ATTENTATO ALLA DEMOCRAZIA: TAGLIO DEI PARLAMENTARI E VOTO AI SEDICENNI

Condividi:
colpo-alla-democrazia-min.jpg

Articolo di Enrico Cisnetto

È dal 1994, cioè da un quarto di secolo, che la politica italiana, sentendosi delegittimata – ed essendolo, sia per la sua intrinseca fragilità, sia per non essere in grado di produrre sussulti di dignità – tenta disperatamente di recuperare credibilità agli occhi degli italiani cercando di dismettere i panni della Casta e facendo proprie le parole d’ordine che certificano il suo discredito. In una parola, cavalcando l’anti-politica. Non capendo che così facendo non avrebbe mai potuto recuperare la popolarità perduta – cosa che avrebbe richiesto una maschia rivendicazione delle proprie prerogative, accompagnata da un uso oculato e votato alla cura dell’interesse generale delle medesime – ma avrebbe firmato la sua condanna a morte. Così è stato, nel corso della Seconda Repubblica, con il qualunquismo e il leaderismo dell’epopea berlusconiana e con il giustizialismo, o quantomeno l’assuefazione ad esso, della sinistra unificata dal collante (l’unico) dell’anti-berlusconismo. Così è stato con il populismo renziano, seppur mascherato da modernità riformista, che ha avuto il suo apice con il referendum costituzionale che doveva cancellare il Senato e di conseguenza mandare a casa un po’ di parlamentari per conseguire l’obiettivo di risparmiare denari dei contribuenti e rifilare sonori calci nel sedere ai collezionisti di poltrone e privilegi. Persino la montiana Scelta Civica, che pure avrebbe dovuto essere immune dalle semplificazioni populiste, si presentò con un programma in cui si diceva che un Parlamento più snello sarebbe costato meno e avrebbe reso di più.

Tutto questo ha riabilitato la classe politica, i partiti e le istituzioni? Niente affatto. Al contrario, ha aperto la strada all’affermazione del populismo esplicito, declinato sia in termini di demonizzazione della democrazia rappresentativa sia in termini di nazionalismo sovranista. Ed ecco che a completamento di questo percorso suicida è arrivato ora l’ultimo atto di espiazione della politica che si giudica, o che accetta di essere giudicata, infetta: il taglio del numero dei parlamentari. Via 230 seggi alla Camera e 115 al Senato, che così si risparmiano soldi altrimenti sprecati – circa 80 milioni l’anno, che se anche fossero i cento sbandierati dai 5stelle sarebbero una goccia nel mare della spesa pubblica nazionale (lo 0,007% secondo l’Osservatorio dell’università Cattolica) – e si rende più celere l’attività legislativa, come se la qualità della produzione normativa fosse inversamente proporzionale al numero di coloro che se ne occupano (con questo principio l’azzeramento del Parlamento dovrebbe corrispondere al massimo rendimento legislativo).

Il risultato è che il Parlamento eletto con il nuovo tetto si ritroverebbe un enorme problema di rappresentanza, senza eguali in Europa. Nel 1948, i padri costituenti avevano stabilito che il numero dei parlamentari fosse correlato alla popolazione: un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila. Un principio poi abbandonato con la revisione costituzionale del 1963, che ha stabilito che gli eletti siano in totale 945, più i senatori a vita. Rispetto alla popolazione di oggi in Italia, un deputato ogni 96mila abitanti e un senatore ogni oltre 188mila. Adesso si passerebbe a un deputato ogni 151.210 abitanti, cioè 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, e a un senatore ogni 302.420. E siccome ogni altro paese europeo ha il rapporto “abitanti/eletti” più alto, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché andiamo cercando questo primato se non per vellicare le pulsioni qualunquiste che si presumono essere maggioritarie tra gli italiani, a nostro giudizio sbagliando.

