CRONACA DI UN NO-DEAL ANNUNCIATO, TRA REGNO UNITO E UNIONE EUROPEA

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Brexit: cos'è il no-deal?

Nella primavera del 2019, la mancata intesa sulla Brexit e le continue pressioni interne costrinsero Theresa May a dimettersi e si ripresentò lo spettro del No-Deal.

Dopo le elezioni di dicembre 2019,  subentrò come primo ministro Boris Johnson, il quale, il 31 gennaio del 2020, è riuscito ad ottenere la Brexit, creando in tal modo una fase di transazione.

Dal punto di vista letterale il termine significa «nessun accordo»., dunque il No-Deal può essere definito come una Brexit senza una intesa tra Regno Unito e Unione europea.

Il periodo di transizione nel quale Regno Unito e UE dovranno trovare un accordo di natura commerciale è iniziato il primo febbraio scorso e se non verrà raggiunta alcuna intesa entro la fine dell’anno, il No-Deal determinerà diverse dannose conseguenze per entrambe le parti.

Il mercato si è subito allarmato sui risvolti pratici del No-Deal sui suoi effetti in conseguenza dell’uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo, che genererebbe gravi conseguenze economche per entrambi gli interlocutori.

Il No-Deal determinerebbe l’introduzione di nuovi dazi, tariffe e controlli doganali, secondo quanto previsto dalle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), a cui dovrebbero sottostare il Regno Unito e l’Unione Europea.

Uno scenario negativo per entrambe le economie, messe duramente alla prova dall’emergenza coronavirus, che imporrà ai rispettivi PIL di archiviare il 2020 con forti flessioni.

In finale, il no-deal modificherebbe radicalmente l’attuale situazione ed equilibrio commerciale ed economico per entrambi, anche in riferimeno alla precaria situazione economico-sociale causata dalla pandemia del Covid-19.

Il fatto che un ipotetico accordo dovrà essere ratificato da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea lo rende ancora più difficoltoso da raggiungere ed il suo fallimento potrebbe peggiorare ulteriormente le relazioni commerciali e di conseguenza il Pil dei Paesi membri più fragili e con un debito pubblico già alquanto compromesso, come è quello italiano.

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VOTARE SI, SIGNIFICA VOLERE 200 MILIARDI DI SPRECHI DELLA PA E LA RIDUZIONE DELLA SOVRANITA’ POPOLARE

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Io voto no al referendum del | Ienevideo

Il 20 e il 21 settembre si svolgerà il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari e coloro che sono a favore di tale riduzione e quindi voteranno “Si”, sostengono che ciò determinerà un risparmio per la spesa pubblica.

L’Ufficio studi della Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato (CGIA) ha realizzato una ricerca in cui ha comparato il mancato gettito derivante dall’evasione fiscale che danneggia la Pubblica Amministrazione con i costi aggiuntivi che penalizzano le famiglie e le imprese italiane a causa del malfunzionamento dei servizi pubblici.

Sebbene questa ricerca non abbia alcun rigore scientifico, presenta comunque un rigore concettuale, da cui si evince che l’ammontare di 110 miliardi di euro annui di evasione fiscale (Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze) risulta decisamente inferiore al danno economico recato ai contribuenti a causa degli sprechi e della corruzione all’interno della PA, che ammonta a oltre 200 miliardi di euro all’anno, ossia quasi il doppio rispetto all’evasione fiscale.

L’Ufficio studi della CGIA ha elencato i seguenti sprechi ed inefficienze presenti nella Pubblica Amministrazione:

  1. il costo annuo di 57 miliardi di euro per le imprese nella gestione dei rapporti con la burocrazia della PA (Fonte: “The European House Ambrosetti);
  2. i 53 miliardi di euro di debiti commerciali della PA nei confronti dei propri fornitori (Fonte: Banca d’Italia);
  3. il deficit logistico-infrastrutturale che penalizza il sistema economico nazionale pari ad un importo di 40 miliardi di euro all’anno (Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti );
  4. La perdita di 40 miliardi di euro per il Pil a causa delle fatiscenze della giustizia civile (Fonte: CER-Eures);
  5. i 24 miliardi di euro di spesa pubblica in eccesso che non consentono di abbassare la pressione fiscale italiana in rapporto con la media degli altri Paesi europei (Fonte: Discussion paper 23 Commissione Europea);
  6. i 23.5 miliardi di euro all’anno di spesa pubblica causata dalla corruzione a dagli sprechi (Fonte: ISPES);
  7. i 12.5 miliardi di euro all’anno causati dagli sprechi e le inefficienze del settore del trasporto pubblico locale (Fonte: “The European House Ambrosetti-Ferrovie dello Stato).

Dopo aver riportato la suddetta ricerca dell’Ufficio studi della CGIA, si deduce che coloro che sostengono questa riforma costituzionale sulla riduzione dei parlamentari preferiscono compromettere l’equilibrio dei pesi e contrappesi costituzionali, riducendo il Parlamento, ossia l’unico organo rappresentativo della sovranità popolare, perché eletto direttamente dal popolo, anziché razionalizzare e ridurre i vergognosi sprechi nella pubblica amministrazione..
Perché l’unica verità che non si vuole affermare e l’unica seria riforma, che per opportunismo politico, nessun partito vuole realizzare, sono quelle riguardanti la pubblica amministrazione, ossia quell’elefantiaco colosso, che è il frutto di decenni di voto di scambio tra una cittadinanza senza alcuna dignità civica e una classe politica incapace e solo protesa a prosciugare le finanze dei contribuenti pur di crearsi un feudo elettorale ben ripagato con posti di lavoro a spese dello Stato.
Per non parlare anche dei sontuosi emolumenti e liquidazioni dati a dirigenti statali, perché rappresentanti delle correnti politiche maggioritarie di turno.
La cialtroneria gattopardesca di questa nazione continua ad esercitare la sua deleteria influenza propagandistica, sempre a danno dei cittadini, che, essendo loro stessi vittime della irrazionale e rabbiosa reazione alla politica, finiscono per assecondare questo processo di trasformazione da cittadini a sudditi, avallando la riduzione dei loro diritti costituzionali, come la rappresentatività parlamentare.

