Il 15 marzo del 1978, Mino Pecorelli scrisse sul suo giornale “OP” che qualcosa di grave stava per accadere sulla scena politica.
Alle ore otto del mattino del 16 marzo del 1978 fu diffusa da un’emittente radiofonica, “Radio Città Futura”, da parte del suo animatore Renzo Rossellini, la notizia che sarebbe stato compiuto un atto terroristico ai danni di Aldo Moro.
Aldo Moro confidò a Giovanni Galloni che temeva per la sua incolumità, ma la cosa che più lo preoccupava era che sapendo per certo che le BR erano state infiltrate dai servizi segreti, non capiva come mai non fossero ancora entrati in azione.
Moro da par suo nel frattempo aveva scoperto quanto la Loggia Massonica P2 stesse avanzando e si stesse infiltrando nei meandri del Potere istituzionale, influenzando in modo esponenziale diversi settori dello Stato e quella mattina portava con se il famoso elenco di tutti gli iscritti alla P2.
• Ore 6.00
L’uomo si alzò all’alba, come ogni giorno.
Di mestiere faceva il venditore ambulante di fiori, e stazionava giornalmente all’angolo tra via Fani e via Stresa.
Ma quella mattina del 16 marzo 1978 perse il suo appuntamento con la storia. Perché qualcuno, la sera prima, tagliò i quattro copertoni del furgoncino con il quale si recava al lavoro.
E così, sacramentando, dovette restare a casa.
Forse, se avesse potuto recarsi con un altro mezzo al lavoro, avrebbe avuto l’occasione di vedere da vicino la scena di uno dei crimini più gravi della storia dell’Italia repubblicana, quella che è conosciuta come l’eccidio di via Fani.
Ma erano tante le case della capitale dove alcuni uomini avevano un appuntamento con il destino. Uno di questi era il maresciallo Oreste Leonardi, 52 anni, torinese, istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo, da quindici anni guardia del corpo dell’onorevole Aldo Moro.
Come ogni giorno si alzò presto, prese il caffè e lo portò alla moglie.
Andò nell’armadio e prese alcune pallottole, dopodiché si recò all’appuntamento con l’uomo che doveva scortare, come ogni giorno.
Quell’uomo era Aldo Moro, di cui era un amico personale.
• Ore 7.00
Un altro uomo si preparò per recarsi in via Fani.
Era uno dei dirigenti, uno di quelli che aveva meticolosamente preparato, assieme alla direzione strategica, il piano dell’agguato.
Il suo nome Franco Bonisoli, l’uomo che aveva scoperto, fuori dalla chiesa di santa Chiara, nella quale Moro si recava quotidianamente ad ascoltare Messa, che la Fiat 130 nella quale viaggiava non era blindata non era un esperto d’armi, e controllò per l’ennesima volta che la pistola con cui avrebbe sparato quel giorno fosse carica.
Si era esercitato in campagna, in alcune grotte, per mesi, ma nonostante ciò non si sentiva materialmente pronto.
Altre 11 persone nel frattempo si sono messe in moto, ognuna ha un compito ben definito, non c’è spazio per l’improvvisazione, anche se le incognite che pesano sull’obiettivo sono tante.
• Ore 8.00
All’angolo con via Stresa, di fronte al bar Olivetti, alla fermata del bus, ci sono due figure: portano divise dell’Alitalia; contemporaneamente, dietro la siepe, quattro persone sono nascoste con le armi in pugno e aspettano nervosamente il momento per entrare in azione.
Su un lato della strada è parcheggiata una 128 bianca, a bordo c’è Mario Moretti, massimo dirigente e responsabile delle Br.
L’attesa del gruppo è spasmodica: qualcuno, prima di entrare in azione “ha dovuto bersi un cognacchino”, come diranno i brigatisti in uno dei processi sul caso Moro.
• Ore 8.30
Il Presidente Moro esce dal suo appartamento come tutte le mattine, sale sulla sua auto ministeriale, un saluto ai ragazzi e poi dritto in Parlamento, chissà cosa stava pensando in quei momenti, solite cose, soliti problemi ormai è avvezzo anche a queste tensioni a questi momenti istituzionali così difficili, eppure quella mattina c’è qualcosa di diverso, l’aria primaverile è più acre del solito, si respira un’atmosfera pesante, forse Moro ha già capito è già consapevole, pensa al suo destino a quello del suo paese, della sua famiglia, nel frattempo le auto scendendo da Via Trionfale, alla guida c’è l’appuntato Domenico Ricci, al suo fianco Oreste Leonardi, con la sua pistola d’ordinanza chiusa in un borsello di plastica.
Il Presidente ha con se le inseparabili borse: quelle dalle quali è difficile che si stacchi, che avrebbero in seguito alimentato polemiche a non finire con la loro misteriosa scomparsa.
• Ore 9.00
Ricci guarda nello specchietto: lo fa per abitudine, segue sempre con lo sguardo l’Alfetta guidata dalla guardia di PS.
Giulio Rivera, coadiuvato dal brigadiere di PS Francesco Zizzi e dalla guardia di PS Raffaele Iozzino.
