La tautologica riforma costituzionale sull’ambiente

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di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

La tautologica riforma costituzionale sull’ambiente

Nella solita confusione mediatica e nell’approssimativa disinformazione, connotata dalla demagogica superficialità di slogan giornalistici o da politicanti, si sviluppa una narrazione dei fatti deformata e non corrispondente alla realtà, millantando un sedicente progresso che agli atti occulta surrettiziamente pericolosi interessi di lobby multinazionali e che, altresì, potrebbe generare delle azioni giudiziarie a danno dell’impresa e della tutela della proprietà privata, con uno Stato sempre più invadente riguardo ai nostri affari privati. Questo bieco e squallido modus agendi si è reiterato in modo apodittico nell’attuazione della revisione di legge costituzionale degli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale, riguardo a una falsa tutela ambientale.

A volte sembra che gli italiani cadano in una sorta di oblio della memoria, sembra come se dimenticassero i contenuti della propria Costituzione, al punto da gioire quando gli viene raccontato che “finalmente” sono stati inseriti nella Carta dei principi innovativi e di progresso che fino a quel momento erano assenti. Per dimenticanza (volendo essere ottimisti) o per spregevole ignoranza (volendo essere realistici) gli italiani omettono completamente che quei principi già esistono e sono tutelati all’interno della Costituzione e sono addirittura sanciti tra i principi fondamentali che la compongono.

Nel merito della questione sottoposta all’attenzione, merita citare la fonte primaria da cui deriva la normativa vigente in Italia, mi riferisco nello specifico all’articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, solennemente proclamata dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione europei a Nizza il 7 dicembre del 2000 (per questo motivo detta “Carta di Nizza”) e pubblicata in Gazzetta ufficiale della Ue il 18 dicembre del 2000, la quale a sua volta è stata sostituita con la versione aggiornata del 2009, tramite l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

Il succitato articolo 37, con il titolo “Tutela dell’ambiente”, stabilisce “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione europea e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile” e a questo dettame hanno dovuto ispirarsi tutte le legislazioni dei Paesi membri. Da un’analisi attenta e approfondita della Costituzione italiana, si evince che questa sensibilità e tutela per l’ambiente sono già sedimentate e radicate nella sua struttura portante e nei suoi principi fondamentali. Non a caso, al secondo comma dell’articolo 9 già è affermato (prima di questa sedicente “innovativa” e tanto decantata riforma costituzionale) che la Repubblica italiana “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

In questo comma anzidetto, secondo una lettura più avanzata, per il legislatore, il significante “paesaggio”, oltre a intendere il complesso delle bellezze naturali di significativo valore estetico e culturale, si identifica con l’ambiente, ossia con “le parti del territorio i cui caratteri caratteristici derivano dalla natura, dalla storia e dalle reciproche interrelazioni” tra gli esseri umani. Dunque, anche in virtù dell’articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Convenzione europea sul Paesaggio, adottata dal Consiglio europeo con la sua sottoscrizione avvenuta il 20 ottobre del 2000, è sorta nel legislatore italiano una sensibilità ambientale che lo ha portato ad avere una visione dinamica del territorio, emanando un serie di leggi che disciplinano i singoli settori ambientali, concependo l’ambiente come un bene fondamentale e per questo meritevole di ricevere attenzione da un Governo consapevole e orientato ad armonizzare le trasformazioni derivanti dai processi di sviluppo sociale, economico e ambientale, proprio come previsto dalla Convenzione europea sul Paesaggio.

Questo cambiamento significativo nella tutela dell’ambiente ha portato il legislatore a emanare il decreto legislativo del 3 aprile del 2006 numero 152 (Codice dell’Ambiente), disciplinando tale tutela con l’istituzione di principi fondamentali in materia di prevenzione, sviluppo sostenibile e responsabilità diretta di coloro che inquinano l’ambiente. Perciò con questo comma si è voluto tutelare indistintamente ogni bene e valore rilevanti per la Costituzione nel rapporto uomo-natura.

A conferma di quanto finora esposto, molto spesso la stessa Consulta ha fatto riferimento al citato comma per costituzionalizzare il valore dell’ambiente, nel suo significato fondamentale di bene primario (sentenza 641 del 1986) e assoluto della Repubblica (sentenza 641 del 1987), a cui sono collegati sia interessi sanitari e naturalistici e sia interessi culturali, ricreativi ed educativi, proprio per palesare che l’ambiente non è considerata una semplice res, bensì una risorsa primaria. Dopo questa esposizione illustrativa si deduce che lo Stato di diritto italiano non ristagnava in una torbida e primitiva concezione di cinica indifferenza verso la tutela ambientale.