Vedete, io comprendo che il livello medio di istruzione in Italia è più basso di quello degli altri Paesi europei, risultato di anni di depauperamento progressivo della qualità formativo-scolastica (grazie anche ai postumi della demagogia sessantottina che portò alla legittimazione del 6 politico), ma qui si tratta di buon senso.
Infatti, sono decenni che si parla di corruzione e spreco nella pubblica amministrazione e invece di affrontare in modo legislativo questa depauperante vergogna, ci si sfoga contro i propri diritti costituzionali.
Inoltre, abbiamo avuto la testimonianza di Carlo Cottarelli, che quando provò ad affrontare questo annoso problema italiano fu emarginato e “radiato” dal Governo Renzi.
Qui si va oltre i deficit culturali, qui si arriva ad una patologia neurologica, ad una sorta di dislessia ipertrofica nel giudicare la realtà in modo differente da quella che in maniera consapevole ed evidente si conosce e si subisce, in sostanza si è vittima di una bipolarità cognitiva, del tipo: io so che la pubblica amministrazione è corrotta e sprecona e per risolvere ciò riduco i miei diritti costituzionali.

ILLE NIHIL DUBITAT QUI NULLAM SCIENTIAM HABET

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REFERENDUM COSTITUZIONALE 2020

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«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?»

Riforme costituzionali | Ainis spiega pro e contro del Ddl Boschi

(Articolo scritto da Fabrizio V. Bonanni Saraceno)

Il 20 e 21 settembre del 2020 si svolgerà il quarto referendum costituzionale confermativo della storia della Repubblica italiana per approvare o respingere la legge di revisione costituzionale, con il titolo “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”.

Il testo di legge in questione (approvato in modo definitivo, con una maggioranza qualificata, alla Camera dei Deputati) prevede il taglio del 36,5% del totale dei componenti dei due rami del Parlamento, passando da 630 a 400 seggi elettivi alla Camera dei Deputati e riducendo a 200 seggi elettivi i 315 attuali per quanto riguarda il Senato della Repubblica.

In prima deliberazione, entrambe le Camere parlamentari, a maggioranza assoluta, hanno approvato, la legge di revisione costituzionale, ex art. 138 comma 1.

Durante la seconda deliberazione che si è svolta l’11 luglio del 2019, alla Camera dei Deputati è stato raggiunto il quorum dei 2/3 dei deputati, raggiungendo in tal modo la maggioranza qualificata prevista dall’art. 138 della Costituzione, mentre durante la seconda deliberazione svolta al Senato, l’8 ottobre del 2019, non è stata raggiunta la maggioranza qualificata, a causa del voto contrario espresso dai senatori del Partito Democratico del partito di Liberi e Uguali (che al tempo della votazione erano entrambi all’opposizione del Governo Conte I) e a causa dell’astensione dal voto da parte del partito di Forza Italia.

Il fatto che durante la seconda deliberazione non siano state raggiunte le maggioranze qualificate dei 2/3 in entrambe le Camere, come previsto dall’art. 138 della Costituzione, ha compromesso l’iter di approvazione della legge di revisione costituzionale.

Il secondo comma dell’art. 138 della Costituzione italiana prevede per tali situazioni che, entro i 3 mesi successivi alle seconde suddette votazioni di entrambe le Camere, 1/5 di ciascuna Camera parlamentare o 500.000 elettori o 5 consigli regionali possano richiedere che venga indetto un referendum confermativo.

Ciò ha permesso di esercitare la facoltà da parte di 71 senatori di depositare, il 10 gennaio del 2020, la richiesta di far indire un referendum costituzionale confermativo, presso la Corte Suprema di Cassazione, che sempre secondo la Costituzione non prevede il raggiungimento di alcun quorum per la sua efficacia.

Dopo aver effettuato un excursus storico e i motivi costituzionali che hanno giustificato il futuro svolgimento del referendum confermativo, credo che sia opportuno e di fondamentale rilevanza liberale e democratica spiegare le motivazioni per cui sia decisivo votare no e non confermare la promulgazione di questa legge di revisione costituzionale.

L’approvazione di questa legge determinerebbe l’instaurazione di un sistema oligarchico a danno della rappresentanza parlamentare e quindi della sovranità popolare, di cui il Parlamento è l’organo rappresentativo per eccellenza, perché eletto direttamente dal popolo.

Questa legge riducendo il numero dei parlamentari rafforzerebbe ulteriormente il deleterio potere delle segreterie di partito, che deciderebbero con maggiore arbitrio chi e dove candidare i candidati a loro graditi, più di quanto già compiono con l’attuale destabilizzante legge elettorale, tutto a danno della rappresentanza locale e territoriale, visto che verrebbero allargati i collegi uninominali.

Per spiegare in modo più chiaro ed esaustivo le fondamentali ragioni che sono alla base di chi sostiene, come il sottoscritto. il voto per il no al referendum costituzionale, ho redatto di seguito alcuni punti per facilitarne la comprensione.

  1. Il principio secondo il quale diminuendo il numero dei parlamentari aumenterebbe la qualità rappresentativa, è privo di qualsiasi fondamento logico sia teorico, che pratico, anzi renderebbe più semplice la strumentalizzazione politica nei confronti dei parlamentari rimasti, qualora si dimostrassero incompetenti e disonesti (come la demagogia del volgo spesso sostiene), da parte delle segreterie dei partiti e delle lobbies,;
  2. la politica sarà di assoluto dominio di un’oligarchia, che per esempio al Senato potrà legiferare con “mini” commissioni;
  3. con la riduzione di 200 componenti al Senato, solamente le liste elettorali più grandi si attribuiranno i seggi, a scapito di quelle più piccole e quindi del pluralismo democratico;
  4. I governi saranno dipendenti dai voti, vitali per la loro sopravvivenza, dei Senatori a vita;
  5. Il voto di fiducia, che è approvato a maggioranza relativa, con la riduzione dei parlamentari avrà una funzione alquanto ridimensionata;
  6. la Costituzione diventerà alla mercé delle segreterie dei partiti, visto che per cambiare la Costituzione basterà il voto di un numero minore di parlamentari;
  7. l’Italia sarà il Paese europeo col minor numero di rappresentanti e la sovranità popolare sarà seriamente compromessa in virtù della riduzione della sua rappresentatività parlamentare, infatti il taglio del numero dei parlamentari diminuirebbe la rappresentanza parlamentare in rapporto con quella delle altre nazioni europee, aggravandone lo squilibrio; questa riforma costituzionale farebbe precipitare l’italia agli ultimi posti nella classifica relativa al numero di parlamentari eletti ogni 100.000 abitanti;
  8. la riduzione dei collegi uninominali per circoscrizione comprometterebbe l’omogeneità della popolazione elettorale e ridurrebbe la rappresentatività delle minoranze linguistiche e territoriali, inoltre, aumenterebbe la discrezionalità nel disegnare i nuovi perimetri dei collegi, a danno del diritto di rappresentanza delle coalizioni minori e quindi della democrazia.
  9. la riduzione dei parlamentari non influirebbe sulla diminuzione della spesa pubblica, visto che corrisponderebbe circa al costo di un caffè all’anno per ciascun italiano, ossia lo 0.007 della spesa pubblica, perché l’elevata spesa pubblica dipende dal costo della pletora dei dipendenti del Parlamento, tra l’altro molto più alto di quello sostenuto dalle altre nazioni;

Dulcis in fundo, se è vero che “historia magistra vitae”, proprio dagli errori che si evincono dal passato, bisognerebbe aver tratto quei minimi insegnamenti, che ogni qual volta un movimento o un partito politico di matrice totalitaria che è arrivato in Parlamento, uno dei primi provvedimenti che ha preso per cercare di ridurre la democrazia, fino ad eliminarla totalmente, è stata proprio quello di ridurre il numero dei parlamentari, ossia la rappresentatività della sovranità popolare.