Segue come un’ombra la 130, lungo la discesa di Via Fani. Quello che segue avviene in un attimo, ed è stato ricostruito con un lavoro paziente, nonostante il quale ancora oggi si nutrono forti perplessità: da via Stresa una 128 bianca fa retromarcia, mentre dal lato di Via Fani la 130 con a bordo Aldo Moro frena di colpo.
E’ solo un attimo, ma Ricci non fa in tempo a frenare di scatto.
La sorpresa è stata totale, i tempi dell’agguato sono scanditi in maniera a dir poco eccezionale.
La 130 è bloccata, per qualche istante sembra che il tempo si fermi: da dietro le siepi del bar Olivetti sbucano quattro persone armate, una parte del commando è già in azione per bloccare il traffico in ogni direzione; disperatamente Ricci cerca di uscire dal budello in cui è bloccato. troppo tardi: una tempesta di piombo si abbatte sulle auto.
Nella 128, Moretti innesta la retromarcia, rendendo impossibile qualsiasi spazio di manovra.
Quasi simultaneamente cadono sotto la tempesta di piombo Leopardi e Ricci.
Iozzino no: tenta una disperata reazione, esce pistola in pugno, ma è abbattuto a tradimento: qualcuno lo colpisce alle spalle.
Zizzi non è morto, ma è fuori combattimento.
Moro se ne sta rannicchiato sul sedile posteriore della sua auto i suoi pensieri non contano più adesso è schiavo di quello che sta per succedere, dell’inevitabile che lo aspetta.
Pochi minuti, e tutto è compiuto.
Il tempo si è fermato, la furia di colpi è terminata e resta un istante lunghissimo di silenzio, l’aria è pesante, annebbiata dagli scarichi polverosi delle pistole e dei mitra, tutto intorno è silenzio, si percepisce un rumore di passi veloce ma freddo, netto, deciso.
Aldo Moro viene scaraventato giù dall’auto, mentre due brigatisti lo sorreggono; non è ferito, ma questo lo si saprà solo in seguito.
Qualcuno afferra anche le preziose borse di Moro.
La scena della strage non è però occupata solo dai brigatisti: poco più giù, sta arrivando con il suo motorino, l’ingegner Marini, che ha il tempo di guardare la scena:ma solo per pochi secondi.
Una Honda, su cui viaggiano due persone, esplode una raffica di mitra verso di lui, colpendo il parabrezza del motorino.
E’ così profondo lo choc, che Marini non riuscirà a dare un quadro personale della dinamica dei fatti.
Qualcuno, intorno, si è reso conto che qualcosa di grave è avvenuto: sono da poco passate le 9,00.
Un giornalaio, che ha la sua edicola a pochi metri dal luogo dell’agguato, racconterà che suo figlio, attirato dal rumore degli spari, è accorso sul posto dell’eccidio, giusto in tempo per vedersi puntare in faccia una pistola.
Giuseppe Marrazzo, inviato del Tg2, intervistò una signora, che aveva seguito le fasi finali dell’agguato: la donna dichiarò che Moro camminava al fianco di un giovane, ma tranquillamente, non in modo concitato; che aveva ascoltato nitidamente la voce di una donna; che aveva ascoltato una voce gridare ” lasciatemi “; che Moro era stato caricato in una 128 blu scuro, che scomparve verso via Trionfale. In via Fani alle ore 9.10 circa la scena che si presenta è agghiacciante.
Riverso al suolo giace Raffaele Iozzino, con la pistola a due passi.
Ha il volto esanime, guarda verso il cielo, con le braccia spalancate. Ha solo 25 anni, era nato in provincia di Napoli nel 1953.
Domenico Ricci è riverso, quasi adagiato sul corpo di Leonardi. Aveva 42 anni, da 20 anni era l’autista di fiducia di Moro.
Era nato a San Paolo di Jesi, nel 1934. Lascia la moglie e due bambini.
Al suo fianco giace Oreste Leonardi, il volto coperto di sangue.
Era nato nel 1926 a Torino.
Lascia la moglie e due figli. Gli altri due uomini della scorta hanno destini diversi : Francesco Zizzi, nato a Fasano nel 1948, capo equipaggio, muore durante il trasporto all’ospedale Gemelli di Roma.
Giulio Rivera, 24 anni, nato nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso, muore all’istante, crivellato da otto pallottole.
Cinque vite annientate in pochi secondi, da quella che i giornali chiameranno “geometrica potenza di fuoco” che ha prodotto almeno 93 colpi, i cui bossoli furono materialmente trovati sul luogo della strage, ma che potevano essere di sicuro di più.
All’agguato hanno partecipato almeno 11 persone, più i due sulla Honda.
Le cui posizioni non saranno mai chiarite completamente, ma che saranno considerate a tutti gli effetti partecipanti all’agguato.
Ci sono Mario Moretti, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Raimondo Etro, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri, Rita Algranati.
Quest’ultima all’epoca dei fatti era la moglie di Casimirri, l’unico scampato all’arresto.
I due sulla moto Honda non sono mai stati individuati, anche perché per anni la loro posizione non è mai stata molto chiara.