Nonostante quanto finora esposto, per usare un eufemismo, “l’ingenua” opinione pubblica, come incantata da una favola pari a quella di “Alice nel paese delle meraviglie”, si auto-suggestiona perché crede che, grazie all’approvazione alla Camera dei deputati da parte dei due terzi dei suoi componenti, in seconda deliberazione, del disegno di legge di riforma costituzionale, avvenuta l’8 febbraio del 2022, dopo che il Senato l’aveva già approvato con doppia deliberazione, in Italia finalmente per la prima volta si tutela costituzionalmente l’ambiente come se ciò non fosse già accaduto. La “grandiosa” e “innovativa”, nonché “illuminante” riforma costituzionale del Ddl in questione si declina in tre articoli: l’introduzione di un nuovo comma nell’articolo 9 della Costituzione, la modifica dell’articolo 41 della Costituzione e, in finale, l’introduzione di una clausola di salvaguardia per l’applicazione del principio di tutela degli animali.

Nel merito delle modifiche costituzionali, all’art 9 viene inserito il comma “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Per inciso, risulta alquanto esilarante che si faccia un esplicito riferimento all’interesse delle future generazioni, in una nazione, quale l’Italia, in cui il tasso di natalità è andato progressivamente scomparendo (meno di 400mila i nati nel 2021), forse allude ai futuri clandestini che insieme a quelli già presenti compenseranno il drammatico calo demografico italiano, grazie soprattutto alle “lungimiranti” politiche per la famiglia e per incentivare le nascite. Perciò, in questo comma costituzionale viene per la prima volta introdotto il riferimento esplicito e generico agli animali, prevedendo una riserva di legge per il legislatore, allo scopo di definire le forme e i modi di tutela. Qui la domanda nasce spontanea, dal momento che il legislatore ha sentito l’esigenza di citare in modo esplicito, ma generico, la tutela degli animali: a quali si riferisce? Perché, nella sua genericità e vaghezza espositiva, nella categoria degli animali rientrano anche i moscerini, le zanzare, i topi, gli scarafaggi e quant’altro. Quindi chi in autostrada si troverà sul vetro della macchina dei moscerini schiacciati potrà incorrere in qualche illecito, d’estate potremmo incorrere nell’imputazione di “genocidio” utilizzando degli insetticidi contro le zanzare o le mosche?

La riforma costituzionale assume dei tratti inquietanti soprattutto in riferimento alla libertà dell’iniziativa economica privata, sancita nell’articolo 41 della Costituzione, dal momento che il legislatore ne ha modificato il secondo comma, il quale statuisce che la succitata iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, con l’aggiunta, nella posizione che precede i termini “alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, dei vocaboli “alla salute, all’ambiente”.

Inoltre, al terzo comma dello stesso articolo costituzionale, al dettame “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” aggiunge l’espressione “e ambientali”. Se la Costituzione fosse un’opera letteraria o poetica, potrei comprendere la tautologica esplicazione di significanti il cui significato è già compreso in termini già citati, in funzione di arricchimento lessicale dell’eloquenza del testo, allora potrei comprenderne il senso, ma dal momento che parliamo della fonte primaria del nostro diritto, su cui si basa la conseguente legislazione, urge porsi delle domande su quali conseguenze giuridiche potrebbero determinare queste modifiche costituzionali.

Altresì, questa riforma aumenterà le istanze di tutela di innumerevoli specie di fauna (scarafaggi compresi), ma l’aspetto ancora più aberrante, determinerà un’ulteriore facilitazione per coloro che provengono da zone del mondo colpite da sconvolgimenti climatici, che di conseguenza potranno chiedere il riconoscimento di rifugiato, come se l’Italia non fosse già oberata per essere diventata una specie di zona franca per tutti gli immigrati clandestini, grazie alle politiche fallimentari di contenimento dei confini da parte dei nostri politicanti e grazie alla reiterata indifferenza della tanto “solidale” Unione europea.