La stessa storia del secolo scorso ci insegna che, quando il Fascismo arrivò al Governo, il Capo del Governo Mussolini emanò delle leggi dette appunto “fascistissime”, che iniziarono la trasformazione dell’ordinamento giuridico ed istituzionale del Regno d’Italia, fino a completare l’instaurazione della dittatura, prima con l’approvazione della legge elettorale del 17 maggio 1928, la quale introduceva la lista unica, sostituendo la libera scelta elettorale con il sistema plebiscitario e poi nel 1939, pur senza mutare direttamente gli articoli interessati dello Statuto del Regno, con la sostituzione della Camera dei Deputati a favore della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la cui portata e composizione reale dei poteri portarono alla progressiva esclusione dei caratteri di effettiva titolarità della rappresentanza nazionale e di contitolarità del potere legislativo, condivisa con il re e con il Senato.

Il timore che il totalitarismo progressivo del Fascismo possa ripresentarsi in maniera differente con una deriva totalitaria di matrice rousseauniana dei “giacobini” giustizialisti pentastellati, non sia molto infondato, è confermato dal fatto che sempre in modo più evidente emerge la volontà, da parte del M5S, di sostituire progressivamente l’attuale democrazia parlamentare con una stato del pensiero unico e plebiscitario, detentore della “onesta verità”, eufemisticamente ed impropriamente definito “democrazia diretta”, ma che nella realtà dei fatti consiste solo in una gestione autoritaria del potere legislativo, grazie anche alla Piattaforma Rousseau, che più volte ha dimostrato di essere priva di qualsiasi metodo scientifico affidabile e comprovato e che per questo motivo può essere indirizzata a proprio piacimento, da parte dei vertici del M5S, nel riportare i risultati delle sedicenti votazioni elettroniche, che usano compiere all’interno del movimento, non come realmente sarebbero stati, ma alterati, in modo tale da farli apparire come decisioni della maggioranza degli iscritti al movimento.

In conclusione, da questo bislacco tentativo di riforma costituzionale emerge solamente il grande vuoto che progressivamente si è radicato intorno ai fondamenti della democrazia, di cui oggi si iniziano a vedere i dirompenti effetti nella crisi che sta investendo il nostro sistema democratico.

Purtroppo, la vittoria sulle dittature e sui totalitarismi del Novecento ha solo rallentato il deterioramento delle istituzioni democratiche e l’illusione che si fosse trattato di un trionfo definitivo ha condotto a ignorare i segnali d’allarme che i due conflitti mondiali avevano messo in evidenza.

I concetti cardine di popolo, libertà e sovranità hanno continuato a svuotarsi del loro significato, risolvendosi oggi in una mancanza di concretezza da parte dell’azione politica e nell’incapacità di avere una visione per il futuro fondata su una filosofia pubblica, ovvero con al centro valori veramente condivisi e rispettosi dei principi costituzionali.

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LA REITERATA OMERTÀ DEL GOVERNO CONTE

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9/12/19 - Il Consiglio di Stato annulla la decisione del Tar Lazio ...

È avvenuto quanto segue:
1) prima è stata effettuata la richiesta alla Protezione Civile di rendere pubblici i verbali del Comitato tecnico scientifico riguardo al Covid-19 e dopo il rifiuto da parte della Protezione Civile è stato fatto il ricorso al TAR del Lazio da parte di tre avvocati siciliani (Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello e Rocco Mauro Todero), componenti della Fondazione Luigi Einaudi, che hanno trovato la condivisione ed il sostegno culturale della Fondazione, e poi, nella difesa dinanzi al TAR Lazio, sono stati affiancati da altri tre avvocati, anch’essi di area liberale (Federico Tedeschini, Paolo Ezechia Reale e Nicola Galati);
2) il TAR (sentenza 8615 del 22.07.2020) ha accolto il primo motivo di ricorso dei tre avvocati ricorrenti e dei loro tre codifensori, riconoscendo le loro buone ragioni, e, dichiarando assorbiti gli altri quattro motivi di ricorso (che quindi non sono stati esaminati) ha ordinato alla Presidenza del Consiglio-Protezione Civile di consentire l’accesso agli atti del Comitato Tecnico Scientifico che era stato negato;
3) con atto del 29.07.2020, l’Avvocatura dello Stato, per incarico della Presidenza del Consiglio e della Protezione Civile, ha proposto appello al Consiglio di Stato, e, nelle more della trattazione del ricorso, ha chiesto al Presidente del CdS un provvedimento monocratico, inaudita altera parte, per la sospensione dell’esecutività della sentenza del TAR;
4) il Presidente della Sezione III del CdS, Franco Frattini, non ha annullato, e neppure poteva farlo, la sentenza del TAR, ma ha solo emesso, il 31 luglio, un Decreto monocratico cautelare col quale ha disposto per il momento la sospensione dell’esecutività della sentenza del TAR, sull’ovvia considerazione che l’accesso agli atti e la loro divulgazione, una volta avvenuti, avrebbero reso inutile lo stesso giudizio dinanzi al CdS, perché gli atti, una volta resi pubblici, tali sarebbero rimasti anche in caso di accoglimento dell’impugnativa; si è trattato di un Decreto che era attesissimo, e che non ci ha quindi sorpreso, essendo l’urgenza del medesimo “in re ipsa”;
5) Tuttavia, il Presidente Frattini, nella motivazione del suo decreto cautelare, e pur facendo doverosamente salva la valutazione collegiale della Sezione che si occuperà del giudizio, ha tenuto a evidenziare le sue perplessità in ordine a quasi tutti i motivi dell’impugnazione dell’Avvocatura, facendo solo salva la possibilità di valutare più approfonditamente nel merito un solo specifico motivo d’impugnazione, e ha fissato l’udienza del 10 settembre per la decisione sia sul provvedimento cautelare, sia sul merito.

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IL LIBERALISMO INTEGRALE COME ANTIDOTO CONTRO LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI COSTITUZIONALI E LA BUROCRAZIA

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(Articolo scritto da Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno)

Carta da Parati Word cloud per il liberalismo classico • Pixers ...