Oggi sappiamo che i loro nomi di battaglia erano Peppe e Peppa.
La battaglia è terminata. Come già detto prima, restano cinque corpi senza vita, dell’onorevole Moro si perdono le tracce e un mucchio di bossoli sparati da molte armi, una delle quali spara 49 colpi, con un contributo evidentemente determinante, uno specialista tutto questo a fronte della presunta incapacità militare delle BR.
L’azione, definita degli esperti come “un gioiello di perfezione, attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in azioni di commando”.
Molti anni dopo il rapimento di Aldo Moro l’ispettore Enrico Rossi, ormai in pensione, rivelò il contenuto di una lettera scritta da uno dei due presunti passeggeri della Honda che bloccò il traffico il giorno del rapimento, il 16 marzo 1978: “Dipendevo dal colonnello del Sismi Guglielmi. Dovevamo proteggere i terroristi da disturbi di qualsiasi genere”.
Nella missiva anche dettagli per risalire all’altro agente alla guida del mezzo, “ma l’indagine fu ostacolata”.
“Due agenti dei Servizi segreti aiutarono le Brigate Rosse in via Fani durante il rapimento di Aldo Moro“.
Questo il contenuto di una lettera scritta, presumibilmente, da uno dei due uomini che la mattina del 16 marzo ’78 si trovavano sulla moto Honda presente sul luogo dell’agguato.
A rivelare l’esistenza della missiva all’Ansa è un ex ispettore di polizia che dal 2011 al 2012 ha indagato per identificare l’altro uomo alla guida del mezzo, che nel frattempo è morto.
Un’indagine, sostiene il poliziotto in pensione, “ostacolata fin dall’inizio”. “L’ennesima occasione persa” per capire chi partecipò – o diede appoggio logistico ai brigatisti – al rapimento del presidente della Democrazia cristiana e al massacro della sua scorta.
L’ex ispettore di polizia Enrico Rossi racconta all’Ansa: “Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto”. Ma chi inviò quelle righe svelò anche un dettaglio inquietante: gli agenti presenti sul luogo della strage avevano il compito di “proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978″.
Quella lettera nell’ottobre 2009 arrivò al quotidiano La Stampa di Torino.
Eccola: “Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”.
L’anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio a Torino.
“Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più”. Il quotidiano all’epoca passò alla Questura la missiva per i dovuti riscontri. Sul tavolo di Rossi, una vita passata all’antiterrorismo, arrivò nel febbraio 2011 in modo casuale.
Non era protocollata e non vennero fatti accertamenti. Ma gli indizi per risalire al presunto guidatore della Honda di via Fani erano precisi.
Quell’uomo, secondo un testimone ritenuto molto credibile, era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo. “Non so bene perché – racconta Rossi – ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole.
Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta”.
“Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla – prosegue l’ex ispettore – predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.
“Nel frattempo – va avanti il racconto di Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana.
Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche ‘incomprensione’ nel mio ufficio. La situazione si ‘congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia”.
“Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una ‘voce amica’ di cui mi fido – dice l’ex poliziotto – m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta ‘incompiuta’”.
Rossi sequestrò una foto e ricorda che quell’uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: “Sì, gli assomigliava”.
Fin qui l’ex ispettore, che rimarca di parlare senza alcun risentimento personale ma solo perché “quella è stata un’occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti”.
Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto – ha accertato l’Ansa – nel settembre del 2012 in Toscana.
Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro.
<< La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera.
Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite.
Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto
difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa >>.
Queste furono le dichiarazioni che rilasciò nel 2006 al giornalista Emmanuel Amara per la stesura del libro “Nous avons tué Aldo Moro”, il consigliere di Stato Usa, Steve Pieczenik, che Francesco Cossiga, ministro dell’Interno di allora, convocò per aiutarlo a risolvere la condizione di crisi causata dal rapimento di Moro.
Steve Pieczenick fu un esponente ufficiale del governo degli Stati Uniti d’America e nello specifico ricoprì il ruolo di assistente di diversi Segretari di Stato come Kissinger, Vance, Schultz, Baker.
Tutto iniziò quando Henry Kissinger nominò, nei primi anni settanta, Steve Pieczenick Consulente presso il Ministero degli Esteri statunitense, con l’approvazione del Presidente di allora Richard Nixon.
Il Segretario di Stato Henry Kissinger, secondo diverse testimonianze, tra cui un componente della scorta e quanto rivelò anche la stessa moglie Eleonora di Aldo Moro, minacciò di morte il Presidente della Democrazia Cristiana di allora, quando egli fece un viaggio negli Usa nel 1974.
Aldo Moro ne rimase così impressionato che si allontanò dalla scena politica per lungo tempo, ufficialmente a causa di una malattia.
Verso la fine del 1977, Aldo Moro, confidò ad Andreotti, secondo quanto testimoniò lo stesso, di percepire la sensazione che in Italia fossero in azione agenti provocatori stranieri che volevano far saltare l’equilibrio politico del Paese.