Per di più, il legislatore, essendo titolare di una riserva di legge costituzionalmente sancita, potrà – con l’approvazione della maggioranza del Parlamento – intervenire in modo draconiano sulla gestione della nostra proprietà privata immobiliare, imponendo in modo invasivo degli adeguamenti strutturali per la sedicente tutela ambientale, costi che andrebbero a ripercuotersi sulla già provata e precaria stabilità economica delle famiglie e dei cittadini italiani, magari con il “ricatto” di prevedere delle sanzioni pecuniarie qualora questi adeguamenti non venissero eseguiti e magari inducendoli a vendere o peggio ancora a svendere a colossi di multinazionali immobiliari, sempre più fameliche e invadenti nella loro conquista del mercato immobiliare italiano.

La stessa riserva di legge costituzionale metterebbe il legislatore nelle condizioni di intervenire in modo invasivo nella gestione delle imprese private, ovviamente sempre a tutela dell’ambiente e dell’attuazione della transizione ecologica, a cui l’Ue ha vincolato l’erogazione dei fondi per il Pnrr, causando di conseguenza il loro fallimento, come abbiamo già potuto constatare con la legiferazione delle restrizioni incostituzionali governative a danno della libertà di circolazione ed economica e quindi d’impresa, attuate con la giustificazione della presenza della pandemia.

Le stesse politiche per attuare in modo repentino e forzatamente questa “salvifica” transizione ecologica stanno mettendo a repentaglio interi settori industriali e produttivi, minando la sopravvivenza di diverse imprese e di conseguenza di molteplici posti di lavoro, nonché di tutti gli indotti derivanti, oltre al fatto che sta portando verso una deriva esiziale numerose piccole e medie imprese, a vantaggio “stranamente” delle solite multinazionali.

Una Costituzione, per antonomasia, in un’accezione razionalista evoluzionista (ossia veramente liberale) e non costruttivista, dovrebbe prevedere norme astratte e generali e non particolari, altrimenti diventerebbe uno strumento per realizzare soprusi legislativi a danno delle libertà individuali. In una nazione in cui l’inflazione normativa ha determinato l’inefficienza dello Stato di diritto, si dovrebbe porre l’attenzione nel far rispettare i principi fondamentali e inviolabili già sanciti nella Costituzione, anziché preoccuparsi di appesantirla con ambigui cavilli, che possono diventare la fonte normativa di mostruose leggi illiberali.

Impia sub dulci melle venena latent” (Ovidio,“Amores”)

https://www.opinione.it/politica/2022/02/18/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_riforma-costituzionale-ambiente-disinformazione-propriet%C3%A0-privata/

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Insulto virtuale tra illecito civile e reato

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di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Insulto virtuale tra illecito civile e reato

In una società in cui il tempo scorre freneticamente, in cui gli scambi relazionali diventano fugaci, asettici e molto spesso in preda a frustranti nevrosi, la tecnologia straripante ha invaso ogni meandro dei rapporti umani, diventando l’anfibolo strumento per comunicare in modo repentino e per manifestare tutta la propria rabbia come valvola di sfogo, con l’ingannevole sensazione di possedere un’infinita ed incontrastabile onnipotenza per proferire ciò che si vuole e contro chiunque, nell’illusoria convinzione di rimanere impuniti ed esenti da qualsiasi responsabilità giuridica e giudiziaria. Questo scenario appena descritto è quello che contraddistingue la nostra vita contemporanea, la quale si è trasformata progressivamente e repentinamente, passando da esistenza reale a riflesso virtuale degli stessi strumenti tecnologici a disposizione, come i “social network”. Da questo contesto si deduce sempre maggiormente l’esigenza di tutelare sia chi, senza alcun intento criminoso, è autore di illeciti civili a causa delle suddette condotte e sia coloro che ne sono vittime.

Per questo è opportuno palesare le diverse fattispecie giuridiche che possano derivare da condotte illecite nell’utilizzo dei social network. La condotta che determina atti illeciti, tramite l’utilizzo dei social network in modo improprio è una fattispecie, che suscita grande attenzione ed interesse da parte delle istituzioni, sia da un punto di vista normativo con l’introduzione di nuove previsioni legislative, che giurisprudenziale con sentenze alquanto severe e sensibili al problema, soprattutto da parte della Suprema Corte. A seconda della condotta esercitata dall’autore del fatto illecito tramite l’utilizzo del social network o del bene giuridico di interesse normativo, si configurano diverse fattispecie di reato. Le ipotesi di reato più frequenti riguardo al proferire insulti sulle piattaforme dei social network sono il reato di diffamazione ex articolo 595 del Codice penale ed il reato di minaccia ex articolo 612 del Codice penale. Secondo l’articolo 595 del Codice penale chi “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” commette il reato di diffamazione, perché lesiona il bene giuridico della reputazione, dell’onore e del decoro.