L’azione governativa incostituzionale che fino ad oggi abbiamo visto concretizzarsi con una inimmaginabile sfrontatezza e accondiscendenza della classe politica e delle istituzioni, non è un fatto casuale, ma figlia di una certa cultura politica radicata in Italia e di un retaggio illiberale che non ha mai abbandonato certe tendenze interventiste e stataliste che hanno sempre fatto prevalere il potere statuale sulla società, nella illusoria concezione che l’intervento dello Stato nella sfera sociale, economica e culturale, possa realizzare la “giustizia sociale”.

In una società pienamente e compiutamente liberale non può sussistere alcun accostamento positivo tra etica e Stato, perché la funzione dello Stato non può essere che quella esclusivamente di garante dei diritti costituzionali e quindi pre-politici, perché esso non deve e non può essere un creatore di diritti e tanto meno di “un’etica pubblica”.

La reiterata violazione costituzionale risponde proprio a quella concezione secondo la quale lo Stato possa decidere il giusto ed il bene dei cittadini derogando anche agli stessi principi e diritti costituzionali.

Questa è la cultura cui appartengono le compagini politiche che compongono l’attuale maggioranza parlamentare, di cui l’attuale governo è l’espressione politica.

Se la principale espressione partitica della sinistra italiana, nella sua evoluzione politica post marxista, ha abbracciato la visione democratica della società, non ha di certo mai sposato i principi del liberalismo, inteso nella sua accezione di liberalismo classico, ma tutt’al più, dopo decenni di ostracismo verso qualsiasi tesi che non rispondesse ai dogmi della cultura marxista, oggi è intenta a voler rappresentare la tradizione liberal, che non ha nulla a che vedere con il liberalismo.

La cultura liberal tenta di subordinare la politica al raggiungimento di finalità etiche (la così detta giustizia sociale) e quindi è completamente indifferente del fatto che ciò porti ad un incremento del potere politico, mentre un liberale valuterà la realizzabilità dei fini alla luce di questo conseguente incremento.

In quanto il liberale contrasta ogni tipo di concezione che mitizza lo Stato come produttore di un ordine tramite la legislazione e la pianificazione economica-sociale, anche durante un’emergenza pandemica.

Sia la difesa intransigente della libertà individuale, la consapevolezza dell’insanabile contrapposizione tra il potere e la libertà di ricercare sempre nuove soluzioni ai problemi sociali, sia la tendenza di diffidente prudenza nella possibilità di incrementare il potere politico per raggiungere fini, dei quali non possiamo conoscere tutte le possibili conseguenze, sono gli assiomi fondamentali della tradizione liberale.

Da ciò si comprende tanto la disinvoltura con cui l’attuale Governo ha violato la Costituzione utilizzando dei dpcm incostituzionali, esautorando completamente la funzione legislativa del Parlamento, consentendosi di attuare la restrizione dei principi inviolabili delle libertà individuali, come la libertà di circolazione, tutelata dall’art. 16 Cost., quanto la complicità della maggioranza che proprio nella sua cultura liberal (post marxista) vede la risoluzione di ogni problema, al punto da giustificare anche la violazione della Costituzione e dei diritti costituzionali.

Quindi, secondo la cultura liberal e post marxista, lo Stato può negare anche le fondamenta del suo ordine giuridico, ossia la Costituzione e da stato di diritto si trasforma in stato di polizia da cui trae origine la cultura dell’Interventionism e del Welfare State, ossia l’odierna situazione che noi cittadini stiamo vivendo grazie ai provvedimenti incostituzionali disposti da Governo.

La proliferazione di commissioni di esperti e soloni scienziati, istituite dal Governo, commissioni a cui è stato affidato il futuro delle nostre libertà, nasce proprio da quella cultura “scientista”, secondo la quale il così detto “metodo scientifico” possa risolvere qualsiasi problema sociale, una concezione che cela quel substrato ideologico socialista e razionalistico che è ancora ben radicato nella cultura dei post marxisti..

Il vero problema che ci si pone in uno stato di diritto e quindi veramente liberale, è quello di evitare che si manifesti un potere legislativo privo di limiti costituzionali che compromettano inevitabilmente le libertà individuali dei cittadini.

Questa deriva illiberale nasce anche dal fatto che esiste una certa cultura, tipicamente italiana che scinde il liberalismo dal liberismo, una distinzione decisamente insostenibile, perché senza libertà economica non può declinarsi alcuna libertà individuale, visto che la maggior parte delle istituzioni sociali, come il linguaggio, l’etica, il diritto, lo Stato, il mercato, i prezzi ed altro ancora sono il risultato non intenzionale di azioni umane che, nel realizzare dei propri interessi soggettivi interagiscono con altre azioni umane con uguali fini, riassunto nella definizione hayekiana di “ordine spontaneo”, ossia quelle situazioni nuove ed impreviste.

Con la rivoluzione “marginalistica” e il sopraggiungere della “teoria dei valori soggettivi”, la concezione secondo la quale il liberalismo etico-politico di stampo crociano prevalga sul liberalismo economico (ossia il liberismo) è priva di senso, oltre ad essere anacronistica.

In uno stato liberale non esiste alcuna emergenza che possa giustificare la violazione della Costituzione e delle libertà individuali , neanche la pandemia del Covid-19, perché in uno stato di diritto per risolvere ogni problema si ricercano quelle soluzioni che direttamente o indirettamente si avvicinano all’obiettivo di ridurre il potere politico statuale che possa offuscare ogni orizzonte alle libertà individuali.

Quello che stiamo vivendo oggi è il prevalere del diritto pubblico sul diritto privato e quindi sulla libertà economica.

La mancanza di attenzione alla tutela della libertà economica deriva proprio da quella concezione secondo la quale può esistere il liberalismo prescindendo dalla libertà economica, ossia dal liberismo.

Infatti esiste un’analogia tra economia di mercato e diritto giurisprudenziale da una parte e tra economia pianificata e legislazione dall’altra parte.

Là dove esiste una libertà di mercato ed il diritto giurisprudenziale vige un sistema liberale compiuto.

In questa crisi sanitaria, oltre ad una grave violazione della Costituzione, abbiamo avuto la conferma di quanto sia pernicioso l’annoso problema che penalizza da sempre lo Stato italiano, ossia l’elefantiaco peso ostativo della burocrazia della pubblica amministrazione.

Se esiste un cambiamento positivo che possa nascere da questa pandemia è proprio quello di attuare una riforma radicale della cosa pubblica e quindi una sua sostanziale sburocratizzazione.

Iniziando dalla semplificazione della nostra legislazione, molto spesso farraginosa e contraddittoria che agevola la corruzione e la non trasparenza.