Lo dimostra il fatto che questo provvedimento, voluto da sempre dai grillini ma mestamente votato anche dal Pd che finora l’aveva avversato, si accompagna con il proposito di concedere il voto a chi ha compiuto 16 anni e di equiparare l’età di accesso a Camera e Senato. Apparentemente si tratta di questioni diverse, ma in realtà c’è un filo rosso che le lega. È l’idea della “piramide rovesciata”, cioè dell’allargamento della base elettorale – senza porsi il problema se chi ha accesso al voto abbia le cognizioni minime per esercitare quel diritto cum grano salis – e nello stesso tempo del restringimento del vertice dirigente, al quale viene negato lo status di élite e viene riservata non la responsabilità di guidare il paese ma il ruolo di mera cassa di risonanza delle istanze del popolo. Il tutto condito con la proposta – ideale degli ideali – di una democrazia diretta dove l’eletto è semplicemente un tramite per rappresentare l’elettore e dunque non si distingue per le idee politiche che propone ma per la più o meno alta capacità di dare eco alle idee – e pazienza se sono emissioni gastriche – dei rappresentati. Va da sé che una democrazia di tal fatta assume fatalmente caratteri plebiscitari e nello stesso tempo diventa, per la sua debolezza, vittima di altri poteri (vedi il dominio indiscusso, dal 1992 in poi, della magistratura).

Ora diteci voi se in una democrazia malata e in un paese in declino, dove i doveri sono stati ampiamente soverchiati dai diritti e in cui scuola e università sono i capisaldi di una crescente e pericolosa ignoranza civica, si sentiva il bisogno di dover decidere se concedere il voto ai sedicenni. E fa specie che a dare la stura a questa surreale discussione sia uno degli uomini migliori della classe politica più recente, Enrico Letta. Forse gli è sfuggita la ragione per cui praticamente in nessun paese occidentale ragazzi cui è vietato guidare un’auto o acquistare alcolici venga concesso il diritto di contribuire a formare la classe dirigente, ma soprattutto il fatto che così facendo si contribuisce ad indebolire la nostra già precaria democrazia. Il bello è che – lo ha scritto persino un intellettuale di sinistra di solito attestato sul politicamente corretto come Maurizio Maggiani – oggi non c’è un sedicenne o un diciasettenne che senta l’ansia di poter accedere in anticipo alla cabina elettorale, non fosse altro perché conosce e frequenta i ragazzi più grandi che quel diritto l’hanno già avuto e che, ammesso che l’abbiano usato, non ne hanno ricavato alcun motivo di soddisfazione e maturazione.

Vabbè, nella speranza che si tratti della solita bolla comunicativa destinata a durare lo spazio di un mattino, torniamo al taglio dei parlamentari che invece è già stato approvato in via definitiva, anche se diventerà legge tra tre mesi salvo che nel frattempo non venga chiesto un referendum confermativo. Una consultazione di cui, al contrario di quanto pensa il nostro amico Michele Ainis, non sentiamo la necessità. Se ci fosse voteremmo e suggeriremmo di votare per il ripristino degli attuali parlamentari – ben sapendo che per qualità e consistenza politica, ce ne sarebbero da salvare poche decine ad esser generosi – ma se nessuno lo chiamerà, questo referendum, non ci stracceremo di certo le vesti. Per un semplice motivo: che da un male potrebbe nascere un bene. Ci riferiamo alla necessità – che è assoluta e inderogabile una volta resa esecutiva la norma costituzionale – di rivedere la legge elettorale. È infatti chiaro a tutti che non solo la riduzione degli eletti comporta giocoforza un ridisegno dei collegi elettorali per evitare che intere zone d’Italia rimangano prive di rappresentanza, ma che è anche il dosaggio tra parte proporzionale (due terzi) e quota maggioritaria (un terzo) dell’attuale meccanismo elettorale che va messo in discussione perché con meno parlamentari da eleggere produce distorsioni evidenti. Dunque, o la riduzione del numero degli eletti viene bloccata – e a questo punto può farlo solo una consultazione referendaria – oppure occorre mettere mano alla legge elettorale.

Chi ci segue sa che quella con cui abbiamo votato l’anno scorso, il cosiddetto “rosatellum”, non ci piace, ancorché sia meglio (meno peggio) del precedente “porcellum”. Dunque, toglierla di mezzo potrebbe essere un vantaggio. L’unico che una scelta altrimenti scellerata è destinata a produrre. Naturalmente, un vantaggio a patto che la riscrittura della normativa che riguarda il voto migliori e non peggiori le cose. Il dibattito che si è già aperto ci induce alla cautela, specie quando si pretende di ibridare le esperienze altrui che sono più che sperimentate. Il nostro cuore, lo sapete, pulsa da sempre per il sistema tedesco: proporzionale con sbarramento e sfiducia costruttiva in caso di caduta di un governo. A maggior ragione lo riteniamo il più adatto a rendere migliore la rappresentanza nel momento in cui si è scelto di fare dell’Italia il paese europeo con il minor numero di eletti in una camera bassa. Possiamo, nel discutere della riforma elettorale, partire da questo dato?

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *