AMIANTO: NESSO CAUSALE E POSIZIONE DI GARANZIA DEGLI ALTI DIRIGENTI PER LA RESPONSABILITÀ PENALE DELL’ESPOSIZIONE DEI DIPENDENTI ALL’AMIANTO.

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Amianto negli ambienti lavorativi

La sentenza in oggetto della Suprema Corte di Cassazione conferma quanto sostenuto e affrontato anche in sede giudiziaria riguardo ad altre cause similari, affrontate dall’Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno in collaborazione con l’Avv. Ezio Bonanni (storico esperto della materia).

Da quanto evinto, si conferma sia che l’esposizione all’amianto è nociva ed è ancora un annoso problema da risolvere sia che la conseguente violazione del diritto alla salute deve essere punita, riconoscendo a favore dei lavoratori e dei comuni cittadini, vittime della succitata esposizione, un equo risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, per responsabilità contrattuale e responsabilità aquiliana.

Nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte, i due imputati, ex dirigenti di uno stabilimento in cui si era verificata la diffusione di polveri sottili di amianto, erano accusati di plurimi omicidi colposi. Le vittime erano sia ex dipendenti dello stabilimento, sia persone estranee alla fabbrica che avevano avuto contatti con particelle di amianto o risiedevano nelle vicinanze.

La Corte di Cassazione, annullando la sentenza della Corte d’Appello, ha inizialmente circoscritto la posizione di garanzia dei due imputati al periodo 1981-1985. Durante questo quadriennio, uno degli imputati era stato Amministratore Delegato e l’altro direttore di stabilimento. Entrambi, dopo il 1985, avevano rivestito posizioni dirigenziali senza poteri decisionali effettivi. La Suprema Corte ha stabilito che la posizione di garanzia è limitata a coloro che, nei vertici aziendali, detengono concreti poteri decisionali in materia di sicurezza sul lavoro, non bastando la semplice attribuzione formale di una carica apicale. Questa posizione è supportata da precedenti giurisprudenziali, come la sentenza Cass. 55005/2017, che ha ribadito che l’inclusione nel board aziendale non è di per sé sufficiente per assumere una posizione di garanzia, a meno che non vi sia una partecipazione reale ai processi decisionali, con specifico riferimento alla sicurezza e all’igiene del lavoro.

Definito il periodo di garanzia, la Corte ha affrontato il tema della patogenesi del mesotelioma, malattia correlata all’esposizione all’amianto. Secondo la III Consessus Conference, il mesotelioma si sviluppa attraverso due fasi distinte: la fase di induzione, in cui ogni esposizione successiva all’amianto contribuisce allo sviluppo della malattia, e la fase di progressione o latenza, durante la quale ulteriori esposizioni non influenzano più il decorso della malattia. La separazione tra queste due fasi è segnata dal cosiddetto “failure time”, momento a partire dal quale le esposizioni aggiuntive all’amianto diventano irrilevanti.

La questione cruciale per la Corte è stata determinare se il “failure time” si collocasse nel periodo in cui i due imputati esercitavano la loro posizione di garanzia o successivamente. Per raggiungere una conclusione su questo punto, la Corte ha indicato che il giudice di merito deve basarsi su leggi scientifiche consolidate e applicarle al caso concreto, valutando l’affidabilità delle teorie scientifiche attraverso una rigorosa analisi della letteratura e l’ausilio di esperti indipendenti. Questo processo deve essere in linea con i principi stabiliti dalla giurisprudenza, in particolare dalla sentenza Cozzini, la quale afferma che la prova del nesso di causalità tra le violazioni delle norme di sicurezza sul lavoro e la morte per mesotelioma di un lavoratore deve essere fondata su solide basi scientifiche che dimostrino l’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo cancerogeno.

Nel caso specifico, la Suprema Corte ha rilevato che la valutazione del nesso causale da parte dei giudici di merito non ha rispettato pienamente il percorso metodologico indicato dalla sentenza Cozzini. Sebbene fosse stata riconosciuta l’incertezza riguardo al momento della prima esposizione all’amianto e alla durata effettiva del periodo di latenza, la Corte d’Appello aveva collocato il “failure time” dieci anni prima della diagnosi tumorale, basandosi su un riferimento non argomentato da parte di un consulente tecnico.

Infine, la Suprema Corte ha censurato la Corte d’Appello anche riguardo alla ricostruzione del nesso causale nei casi di asbestosi, ritenendo che la correlazione tra esposizione all’amianto e decesso delle vittime non fosse stata adeguatamente investigata per il periodo in cui i due imputati avevano ricoperto posizioni di garanzia.

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Per approfondimenti e consulenza:

Avv. Fabrizio Valerio BONANNI SARACENO

Cell. +39 3469637341

@ avv.bonanni.saraceno@gmail.con

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