Il non rispetto dei dettami costituzionali nasce da una cultura illiberale di delegittimazione della facoltà di scelta individuale dei cittadini, che anche dal movimento dei cinque stelle, sono considerati incapaci di essere autonomi nello scegliere i propri interessi e quindi anche nella visione della così detta democrazia, impropriamente chiamata, diretta del movimento cinque stelle si cela un subdolo tentativo di pilotare la volontà dei cittadini tramite la piattaforma Rousseau, esautorando così l’organo costituzionale rappresentativo della sovranità popolare, quale è il Parlamento.

La mancanza di una cultura liberale e costituzionale porta l’attuale maggioranza parlamentare a confondere un istituto di diritto sostanziale come quello della Prescrizione e quindi garantito dalla Costituzione al secondo comma dell’art.25, con un istituto di diritto procedurale.

La legge del ministro della Giustizia Bonafede, non a caso esponente del movimento cinque stelle, rientra in questa visione incostituzionale e illiberale tipica di una cultura giustizialista e giacobina, che sono un retaggio di quella cultura socialista ed intervista e di quella cultura pseudo liberale perché razionalista che vede nella ragione l’infallibilità dell’azione umana, il così detto “razionalismo costruttivistico” continentale, che di liberale ha ben poco, antitetico al vero liberalismo, ossia quello anglosassone evoluzionista, che nel dubbio e non nella certezza della ragione, fonda le basi dell’evoluzione e del progresso dell’umanità.

Su queste basi e su questo strato culturale si è realizzata un’egemonia del diritto pubblico sul diritto privato, che ha trasformato il diritto da un insieme di norme di comportamento aventi carattere generale ed astratto, in un complesso farraginoso di direttive al cui fondamento non ci sono più la certezza del diritto e la prevedibilità dei comportamenti individuali, indispensabili per l’esistenza di un ordine, ma l’esclusiva esistenza di certi comportamenti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi che una maggioranza politica ha ritenuto giusti e validi.

In questa situazione di crisi economica derivante dalla pandemia del Covid-19, che molto probabilmente diventerà una depressione economica, il dedalo incontrollato della nostra legislazione contraddittoria, da cui trae origine la dannosa burocrazia , ostacola e ostacolerà ulteriormente tutti i presenti e futuri finanziamenti erogati dalla Bce per aiutare la ripresa dell’economia italiana e le imprese italiane.

Il potere corrotto della burocrazia italiana ricava la sua legittimazione proprio dall’inflazione legislativa, un’inflazione generata da una tendenza decennale della nostra classe politica che utilizza la legislazione come strumento per plasmare il diritto facendogli assumere dei connotati diversi a seconda del mutare delle maggioranze parlamentari e degli accordi dei partiti politici e gruppi sociali che li esprimono.

Al punto che oramai il diritto e quindi la sua certezza, sono stati mortificati da un modus agendi del confronto politico che si è trasformato in una sorta di guerra giuridica, di tutti contro tutti, combattuta tramite il potere legislativo per realizzare fini particolari fondati molto spesso sulla logica del voto di scambio.

Quindi tutte queste forze politiche che azzerano gli istituti di diritto sostanziale, le libertà individuali ed i diritti costituzionali fondano la loro azione sull’idea della pianificazione legislativa, che porta con se anche la pianificazione economica, ossia su dei tentativi di eliminare il processo di formazione spontanea delle istituzioni sociali, come il mercato ed il diritto.

Da questa concezione nasce l’assistenzialismo e le sue declinazioni più abiette e pericolose come il “reddito di cittadinanza”, ossia dal concetto di rendere gli italiani non dei consapevoli cittadini, ma dei sudditi obbedienti e “sfamati” dallo Stato, il cui Governo, come in una Repubblica di Platone, sa scegliere il meglio per loro, su come devono vivere, spostarsi e consumare, anche al costo di violare la Costituzione italiana.

Al posto di regole di condotta generali ed astratte, garantite dalla Costituzione, che permettono la realizzazione dei fini individuali, secondo una concezione liberale della società, progressivamente si sta passando ad un sistema improntato su norme di comportamento e di disposizioni atte a conseguire i fini che gli attuali pianificatori e legislatori ritengono che debbano essere perseguiti.

Questi disposizioni statuali impongono dei comportamenti che prevalgono sulle libertà individuali e quindi sui diritti costituzionali, che non sono considerati degli intoccabili ed universali valori. ma solo delle concessioni statuali conformi alle finalità sociali della pianificazione economica e legislativa dell’attuale Governo.

Una società non può essere realmente liberale e quindi libera se le è impedito di produrre spontaneamente un ordine fondato sulla prevedibilità dei comportamenti e non sulla loro obbligatorietà, come vorrebbe la cultura interventista e costruttivistica del Governo.

In questa drammatica fase storica, l’Italia si trova ad un bivio, continuare ad essere vittima della sua estensione illimitata della legislazione, che genera mostri come l’inefficiente e corrotta burocrazia, compromettendo definitivamente un ordine politico liberale e quindi le sue libertà individuali e uccidendo definitivamente la certezza del diritto o riformare la cosa pubblica in funzione della tutela costituzionale della prevedibilità dei comportamenti e della libertà della loro spontanea espressione, basandosi sempre sulla permanenza nel tempo di regole giuridiche spontaneamente prodotte dall’azione individuale, la cui principale caratteristica è proprio la sua prevedibilità, che rende possibile la convivenza e la realizzazione dei piani individuali, eliminando così definitivamente quella pianificazione legislativa, intesa come insieme di norme dispositive che il legislatore-politico può mutare a suo piacimento e per interessi politici di parte.

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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ È L’ETERNA VIGILANZA – LORENZO INFANTINO

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DI EMANUELE RACO DEL 2 MAGGIO 2020 (https://ilcaffeonline.it/2020/05/02/raco-lorenzo-infantino-liberta/)

Professore, quali rischi corrono oggi le libertà personali per effetto dell’incremento dell’invasività della presenza pubblica? I nemici della società aperta approfittano dell’emergenza?
Come i grandi maestri del liberalismo ci hanno insegnato, il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Non possiamo distrarci nemmeno per un momento. C’è un’esemplare e nota pagina, in cui David Hume ci esorta a preferire le regole agli uomini. Quando per una qualunque emergenza le regole vengono allentate o addirittura messe da parte, la nostra vigilanza deve aumentare. Non tutti comprendono i vantaggi di cui ci rende beneficiari la società aperta. Molti s’illudono che la semplificazione prodotta dalla centralizzazione delle decisioni possa essere la permanente soluzione di ogni problema. E si rendono in tal modo disponibili alla propaganda di facili demagoghi. Gli impresari della menzogna hanno più volte, nel corso della storia, portato all’imbarbarimento di popoli che pur sembravano percorrere le vie della civiltà. Uno sguardo rivolto al Novecento e alle sue tragedie dovrebbe essere sufficiente a ricordarcelo.