Non dimentichiamoci che in quel preciso periodo storico esisteva ancora la “cortina di ferro” ed eravamo in pieno clima di “Guerra Fredda”, tra due blocchi contrapposti, quello della Nato e quello sovietico, durante il quale ogni mezzo, anche il più cinico e spietato, era giustificato dal fine e dalla ragione di Stato.
Non a caso Steve Pieczenick dichiarò al giornale “Italy Daily” che il suo compito per conto del governo di Washington era stato quello << di stabilizzare l’Italia in modo che la Dc non cedesse. La paura degli americani era che un cedimento della Dc avrebbe portato consenso al Pci, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla Dc. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta.
Questo però significa che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia >>.
Queste affermazioni di Pieczenick insieme a quelle riportate, il 9 marzo del 2008, da parte del giornale “La Stampa”: << ho manipolato le Br per far uccidere Moro >>, sono alquanto inquietanti, ma mai quanto l’assoluta indifferenza da parte della Procura della Repubblica di Roma e di tutta la Magistratura italiana che non ha mai aperto alcuna indagine a riguardo nei confronti di Steve Pieczenick.
Un’altra illuminante intervista su questa vicenda fu rilasciata dall’ex vicepresidente del Csm ed ex vicesegretario della Dc, Giovanni Galloni, il quale il 5 luglio del 2005, durante un’intervista rilasciata alla trasmissione “Next” di Rainews24, dichiarò che, poche settimane prima che venisse rapito, Aldo Moro, mentre parlavano delle difficoltà riscontrate nell’individuare i covi delle Brigate Rosse, gli confidò di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani, che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle Br, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività, le quali sarebbero potute risultare molto utili per localizzare i covi delle Br.
Durante il rapimento Moro, secondo quanto dichiarò lo stesso Galloni, ci furono numerose difficoltà a comunicare con i Servizi statunitensi, ma che qualche informazione utile poteva essere comunque arrivata dagli Usa.
Infatti, sempre Galloni disse: <<Pecorelli scrisse che il 15 marzo 1978 sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia e si scoprì dopo che Moro doveva essere rapito il giorno prima (…) l’assassinio di Pecorelli potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rilevare >>,
Il 22 luglio del 1998, Giovanni Galloni prosegue la sua testimonianza sul Caso Moro asserendo, durante l’audizione alla Commissione Stragi, che durante un suo viaggio svolto negli Usa nel 1976 aveva ricevuto delle informazioni riguardo al fatto che gli Stati Uniti erano decisamente contrari ad un eventuale governo italiano o apertura politica con il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, ossia contro il così detto “Compromesso Storico” ideato da Aldo Moro.
Uno dei principali motivi strategici che induceva gli statunitensi a temere questa nuova alleanza politica italiana era determinato dal fatto che avessero il timore che a causa di tale “Compromesso Storico” venisse meno la presenza delle basi militari della Nato e statunitensi sul territorio italiano, le quali rappresentavano la prima linea e il primo avamposto ad un’eventuale invasione sovietica .
Queste sono le testuali parole rilasciate da Giovanni Galloni durante la sua audizione: << quindi, l’entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, “life or death” come dissero, per gli Stati Uniti d’America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere >>.
Il 16 marzo del 1978, il Presidente della Dc di allora, Aldo Moro venne sequestrato durante l’agguato che fu compiuto verso le ore 9, presso via Fani, angolo via Stresa.
Il Commando delle Br era composto da 10 componenti e furono condannati dalla Corte di Assise di Roma, quali responsabili materiali della strage i seguenti imputati: Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Mario Moretti, Valerio Morucci, Bruno Seghetti, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri e Rita Algranati ( che dopo questa iniziale condanna venne in seguito assolta).
Durante l’agguato furono assassinati in modo barbaro i 5 uomini della scorta di Aldo Moro: i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi, oltre agli agenti di polizia Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Durante l’indagine svolta dal GI Leonardo Grassi di Bologna emerse che il carabiniere Pierluigi Ravasio (dopo aver lasciato l’Arma) confidò al giornalista Emanuele Bettini che era stato un agente segreto e che era stato un componente di un gruppo di militari che avevano svolto un addestramento in Sardegna, presso la località Capo Marragiu, la quale peraltro era anche la base militare di Gladio in Italia, per fronteggiare una eventuale vittoria elettorale del Pci.
Ravasio e gli altri componenti del gruppo erano venuti a conoscenza del fatto che Aldo Moro sarebbe stato rapito e questo mezz’ora prima che il fatto accadesse, grazie all’informazione ricevuta da parte dell’infiltrato delle Br di nome Franco, ma purtroppo non erano potuti intervenire in alcun modo, anche se il loro Superiore (chiamato in gergo militare “papà”), ossia il colonnello Camillo Guglielmi, era a 40-50 metri dall’agguato…
Il colonnello Camillo Guglielmi era un dirigente della VII divisione del SISMI e componente dei Servizi Segreti Gladio.