Il comma 2 del suddetto articolo prevede un aumento sanzionatorio per colui che diffama attribuendo un fatto determinato, mentre il comma 3 prevede un inasprimento sanzionatorio quando la diffamazione è diffusa “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, al postutto, il comma 4 prevede un aumento sanzionatorio riguardo a chi compie il reato di diffamazione “recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio”. Colui che insulta tramite un profilo social qualcun altro non solo può incorrere nel reato di diffamazione, oltre a rientrare nella fattispecie prevista dal comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale se concretizzata con l’attribuzione di un fatto determinato, ma può essere colpevole anche di diffamazione aggravata (ex articolo 595 del Codice penale, comma 2) se compiuta tramite mezzi di pubblicità diversi dalla stampa, diretta a una pletora di possibili destinatari, come conferma la stessa sent. N. 13979/2021 della Cassazione penale.

L’altra fattispecie di reato di cui potrebbe risultare imputabile chi insulta sui social è quella riguardante la minaccia (ex articolo 612 del Codice penale), che si concretizza nell’intimidire con la previsione di recare un male ingiusto, che a sua volta è idoneo a generare un disagio al destinatario, a causa del timore di esserne vittima, come conferma la sentenza n. 358187/2018 della Cassazione penale. In particolare, la sentenza n.17159/2019 della Cassazione penale precisa che perché si configuri il reato di minaccia “è sufficiente che il male prospettato sia idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti essere destinatario, male che non può essere costituito dalla prospettazione di una legittima azione giudiziaria civile e dalla diffusione di notizie relative all’inadempimento negoziale commesso nei confronti dell’agente”.

Quindi quando si utilizza il proprio profilo social per insultare qualcuno bisogna tener conto che se il fatto viene compiuto “comunicando con più persone, offende l’altrui persona”, quindi, nell’ipotesi che il destinatario dell’insulto non sia presente si può commettere il reato di diffamazione, mentre se l’insulto è compiuto in presenza del destinatario, anche se essa si realizza in modo, appunto, virtuale, allora si configura la fattispecie di un illecito civile e non di un reato, in quanto l’autore dell’insulto sarebbe colpevole di aver commesso un’ingiuria, ex illecito penale, che con il Decreto legislativo del 15 gennaio del 2016, n.7, è stato depenalizzato. In conclusione, anche se l’illecito civile d’ingiuria si può commettere con una comunicazione telefonica o telegrafica, quindi anch’esso in modo virtuale, il fatto che ci sia la presenza del destinatario dell’insulto, anche a distanza, costituisce una distinzione giuridicamente fondamentale dalla diffamazione, che invece è e resta un illecito penale, la quale appunto, si può consumare anche virtualmente, ma in assenza del destinatario. In sostanza, colui che si prodiga ad utilizzare il proprio profilo social per insultare senza limiti e rispetto della reputazione e del decoro altrui, pensando ingenuamente di essere in una zona franca, perché virtuale, può incorrere in due illeciti, quello civile rappresentato dall’ingiuria e quello, giuridicamente ancora più grave perché penale, del reato di diffamazione.

“Qui diligit rixas meditatur discordias”

https://www.opinione.it/politica/2022/02/10/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_social-network-ex-articolo-595-codice-penale-reato-minaccia-ex-articolo-612/

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Luci sbiadite di un’Italia già morta

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di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Luci sbiadite di un’Italia già morta

In una nazione senza alcuna memoria storica come l’Italia, composta da una popolazione di contemporanei, ignara completamente delle proprie origini e del proprio passato, non dovrebbe sorprendere il fatto che la maggioranza degli italiani, nonostante abbia visto violare reiteratamente la propria Carta costituzionale, peraltro nei principi fondamentali e per questo (teoricamente) inalienabili, gioisca per gli sviluppi politici ed istituzionali, come la conferma del Governo Draghi, ossia il “sicario” della nostra libertà di circolazione e della nostra libertà economica, con un ministro della Salute, Roberto Speranza, che in diverse occasioni ha palesemente dimostrato la sua grave responsabilità nella gestione della pandemia. Soprattutto al suo inizio, quando lo stesso consigliava di somministrarsi la Tachipirina a chi si era contagiato di Covid e che, sempre all’inizio, vietava che venissero svolte le autopsie sui primi deceduti a causa del Covid-19.

