato vi ponga quanto prima rimedio.

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*A cura dell’ Avv. Beatrice Fimiani, Partner e dell’Avv. Davide Landa, Senior Associate – CMS Studio Legale Tributario

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CONVEGNO DELLA COMMISSIONE MARKETING FORENSE

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Consiglio Ordine Avvocati di Roma

Roma, 27 settembre 2023

Intervento dell’Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno (dirigente e responsabile della comunicazione del Si.Avv – Sindacato Avvocati) sulla tutela del diritto alla difesa e di chi permette il suo esercizio, ossia l’Avvocatura.

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LA MEDIAZIONE PENALE COME STRUMENTO RISOLUTORIO DEL MOBBING – Intervista al presidente del Consiglio Ordine Avvocati di Roma Avv Paolo Nesta

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L”Avv. Paolo Nesta, Presidente del COA di Roma, interviene in occasione dell’evento “La mediazione penale come strumento risolutorio del mobbing”. ” Il mobbing può avere una tutela dal punto di vista costituzionale? “l’art. 32 della Costituzione tutela il diritto alla salute e in taluni casi di mobbing si possono verificare malattie del lavoratore e si potrebbe integrare l’ipotesi di cui l’art 590 del codice penale. Anche l’art. 35 della Costituzione tutela il diritto del lavoratore e del lavoro in generale, come anche l’art 45 della Costituzione. Ci sono dei presidi di carattere costituzionale che vanno a tutelare chi purtroppo resta vittima di mobbing”.

Presidente del COA di Roma – Avv. Paolo Nesta

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LA MEDIAZIONE PENALE COME STRUMENTO RISOLUTORIO DEL MOBBING

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Roma, 23 ottobre 2023

Campidoglio – sala Calcagni

Via del Tempio di Giove n. 3 – Roma

Video intervista al presidente di VERSOilFUTURO – Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Roma, 23 ott. (Adnkronos)
(Cro/Adnkronos)

Il tema della mediazione penale come strumento risolutorio del mobbing, anche in relazione alla condizione ricattatoria del lavoro per esposizione ad amianto e ad altri cancerogeni è stata al centro del convegno che si è tenuto oggi nella Sala Calcagni, Dipartimento Risorse Umane e Organizzazione del Comune di Roma.
L’incontro di studio, patrocinato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e promosso dal sindacato S.I. AVV., in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale Amianto e l’Associazione “Verso il futuro”, con la media partnership de Il Sole 24 Ore, ha permesso di affrontare la problematica del mobbing sotto il profilo della tutela risarcitoria, e dei diritti costituzionali, tra i quali la salubrità ed il rispetto della sicurezza sul lavoro. Il caso emblematico dell’Ilva, che ha segnato la storia industriale italiana, incarna il paradigma del falso dilemma tra salute e lavoro, evidenziando la necessità di un diverso approccio. In un contesto dove la fattispecie criminosa del Mobbing non è ancora disciplinata, è stato necessario dibattere su una specifica normazione. Emergono però due diverse scuole di pensiero: una che vorrebbe inquadrare il Mobbing come un reato, e un’altra che lo vorrebbe come un illecito civile. Il convegno si pone l’obiettivo di mediare questa contrapposizione teorica con la proposta di utilizzare l’Istituto della Mediazione penale come strumento per risolvere in un tempo celere le cause avviate dalle vittime di mobbing. In tal modo il lavoratore sarebbe risarcito tramite un accordo raggiunto con il colpevole, ottenendo così in tempi più veloci la revoca del demansionamento subito e allo stesso tempo permetterebbe al colpevole di ottenere una pena ridotta.
Fra i presenti il consigliere comunale Maria Cristina Masi, alcuni tra i più autorevoli giuristi italiani e il vertice dell’Avvocatura Capitolina, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Paolo Nesta, e Mauro Mazzoni, delegato della Cassa Forense, oltre al Presidente Ona, avv. Ezio Bonanni. L’avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno, presidente di “Verso il futuro” nella sua introduzione ha spiegato: “Abbiamo promosso questo convegno per affrontare una tematica sociale rilevante, non solo a tutela del diritto al lavoro, principio costituzionale inviolabile, ma anche a tutte le declinazioni che derivano dalla violazione di tale principio tramite il mobbing, che viene esercitato anche in riferimento a contesti lavorativi dove l’altro fondamentale diritto costituzionale alla salute viene compromesso dalla perniciosa e cospicua presenza dell’amianto all’interno delle sedi lavorative”.