Il 16 maggio del 1991, durante l’interrogatorio svolto dal sostituto procuratore di Roma Luigi Fichy, Guglielmi confermò la sua presenza in via Stresa verso le ore 9:30, vicino il luogo dove avvenne l’agguato a Moro e la sua scorta, rilasciando testuali dichiarazioni: << mi trovavo lì perché invitato a un pranzo da un collega, il colonnello Armando D’Ambrosio, che abitava in via Stresa >>, ma purtroppo per Guglielmi tali dichiarazioni furono smentite dallo stesso D’Ambrosio, il quale dichiarò testuali parole: << Guglielmi si è presentato a casa mia dopo le 9, non era affatto atteso, e non esisteva alcun invito a pranzo (…) si è intrattenuto per qualche minuto a casa mia ed è tornato in strada dicendo doveva essere accaduto qualcosa >> .
L’aspetto alquanto sconcertante è rappresentato dal fatto che le dichiarazioni di Guglielmi furono fatte non di sua spontanea volontà, ma solo dopo la testimonianza rilasciata da Ravasio.
Un altro aspetto decisamente inquietante sussiste nel fatto che tali situazioni furono taciute ai magistrati che indagarono sul Caso Moro negli anni 1978-1986, secondo quanto ha dichiarato uno di questi magistrati, ossia Ferdinando Imposimato.
Il dubbio che l’eliminazione di Moro fosse stata una decisione presa da altri occulti poteri che s’intrecciavano con quelli istituzionali nasce anche da strani fatti che accaddero durante la detenzione di Aldo Moro presso il covo delle Br, uno di questi fu la telefonata anonima alla redazione del giornale “Il Messaggero”, nella quale si annunciava il comunicato numero 7 delle Br, in cui si dichiarava che Moro era stato giustiziato mediante suicidio e che il suo corpo si trovava nel lago della Duchessa, situato a 1800 metri, vicino a Rieti.
Ebbene tale telefonata anonima, secondo quanto accertò una perizia tecnica disposta dal giudice, fu eseguita da Antonio Chicchiarelli, ossia un esponente della Banda della Magliana, su mandato del generale Giuseppe Sanvito, il capo del SISMI con la tessera n.1632 della P2 del Gran Maestro Licio Gelli.
Anche in questa vicenda intervennero esponenti della Banda della Magliana e dei Servizi Segreti legati alla Massoneria, come, mutatis mutandis, accadde quando il boss della Banda della Magliana, il romano Danilo Abbruciati, fu ucciso a Milano, il 27 aprile 1982, da una guardia giurata, mentre cercava di uccidere il vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, il vice di Roberto Calvi.
Gli aspetti a dir poco strani che potrebbero confermare la tesi di un coinvolgimento di certi Poteri occulti nella vicenda Moro emergono anche da strane omissioni e apparentemente involontari errori commessi durante le indagini mentre Moro era sequestrato.
Uno di questi fu quello che emerse durante le indagini compiute venti anni dopo dal Giudice Mastelloni di Venezia su Argo 16, il velivolo militare che precipitò a Marghera il 23 novembre del 1973, dove morirono quattro persone, ebbene durante tali indagini il maresciallo Leonardo Scarlino dell’UCIGOS (Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali), che fu il primo ad indagare su via Montalcini, luogo dove fu segregato e probabilmente poi ucciso Aldo Moro, rivelò a Mastelloni di avervi compiuto un sopralluogo.
Tesi confermata con più precisi particolari dal maresciallo Giuseppe Mango, della Segreteria di Fariello, capo dell’UCIGOS, che fu nominato da Cossiga, il quale sostenne: << fu durante il sequestro e non dopo, che fu pedinata Anna Laura Borghetti (la brigatista proprietaria dell’immobile dove fu sequestrato Moro) da parte di un elemento della squadra, Carraresi Paola >>.
Si suppone che anche lo stesso Carlo Alberto Dalla Chiesa, che durante il sequestro di Moro si occupava di terrorismo, ne fosse venuto a conoscenza.
Il 17 ottobre del 1978, fu pubblicato sul giornale “OP” di Mino Pecorelli che il generale Dalla Chiesa aveva scoperto il covo dove era detenuto Moro, ma il potere politico lo fermò ad intervenire.
In una dichiarazione ufficiale, il Senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro e della Commissione stragi, osservò che nell’articolo di “Op”: << Pecorelli alludeva alla loggia P2 (“loggia di Cristo in Paradiso”) che condizionava le decisioni del ministro Cossiga e prevedeva una fine violenta per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (“amen”) in quanto a conoscenza di un segreto così importante. Una profezia: Dalla Chiesa verrà effettivamente assassinato a Palermo il 3 settembre 1982, ma prima toccò a Pecorelli >>.
Lo stesso Pecorelli rimase ucciso in un agguato, per il quale fu accusato un altro componente esterno della Banda della Magliana, Massimo Carminati (detto il “Nero”) per il cui reato non fu mai condannato.
Ogni qual volta che c’era da compiere il lavoro sporco per i servizi segreti su mandato dei Poteri occulti ecco che emergono i componenti della Banda della Magliana, come se essi stessi fossero un braccio armato del sottobosco criminale a loro disposizione.