La situazione geopolitica, già in vistosa trasformazione negli ultimi anni, sta subendo delle alterazioni per effetto delle misure adottate dalle varie nazioni in risposta alla diffusione del virus. Sembra che, dall’America di Trump alla Cina di Xi Jinping, ci sia un denominatore comune costituito dal rafforzamento dell’identità collettiva a danno della libertà individuale di scelta.
Gli equilibri fra le nazioni non sono mai definitivi. Anche quando non ce ne accorgiamo, la situazione geopolitica è sempre in trasformazione, perché lo stato di quiete non fa parte della condizione umana. Vedremo come si metteranno le cose. Non collocherei però sullo stesso piano la posizione americana e quella della cinese. Gli Stati Uniti sono un Paese libero. Hanno oggi alla loro guida un uomo che può non piacerci. Ma egli non potrà sovvertire le regole del gioco. Potrà guadagnare un altro mandato presidenziale. Ma l’illusionismo, di cui a volte si serve, non potrà cambiare la storia e le istituzioni americane. Per analizzare il funzionamento della democrazia liberale, Alexis de Tocqueville è andato negli Stati Uniti. Non ha pensato minimamente alla Cina, il cui comunismo è nato sulla solida e lunga tradizione del “dispotismo orientale”. È perciò inquietante sentire talvolta dai commentatori nostrani, con tono molto mite e accondiscendente, che quella cinese è una democrazia diversa dalla nostra. Abbandoniamo ogni infingimento: il comunismo cinese è una versione dello Stato totalitario. Come mostra la sua storia e come mostrano anche le vicende di Hong Kong, è un Paese che non conosce la libertà individuale di scelta e che anzi la conculca sistematicamente, perché questo è il principio di base della stessa esistenza. Vedendo le cose dall’esterno e facendoci ingannare dalla propaganda politica, pensiamo forse che la sua crescita economica sia inarrestabile e che di fronte al Paese ci sia un florido e indisturbato futuro. Nessuno avrebbe pensato che l’impero sovietico sarebbe crollato da un momento all’altro. Ci sono stati economisti occidentali, penso a Paul Samuelson, i quali tranquillamente affermavano che l’economia comunista avrebbe presto superato quella capitalistica. Sappiamo come sono andate a finire le cose. Non diversamente da tutti i regimi che impediscono la libertà, quello cinese ha una sua interna e indubbia fragilità. Proprio lo sviluppo economico potrebbe condurre a insanabili conflitti interni e alla fine di quell’impero.

Venendo al nostro Paese appare macroscopica l’incapacità di coordinamento tra le diverse autorità sanitarie. Com’è possibile far convivere l’autonomia territoriale con le esigenze di coordinamento che si palesano in periodi come quello che attraversiamo?
Molte delle polemiche a cui assistiamo sono frutto di tatticismi politici. Qualcuno potrebbe dire che questo è il calice amaro a cui ci costringe la democrazia. Ma sarebbe una diagnosi frettolosa e piccina: perché non tiene conto che, in mancanza di istituzioni liberali, dovremmo coercitivamente e illimitatamente trangugiare veleno e l’oppio ideologico che spegne ogni capacità critica. L’esasperato tatticismo di oggi è ciò che nasce quando le classi dirigenti smarriscono il significato del compito a cui sono chiamate, o non sono consapevoli delle responsabilità che ricadono su di esse. L’autoreferenzialità di taluni attori politici può sfuggire solamente a chi non vuol capire. Al pari di tutta la vicenda umana, la politica è un dramma. E può facilmente trasformarsi in una tragedia. Scrivendo in una temperie più grave di quella di oggi, Max Weber lamentava che agli attori sociali mancasse la consapevolezza della tragicità di cui è intessuta ogni attività umana, soprattutto l’attività politica. Dovremmo riflettere su ciò.

C’è una grande domanda di una forza politica liberale e manca l’offerta. Cosa fare?
È un interrogativo a cui è non è facile rispondere. C’è indubbiamente un’offerta politica incapace di dare risposte alle richieste dei liberali. Il che è molto grave: perché significa non poter utilizzare l’unica bussola che consentirebbe al nostro Paese di potersi di misurarsi con le sfide che abbiamo davanti a noi. Le forze politiche in campo sono prevalentemente votate a una politica redistributiva, che conduce necessariamente alla dilapidazione delle risorse e alla caduta della produttività. Le vicende di questi giorni ci pongono in una situazione davvero difficile. Nella sua ultima intervista, Friedrich A. von Hayek, lo studioso che nel Novecento ha meglio incarnato l’idea liberale, ha richiamato indietro il suo intervistatore. E gli detto: per sconfiggere l’interventismo statale, i liberali devono essere degli “agitatori”, devono cioè impegnarsi senza risparmio di energie. Ha poi aggiunto: se l’economia globale dovesse bloccarsi, la popolazione di interi Paesi morirebbe di fame. L’ultima lezione di Hayek può gettare una penetrante luce anche sulle nostre attuali giornate e sulle scelte che saremo chiamati a compiere.

Quale libro consiglierebbe di leggere durante quel che rimane dell’isolamento?
Vorrei segnalare le belle pubblicazioni della “Biblioteca Austriaca”, la collana editoriale che ho fondato a metà degli anni Novanta presso l’Editore Rubbettino. Tanto per cominciare, suggerirei Liberalismo, un agile volume di Hayek, che può aiutare coloro che delle idee liberali sanno poco. E può anche confortare il sentimento politico di quanti, come noi, sanno che l’assenza di libertà equivale alla barbarie.

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L’anno che verrà: che ruolo avrà il diritto penale nell’ambito della ripresa economica? Prima parte.

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Corso di Diritto penale - Centro Studi Ulisse

Che ruolo avrà il diritto penale nell’ambito della ripresa economica? Quali sono, nel mutato contesto che ci attende, i principali rischi penali per gli operatori economici, imprenditori e intermediari finanziari? Quali invece le possibili condotte per mitigare tali rischi?

La non semplice riposta a tali interrogativi richiede una analisi delle principali direttrici lungo le quali, ad avviso di chi scrive, si svilupperà il rischio penale nell’era post-lockdown: da una parte, in tempi di crisi le “occasioni” di commettere illeciti economici crescono esponenzialmente; dall’altra parte alcune misure inserite nei D.L. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) e D.L. 23/2020 (c.d. Decreto Liquidità), ed in particolare quelle “di accesso al credito per le imprese”, prestano ex se il fianco a comportamenti opachi. In tale contesto, vengono in rilievo tematiche quali la correttezza nell’erogazione del credito, la continuità aziendale e la tutela dei creditori sociali, la trasparenza delle scritture contabili, la lealtà fiscale e il corretto funzionamento del mercato.