“Come è noto l’amianto è un materiale pericoloso e gravemente nocivo per la salute dell’uomo. Sul territorio italiano ce ne sono circa 32 milioni di tonnellate derivanti da coperture e da lastre di cemento. Il rischio esposizione è certamente accentuato nei posti di lavoro ma esiste anche nei nostri palazzi – ha affermato il Presidente COA, Nesta, che ha sottolineato – ci sono risoluzioni del Parlamento Europeo e leggi italiane per la rimozione e, quando non vengono rispettate, intervengono i Giudici, ma è pur sempre un intervento ex post, invece è fondamentale richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei politici, senza distinzione di colore e di appartenenza, sul ruolo della prevenzione”.
“Il diritto alla salute è di tutti – ha evidenziato – l’Avvocatura può svolgere un ruolo fondamentale per prevenire e rimuovere i pericoli derivanti dall’esposizione alla fibra killer e per sensibilizzare i cittadini e i giovani nelle scuole”. “Nel 2022, più di 7000 persone hanno perso la vita per patologie asbesto correlate. In molti casi, i lavoratori esposti ad amianto si sono trovati soli e privi di tutele, perché le leggi restano solo sulla carta – ha denunciato il Presidente ONA, Ezio Bonanni – il dubbio se morire di fame o di morire di lavoro, per infortuni o anche per amianto, è solo un falso dilemma. Deve essere superata la concezione ricattatoria del lavoro, come è successo per il caso dell’Ilva di Taranto dove per la segnalazione e la protesta per esposizione ad amianto si sono verificate condizioni di mobbing. In questa delicata fase storica, l’avvocatura deve riappropriarsi della sua funzione di tutela”.
“Questo convegno inaugura un nuovo percorso, nel quale l’Ordine Forense ha condiviso le nostre finalità: tutti insieme contro l’amianto – ha concluso Bonanni – la mediazione penale è un faro di speranza per i lavoratori che spesso affrontano il mobbing oltre le devastanti conseguenze delle patologie asbesto correlate. Non possiamo permettere che la loro lotta venga ignorata”.

Intervista al presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto – Avv. Ezio Bonanni

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RISARCIMENTO DEL DANNO SE C’E’ STRAINING

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27 Ottobre 2023

Risarcimento del danno se c’è straining | NT+ Lavoro (ilsole24ore.com)

Ammontare collegato a reiterazione e intensità del dolo

Nel caso venga accertato lo straining, condotta anche isolata, e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta: reiterazione, intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento. È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con ordinanza 29101/2023.

Lo straining, ovvero lo stress forzato inflitto dal superiore gerarchico al lavoratore, mediante azioni ostili finalizzate a discriminarlo, rappresenta una forma attenuata di mobbing cui difetta il carattere della continuità delle azioni vessatorie.

La condotta che ha dato origine alla causa decisa dall’ordinanza è la seguente: la diretta superiore di un lavoratore aveva messo in atto nei suoi confronti una stressante modalità di controllo che da ultimo aveva generato un’animata discussione durante la quale il dipendente ebbe un attacco ischemico. Una testimonianza trascritta agli atti così descriveva l’accaduto: «… lo sono la capa; lo comando e faccio quello che voglio e poi la discussione si animò e lei non faceva nulla per smorzare i toni si alterava sempre di più fino a quando abbiamo visto il ricorrente adagiarsi sulla sedia e sentirsi male».

La Corte d’appello, pur avendo accertato tale condotta, aveva affermato tuttavia che andasse negata l’illiceità della stessa, non trattandosi di mobbing in quanto episodio isolato, e non condotta sistematica con una chiara finalità vessatoria, persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo.

La Corte di cassazione ribadisce che «al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta… è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex articolo 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)» (Cassazione 3291/2016). La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento.

La Suprema corte ricorda il proprio orientamento costante (tra le tante, 18164/2018) «secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’articolo 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta»; e continua ribadendo il valore dirimente assegnato al rilievo dell’ambiente lavorativo stressogeno «quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche» (Cass. 3692/2023).

di Rita Rossi

FONTE:

https://ntpluslavoro.ilsole24ore.com/art/risarcimento-danno-se-c-e-straining-AF3e00OB?cmpid=nl_ntLavoro

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