Forse è per questo che non esiste alcuna sentenza che riconosce l’esistenza della Banda stessa, la quale è stata sempre considerata, invece, come una sorta di gruppo occasionale definito, nel gergo criminale, “batteria” di autonomi criminali, che si univano solo per compiere singoli crimini, senza alcuna identità associativa criminosa, facendo evitare così ai componenti della Banda l’imputazione dell’art. 416 bis del codice penale, ossia il reato per associazione a delinquere di stampo mafioso e quindi ciò permise anche l’esclusione della conseguente applicazione dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ossia il così detto carcere duro riservato ai mafiosi.
Questo scritto nella sentenza dei giudici della Corte di Assise di Perugia durante il procedimento contro Andreotti e altri imputati dell’omicidio di Mino Pecorelli:
<< entrambe le circostanze, se vere e portate a conoscenza del pubblico, sicuramente avrebbero sconvolto il panorama politico italiano, perché erano la riprova che il potere politico non aveva voluto la salvezza di Aldo Moro e costituivano, a giudizio della Corte, un valido movente per l’eliminazione di Carmine Pecorelli per la potenziale pericolosità della notizia a sue mani. Ora se non vi sono elementi probatori a sostegno della circostanza delle conoscenze da parte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa della prigione di Aldo Moro all’infuori della conoscenza tra Carmine Pecorelli e Carlo Alberto Dalla Chiesa, vi sono in atto elementi per affermare che erano stati presi contatti con i brigatisti rossi per la liberazione di Aldo Moro e che le trattative si erano improvvisamente interrotte >>.
A conferma di ciò, molti pentiti di mafia sostennero la stessa tesi, tra questi Massimo Ciancimino, Mannoia e lo stesso Buscetta, il quale dichiarò, durante un interrogatorio svolto il 6 aprile del 1993 in Florida ai magistrati di Palermo, davanti i giudici statunitensi Russel Stoddard (assistant US Attorney) e Patrick Fitzgerald (assistant US general dello Stato di NY): << secondo quanto mi disse Badalamenti, sembra che Pecorelli stesse appurando “cose politiche” collegate al sequestro Moro. Giulio Andreotti era preoccupato che potessero trapelare quei segreti inerenti al sequestro dell’onorevole Aldo Moro, segreti che anche il generale Dalla Chiesa conosceva >>.
Questa dichiarazione di Buscetta indusse Nando Dalla Chiesa, riferendosi all’omicidio del padre Carlo Alberto Dalla Chiesa, ad asserire: << Pecorelli, cinque mesi prima di essere assassinato, previde l’omicidio di mio padre, ne spiegò addirittura il movente >>.
Questa volontà politica di eliminare Aldo Moro emerge anche dalle numerose difficoltà con cui si misurò il magistrato Ferdinando Imposimato, quando egli decise , nel 2007, di riesaminare la sua inchiesta sulla scoperta del covo di via Montalcini, dove fu detenuto Moro.
Le difficoltà sorsero nel trovare il materiale presso l’archivio della Commissione Moro.
La stessa sentenza in cui il magistrato parlava della prigione di Moro in via Montalcini non era presente tra gli atti della Commissione, ma nell’archivio storico del Senato, tra i documenti riguardante Gladio.
Inoltre, Imposimato non riuscì mai a reperire gli esami testimoniali tra gli atti della Commissione, degli inquilini di via Montalcini, da lui stesso assunti come giudice istruttore.
Dopo essere stati desecretati ed esaminati dei documenti della intelligence inglese ed americana e la corrispondenza dei loro ambasciatori in Italia, si è potuto venire a conoscenza della morbosa attenzione da parte degli Inglesi all’attività di controllo nei confronti delle attività italiane nel settore dell’energia e di quello del petrolio, oltre alle politiche strategiche svolte nel Mediterraneo e nel Terzo Mondo, in particolare nel Maghreb e nel vicino Oriente, inoltre è emersa la volontà di intervenire con qualsiasi mezzo, anche con una eventuale Terza Guerra Mondiale o con il coinvolgimento di organizzazioni sovversive, affinché essi potessero controllare e quindi arginare tale fenomeno.
Dopo la desecretazione di documenti originali, custoditi negli archivi di Stato britannici di Kew Gardens G.B. e nell’archivio Nazionale di college Park in Maryland Usa, attualmente presenti in Italia, in copia cartacea presso l’archivio Casarrubea di Partinico, in provincia di Palermo, emergono chiaramente ed in modo inconfutabile i rapporti tra Roma con Londra e Washington, che portano inconfutabilmente a ritenere il delitto di Moro inserito in una dimensione geopolitica internazionale, confermando altresì i sospetti nutriti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che denunciò delle complicità internazionali a riguardo.
Lo stesso giudice Rosario Priore (titolare delle prime quattro inchieste giudiziarie) e Ferdinando Imposimato e Antonio Marini ed infine l’On. Giovanni Pellegrino (presidente della Commissione parlamentare sulle stragi e sul terrorismo dal 1994 al 2001, che definì il Caso Moro parte di quei conflitti geopolitici del dopoguerra, manifestarono le loro perplessità in ordine ad una vicenda che non fu mai definitivamente archiviata, a causa di una verità non soddisfacente sia per gli investigatori e sia per gli inquirenti, nonché per le Commissioni parlamentari d’inchiesta.