In ragione della vastità della materia, l’argomento sarà diviso in due parti: in questa prima parte, affronteremo le tematiche collegate al credito alle imprese, all’impatto dell’attuale crisi di liquidità sugli obblighi di versamento tributario e contributivo, alle valutazioni sulla continuità aziendale trasposte nelle scritture contabili e ai risvolti penal-fallimentari della crisi. La seconda parte, invece, affronterà i rischi penali relativi all’aggiudicazione di commesse: dalla corruzione in ambito pubblico, alla corruzione privata, dalla turbata libertà degli incanti sino alle frodi commerciali.

Come citare il contributo in una bibliografia:
J. P. Castagno – A. A. Stigliano, L’anno che verrà: che ruolo avrà il diritto penale nell’ambito della ripresa economica? Prima parte, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5

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DIRITTO ALL’OBLIO

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diritto all'oblio, diritto d'autore, copyright riforma

La questione giuridica afferente al riconoscimento del diritto all’oblio si è prospettata già in ambito sovranazionale dove ha trovato positivo riscontro, grazie all’elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Nel nostro ordinamento giuridico, esso risulta il frutto dell’opera interpretativa e della creazione giurisprudenziale, avendo, peraltro, richiesto un ulteriore sforzo anche da parte di attenta dottrina, al fine di distinguerlo adeguatamente, conferendogli per l’effetto autonomia concettuale, rispetto al diritto alla riservatezza e al diritto all’identità personale.

La problematica non si pone su di un piano puramente teorico o accademico, presentando, per contro, notevoli risvolti applicativi.

Sommario:
1. Diritto all’oblio, cos’è: significato e origini
2. Diritto all’oblio e diritto alla riservatezza
3. La giurisprudenza recente
4. Diritto all’oblio e GDPR: l’art. 17 del Regolamento UE 2016/679
5. Gli ultimi approdi della CEDU

Diritto all’oblio, cos’è: significato e origini

Il diritto all’oblio è stato definito come l’interesse del soggetto alla non reiterata pubblicazione di notizie che lo riguardino, se non siano contestualizzate e aggiornate, specie se si ponga alla base della divulgazione una speculazione commerciale[1].

Esso si ricollega inevitabilmente al diritto di cronaca concernente il resoconto di fatti storici realmente accaduti avvalendosi dello strumento della stampa o della pubblicazione on line, in virtù dell’interesse che nei confronti di tali accadimenti nutre la collettività, di talché l’esigenza di informazione finisca, se attuale, per essere prefetita in un apposito bilanciamento, valendo, altrimenti, il diritto all’oblio[2].

Il predetto viene definito, altresì, come diritto a essere dimenticati, a che non permanga il ricordo di specifici fatti, con conseguente correlazione ad essi di uno o più determinati nomi e cognomi, affinché la sfera di intimità e di riserbo dell’individuo sia tutelata e protetta da ingerenze altrui.

Non si identifica, dunque, con il concetto di identità personale, avente ad oggetto la “proiezione sociale della personalità dell’individuo” interessato alla non alterazione della propria immagine pubblica, con riferimento a un dato contesto spazio- temporale[3].

E’ stato evidenziato, peraltro, come il fondamento di tale ultimo diritto ben si possa rinvenire all’art. 2 Cost. che viene concepito come clausola generale attraverso la quale garantire la copertura a livello costituzionale di diritti della personalità di nuovo conio, tenuto conto, tuttavia, che questo diritto ben può in concreto porsi in contrasto, così come il diritto all’oblio, all’immagine, alla riservatezza, con i diritti di cronaca, critica e satira, anch’essi tutelati dalla Costituzione, in particolare all’art. 21 della Carta Fondamentale[4].

Come autorevolmente evidenziato, il diritto di cronaca, al fine del suo legittimo esercizio, deve rispettare

  • da un lato, il limite della continenza formale nell’esposizione dei fatti storici che ne costituiscono oggetto,
  • dall’altro, corrispondere a completezza e verità e, dunque, costituire il frutto di un accertamento serio[5].

Diritto all’oblio e diritto alla riservatezza

Ciò posto, l’esposizione perdurante o reiterata di un determinato soggetto al pregiudizio che la pubblicazione di una certa notizia gli crei, ovvero di video o, ancora, pose fotografiche finisce per ledere la sfera privata del predetto, come sottolineato, altresì, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza C- 131/12 del 13.05.2014 che ha sancito il riconoscimento a livello comunitario del diritto all’oblio.

Concettualmente, quest’ultimo non risulta neppure sovrapponibile alla differente nozione di riservatezza, intesa come protezione dell’intimità della propria vita privata e familiare da ingerenze altrui che, progressivamente, nel tempo, ha acquisito un’ampiezza maggiore rispetto al diritto ad essere lasciati soli, sì come originariamente concepito, posto che la tutela del diritto all’oblio viene in luce allorquando una determinata notizia sia già stata diffusa, appunto anche in forma telematica, e divulgata al pubblico divenendo da fatto privato, accadimento di rilevanza pubblicistica, purché esso sia sorretto da un interesse tale che ne giustifichi la diffusione.

La riproposizione di notizie che, anche a causa del trascorrere del fattore tempo, non siano più di attualità e si rivelino comunque pregiudizievoli per il soggetto interessato, è suscettibile di lederne la reputazione, intesa come stima di cui il predetto gode tra i propri consociati e l’onore, qualificabile alla stregua di opinione e percezione che l’individuo nutre di se stesso.

Tale lesione si verifica, propriamente, dal momento che determinate informazioni, a cagione dell’evoluzione tecnologica e del progresso scientifico, risultano di semplice e agevole reperimento per l’utenza, attraverso l’uso dei motori di ricerca più noti, anche semplicemente digitando alcune parole chiave che consentano di ricollegare con immediatezza nomi a fatti, ma anche grazie alla facilità di consultazione degli archivi, per quanto concerne articoli più datati.

La diffusione di determinati dati e informazioni avviene, di conseguenza, ad oggi, molto rapidamente, posto che, ad esempio, una testata giornalistica on line risulta consultabile da un numero potenzialmente indefinito di soggetti destinatari delle relative informazioni.

In particolare, risulta assai frequente che un articolo riferisca della condanna penalmente o civilmente rilevante di un soggetto, dando conto della sussistenza di determinati precedenti giudiziari.