La natura servile e di sudditanza radicata nella cultura atavica degli italiani si è declinata in modo apodittico soprattutto nell’osannare la rielezione dello stesso Presidente della Repubblica, che ha avallato quanto sopra esposto, soprattutto il modus agendi incostituzionale del Governo Conte prima e del Governo Draghi attualmente con i loro atti non aventi alcuna forza di legge come i Dpcm. Ma soprattutto hanno applaudito il Capo dello Stato che, nel suo discorso d’insediamento del secondo mandato presidenziale, ha denunciato tutto ciò che egli stesso nel suo primo mandato ha permesso che accadesse, diventandone complice.

Gli italiani, sedicenti “brava gente”, hanno dimostrato semplicemente di essere un gregge senza alcun buon senso: dopotutto basta dargli una nuova edizione del festival nazional-popolare e un reality show, insieme al conduttore o conduttrice popolani e demagogici di turno, che con le loro trasmissione grottesche e grette lobotomizzano la mente omologata dell’italiano medio. Con questo scenario subumano e incolto è palese che gli italiani siano entusiasti e abbiano fiducia nel loro presidente del Consiglio, che dopo aver affossato l’economia e distrutto diverse piccole e medie imprese con le sue “lungimiranti” restrizioni, afferma gioioso e soddisfatto che l’economia italiana è cresciuta del 6 per cento nel 2021 rispetto al 2020. Un dato surreale, perché nasce dal confronto con quello del 2020 in cui l’economia italiana era totalmente ferma a causa del lockdown totale.

Detto ciò, trovo ancora più sconvolgente che gli italiani, oltre a non denunciare la povertà emergente in modo progressivo ed esponenziale nella propria economia reale, non si preoccupino neanche dei dati drammatici macroeconomici della propria nazione. A cominciare da quelli sulle dinamiche demografiche e del mercato del lavoro dell’Italia, da cui si evince un esiziale crollo delle nascite negli ultimi cinquant’anni, che di conseguenza ha generato un divario tra coloro che escono ed entrano nella fascia di età lavorativa. Addirittura, da questi dati emerge che grazie agli immigrati (non clandestini) si è più che compensato l’impatto delle dinamiche demografiche sulla forza lavoro. Ma nonostante questa compensazione straniera, la situazione andrà a peggiorare, in quanto il divario tra uscenti ed entranti in età lavorativa aumenterà in modo drastico a causa del pensionamento delle coorti dei “baby boomer” degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, che non potrà essere limitato e compensato neanche dal saldo migratorio.

Con un’analisi più approfondita si evince che l’andamento del saldo demografico è condizionato dal calo della natalità dell’ultimo cinquantennio. Nello specifico, le nascite sono diminuite passando dalle 900.000 unità di inizio anni Settanta a circa mezzo milione tra la fine degli anni Ottanta e l’ultimo decennio, fino a raggiungere l’inquietante calo di meno delle 400.000 unità nel 2021. Da quanto finora esposto, si deduce che in Italia sta progressivamente emergendo che non solo ci sarà nei prossimi anni una carenza di forza lavoro riguardo a quelle occupazioni che gli italiani rifiutano di svolgere, ma ci sarà anche una carenza di forza lavoro specializzata e professionale, sempre a causa della drammatica diminuzione delle nascite.

Oltre al danno anche la beffa. Infatti, anche se la politica incapace e molto spesso cialtrona cambiasse rotta e attuasse delle politiche che favorissero e incentivassero l’aumento della natalità in Italia, sarebbe comunque ormai troppo tardi per vederne i primi effetti nel breve e nel medio periodo, ma bisognerebbe sperare di riscontarne i primi solo nel lungo periodo. In sostanza, questo significa che oramai l’Italia, così come noi riteniamo in modo miope di concepire già non esiste più, è morta, come quelle stelle ormai implose di cui si scorge ancora una fievole luce nel cielo oscuro, perché questi scenari sopra esposti dimostrano che per sostenere la forza lavoro nei prossimi vent’anni, sempre a causa delle suddette tragiche dinamiche demografiche, sarà improcrastinabile e necessario attingere all’immigrazione straniera, portando il suo numero a livelli molto superiori di quelli già riscontrati nel primo ventennio del Duemila.

Come dire, Italia è già avviata a passare da Patria nostra a Patria loro, ma dopotutto ogni popolo si merita ciò che il proprio riflesso, ossia la propria classe politica, ha seminato negli anni. E questo è ciò che l’Italia si meriterà. Aura popularis (italica).

https://www.opinione.it/politica/2022/02/08/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_italia-memoria-immigrazione-pandemia-lockdown/

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