Ebbene, tutti questi dubbi sul Caso Moro sono oggi confermati da ciò che si evince dalle comunicazioni riservate di diplomatici inglesi e americani, stanziati in Italia, ai loro referenti dei rispettivi Governi, tutto questo è reperibile nell’archivio nazionale, che custodisce anche parte dell’Archivio centrale dello Stato (ACS) e del Fondo Servizio Informazioni e Sicurezza (SIS) italiano.
L’emerito Presidente Francesco Cossiga consegnò a Giovanni Fasanella un documento, che lo stesso Cossiga ricevette dal BND (servizio segreto della Germania Federale) e che, durante il suo mandato di Presidenza della Repubblica, girò alla Procura romana e alla Commissione parlamentare Stragi, senza la parte che i Servizi Segreti tedeschi avevano secretato.
In questo documento si parlava del ruolo della rete clandestina Stay Behind, coordinata da un direttorio di cui facevano parte la Gran Bretagna, la Francia, gli Usa e la stessa sconfitta Germania, tranne l’Italia, in quanto sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e quindi soggetta, secondo il Trattato di Pace del 1947 al controllo delle Potenze vincitrici, anche se poi questa esclusione fu aggirata con la creazione dell’Organismo “Gladio”, ciò confermato anche da Cossiga.
Nel 1982, John Coleman, un ex agente dell’Intelligence, rivelò che Aldo Moro fu ucciso da killer gestiti dalla loggia massonica P2, la loggia di cui era Gran Maestro Licio Gelli, amico di Kissinger e membro del R.I.I.A. (Royal Institute for International Affaire) e del Gruppo Bilderberg, perché Moro con la sua politica ed il suo progetto politico definito “Compromesso Storico” si opponeva ai progetti da parte del “Club di Roma” e del Bilderberg di deindustrializzare l’Italia e di ridurne in modo assai considerevole il numero della sua popolazione.
Inoltre, Coleman aggiungeva che i Poteri occulti della globalizzazione intendevano strumentalizzare l’Italia per destabilizzare il Medio Oriente, che rappresentava il loro obiettivo principale.
Proprio per questi motivi Moro rappresentava un pericolo e quindi un nemico da eleminare in qualsiasi modo, in quanto egli progettava di creare stabilità per l’Italia attraverso la piena occupazione e la stabilità industriale, nonché politica, applicando delle politiche che stabilizzassero il Medio Oriente e rafforzassero l’opposizione democratica cattolica all’Unione Sovietica, creando i presupposti per far smarcare il Pci dalla stessa Unione Sovietica, facendolo entrare nella maggioranza di governo, ossia realizzando il così detto “Compromesso Storico”.
A riprova di questa tesi, un confidenziale amico di Aldo Moro, il giornalista Corrado Guerzoni, dichiarò in un’aula del Tribunale di Roma, il 10 novembre del 1982, che Moro fu minacciato da un agente del “Royal Institute for International Affaire” mentre era ancora ministro.
Coleman, nelle sue dichiarazioni, aggiunge che, durante il processo ai componenti delle Brigate Rosse, molti di loro testimoniarono di essere venuti a conoscenza del fatto che un alto funzionario degli Stati Uniti fu implicato nell’uccisone di Aldo Moro.
Tra giugno e luglio del 1982 la moglie di Aldo Moro, Eleonora, dichiarò che una figura molto importante della politica degli Stati Uniti minacciò il marito con testuali affermazioni: << se non cambi la tua linea politica, la pagherai cara >>.
Guerzoni durante il processo dichiarò che la persona che aveva pronunciato queste minacce a Moro era stato Henry Kissinger, proprio lui, l’amico del nostro emerito presidente della Repubblica Italiana, il massone Giorgio Napolitano, appartenente ad una famiglia la cui storia è tutta riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che Kissinger ha definito il mio “comunista preferito” a cui proprio Kissinger in persona, il 17 giugno del 2015 consegnò il “Premio Kissinger”, un’amicizia nata dopo il suo misterioso viaggio negli Usa, nel 1978, proprio durante i giorni del sequestro di Aldo Moro, coincidenze molto significative.
In quel famoso 16 marzo del 1978 si stava per realizzare un progetto politico che a giudizio dei Poteri occulti sarebbe stato deleterio per ciò che sarebbe dovuta essere l’Italia nell’ampio disegno di globalizzazione del loro nuovo Ordine Mondiale.
Infatti, Giulio Andreotti ed il suo governo di “solidarietà nazionale” si sarebbero presentate alle Camere per il dibattito sulla fiducia.
Il Pci aveva già accordato il proprio appoggio esterno, che così facendo avrebbe nei fatti sancito il suo ingresso nella maggioranza.
Il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, stava per concretizzare il suo “Compromesso Storico”, era riuscito a vincere la sua battaglia interna alla Dc, avendola vinta sui suoi oppositori interni.
Inoltre, i comunisti italiani avevano già garantito i loro voti per far eleggere Aldo Moro, Presidente della Repubblica italiana.
Secondo quanto pensava Moro, con l’attuazione del “Compromesso Storico” l’Italia si sarebbe emancipata dalla sua condizione di Nazione sconfitta nella seconda Guerra Mondiale e si sarebbe liberata dalla condizione di asservimento nei confronti delle potenze vincitrici, in cui l’Italia era irretita.
Nella visione morotea, l’Italia avrebbe fatto così valere i propri diritti e la propria autonomia, nonché sovranità, sia per quanto riguarda le scelte di politica interna e sia per quanto riguarda le scelte di politica estera.
Secondo Moro, questa nuova maggioranza politica avrebbe potuto realizzare in modo compiuto delle strategie mediterranee e terzomondiste, che, con una solida unità interna, l’Italia avrebbe potuto ritrovare una forte identità, sviluppando i propri interessi nazionali e geopolitici e avrebbe potuto continuare la strada di autonomia politico-economica intrapresa da Enrico Mattei, prima di essere a sua volta ucciso anche lui, quando fu sabotato l’aereo in cui era a bordo.
Ogni qualvolta che un governante o un esponente di spicco delle Istituzioni dell’Italia cercò di emancipare l’Italia dalla sudditanza polito-economica nei confronti dell’Inghilterra prima di tutto e poi degli Usa, non poté non incontrare un infausto destino, lo stesso destinò che ebbe Mussolini quando iniziò la colonizzazione dell’Etiopia, manifestando mire espansionistiche in territori su cui era rivolto l’interesse coloniale inglese, Aldo Moro, quando cercò di concretizzare il “Compromesso Storico, Craxi, quando si oppose nel Caso Sigonella agli Statunitensi, manifestando così anche in quell’occasione un’inclinazione politica internazionale a favore dei Palestinesi e recentemente lo stesso Silvio Berlusconi quando cercò di potenziare l’approvvigionamento energetico dell’Italia, accordandosi con la Libia di Gheddafi per il petrolio e con la Russia di Putin per il gas, causando così la reazione violenta finanziaria di quegli stessi Poteri occulti inglesi e statunitensi, che fecero salire lo Spread ad un livello mai visto, utilizzando la speculazione effettuata dalla Banca Centrale Tedesca nei confronti dei nostri Titoli di Credito di Stato a vantaggio di quelli tedeschi.
Probabilmente, in quel 16 marzo del 1978, la strage di via Fani fu compiuta con l’aiuto degli uomini dei servizi segreti italiani, non a caso era presente sul posto il colonnello Camillo Guglielmi, l’ufficiale del Sismi.
Non a caso gli apparati di sicurezza italiana, insieme alle forze dell’Ordine dimostrarono una così grande inettitudine, anche e soprattutto nelle indagini dopo l’agguato ed il rapimento di Moro.
Ancora oggi non c’è stata alcuna volontà politica fattiva di rendere pubblici i documenti, secretati per ragioni di Stato, sul Caso Moro, nonostante i tanti proclami propagandistici che i diversi politicanti governanti di turno che si sono susseguiti hanno compiuto.
La vicenda tragica e drammatica di Aldo Moro si può riassumere con le sue riflessioni lucidissime che scrisse durante la sua detenzione nel covo delle Br, prima di essere ucciso.
Moro fu sempre presente a se stesso, senza essere mai condizionato dai suoi carcerieri e fu sempre consapevole del fatto che la sua condanna a morte fu ordita da Poteri sovranazionali anglo-statunitensi, supportati dagli interessi personali di conquista del potere politico da parte dei suoi oppositori interni alla Dc.
Ma le sue ultime riflessioni furono anche uno spietato presagio sul futuro che avrebbe atteso l’Italia e nella lettera indirizzata all’allora Segretario della Dc, Benigno Zaccagnini emergeva tutto ciò:
<< di questi problemi, terribili ed angosciosi, non credo vi possiate liberare, anche di fronte alla storia, con la facilità, con l’indifferenza, con il cinismo che avete manifestato sinora nel corso di questi quaranta giorni di mie terribili sofferenze.
(…)Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese?
(…) Se questo crimine dovesse essere perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne restereste travolti… Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno. (…) Ecco nell’Italia Repubblicana del 1978, nell’Italia del Beccaria, io sono condannato a morte.
(…) Se voi non intervenite sarebbe scritta una pagine agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese >>.
- 9 maggio 1978
Tutti gli organi di informazione annunciarono il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in una Renault 4 rossa posta in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, poco distante da piazza del Gesù.
Una telefonata alla segreteria del presidente della DC era giunta alle 13, con le opportune indicazioni.
La famiglia Moro diffuse il seguente comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglie alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.
Il giorno dopo, la salma fu tumulata dalla famiglia a Torrita Tiberina, un piccolo paese della provincia di Roma: il governo svolse i funerali di Stato, celebrati dal Papa, senza la bara ed i famigliari del morto.
Nella Capitale affissioni del Partito Comunista che riportarono la prima pagina de “L’Unità” con la notizia dell’uccisione, erano coperti da strisce con la scritta “assassini”, probabilmente apposte da gruppi di estrema destra, tesi ad indicare le Brigate Rosse quale braccio armato del PCI.