La giustificazione di tale divulgazione si rinviene, in origine, propriamente dall’esigenza a che la collettività sia soddisfatta nell’interesse di carattere pubblico ad essere informata in maniera veridica e completa circa importanti accadimenti, come la commissione di un illecito penale che presuppone la violazione di norme generalmente poste a presidio di interessi pubblicistici.

diritto all'oblio

Diritto all’oblio: la giurisprudenza recente

La Cassazione, di recente, ha avuto modo di precisare l’imprescindibilità di una valutazione bilanciata del diritto all’informazione della collettività che la cronaca giornalistica è diretta a soddisfare con quelli che vengono definiti diritti fondamentali della persona, tra i quali ben può essere annoverata la riservatezza e che la divulgazione di una certa notizia deve rinvenire la propria ratio giustificatrice nell’esigenza conoscitiva dei lettori[6].

E’, dunque, ben possibile che determinate vicende vengano rese pubbliche, senza che sia preteso o ritenuto necessario il consenso dell’interessato, né l’autorizzazione del Garante per la privacy, purché siano sorrette da un interesse pubblico che costituisca il fondamento e la giustificazione della divulgazione, dovendo, peraltro, sussistere una proporzionalità tra la lesione e l’esigenza di tutela della conoscenza in ordine a determinati fatti[7].

Come evidenziato a livello pretorio, è propriamente l’interesse pubblico a poter eventualmente fondare il sacrifico di quello del singolo, venendo, nella materia di che trattasi, così come per quanto concerne il diritto alla riservatezza e all’identità personale, in rilievo il bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, tutti costituzionalmente protetti[8].

Peraltro, l’elemento temporale costituisce il presupposto ai fini della richiesta del riconoscimento della sussistenza del diritto all’oblio, giacché, a seguito del decorrere del tempo, specie se si tratta di un lasso considerevole, l’interesse pubblico alla notizia potrebbe affievolirsi, sino a scomparire del tutto riportando il fatto nella propria originaria dimensione “privata”.

Ciò può ritenersi anche con riguardo a determinati illeciti penali.

In concreto, una forma di tutela attraverso la quale si prevede l’attuazione del diritto all’oblio è costituita dalla deindicizzazione, attraverso la quale non sarà più possibile a mezzo di una ricerca telematica rinvenire determinati link e riferimenti, avendo, peraltro, il Garante per la protezione dei dati personali recentemente parzialmente accolto un ricorso stabilendo la rimozione degli URL già indicizzati fra i risultati di ricerca ottenuti digitando il nome e il cognome del ricorrente sia nelle versioni europee che in quelle extraeuropee[9].

Peraltro, il diritto a essere dimenticati risulta, come a più voci sostenuto, protetto, altresì, dall’art. 27, III comma Cost., che indicando come finalità della pena non solo quella ispirata al principio del suum cuique tribuere, ma anche la rieducazione e il reinserimento sociale del reo, vedrebbe la stessa fatalmente compromessa se continuasse a riemergere il ricordo di determinati fatti.

Un limite al riconoscimento del diritto all’oblio potrebbe rilevarsi nel caso in cui un episodio di cronaca recentemente accaduto si colleghi direttamente a vicende passate per le quali, dunque, in una valutazione complessiva, permanga o, comunque, riemerga l’interesse pubblico attuale ed effettivo alla diffusione di determinate notizie ed esso non possa dirsi, in siffatta ipotesi, affievolito o venuto meno, assistendosi, per contro, ad un rinnovamento dell’attualità dell’informazione[10].

Infatti, qualora l’interesse alla conoscibilità dell’accadimento non fosse più connotato da tale requisito, risulterebbe priva di idonea giustificazione causale la perdurante esposizione del soggetto alla lesione del proprio onore e della propria reputazione, vulnus questo meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato l’ampia diffusione di un giornale on line, grazie alla facile accessibilità e consultabilità di un articolo giornalistico in tale formato, molto più dei quotidiani cartacei, per cui una volta che sia trascorso un periodo di tempo sufficiente perché le notizie costituenti oggetto di divulgazione possano soddisfare gli interessi pubblici  cui il diritto di cronaca è preposto, il trattamento dei dati non potrebbe più avvenire[11], dovendosi ritenere ormai le notizie acquisite.

Diritto all’oblio e GDPR: l’art. 17 del Regolamento UE 2016/679

Peraltro, a livello normativo, attualmente il Regolamento europeo U.E. 2016-679 Generale sulla protezione dei dati – GDPR- dedica un apposito articolo, il 17, al diritto alla cancellazione, al diritto all’oblio, attribuendo al soggetto interessato, alla ricorrenza di determinati presupposti ivi elencati, il diritto alla cancellazione dei dati personali che lo riguardino con conseguente obbligo a carico del titolare del trattamento di cancellazione dei dati in esame, al verificarsi di uno dei motivi legislativamente previsti, tra cui la mancata attuale corrispondenza e necessarietà rispetto alla finalità per cui essi erano stati trattati, la revoca del consenso in  precedenza prestato, l’opposizione al trattamento o la sua illiceità, la necessità di adempiere un obbligo legale, la raccolta avvenuta per offerta di servizi della società dell’informazione.

Come acutamente osservato in dottrina, tuttavia, il diritto all’oblio viene qui inteso in un’accezione del tutto peculiare, non riferendosi in particolare all’operazione di bilanciamento tra diritto alla libertà di stampa e al rispetto della vita privata e familiare rimesso ai giudici di merito, guardando per contro, ad un diverso aspetto, ovverosia al diritto del soggetto ad ottenere la cancellazione dei dati in un contesto, quale quello informatizzato, peraltro in continua evoluzione, in cui risulta estremamente agevole la diffusione di determinate informazioni relative alla persona e/o la possibilità di utilizzo delle stesse per finalità che travalichino il motivo per cui erano state pur lecitamente acquisite.

Gli ultimi approdi della CEDU

Tanto precisato, in merito si evidenzia l’interesse sempre più attuale suscitato dalla materia in esame, tant’è vero che essa è stata di recente presa in considerazione da alcune pronunce della Corte di Strasburgo in relazione alla presunta violazione e, quindi, alla corretta interpretazione di alcune norme della CEDU.

In particolare, con riferimento all’art. 8 CEDU, quest’ultimo tutela il rispetto della vita privata e familiare.

Qualora vengano rese dichiarazioni relativamente a un determinato soggetto riportate in un articolo pubblicato in una testata on line, potrebbe sorgere un dibattito pubblico che soddisfa un interesse ritenuto dalla Corte poziore rispetto a quello alla protezione della vita privata espresso dall’interessato.

Ai giudici di merito, del resto, è rimesso un compito piuttosto delicato consistente nell’effettuazione di un corretto bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione, del pari tutelato dalla CEDU all’art. 10 e, appunto, il diritto al rispetto della vita privata e familiare in un delicato equilibrio tra pretese “concorrenti”[12].

Se è vero, dunque, che non dovranno essere effettuate insinuazioni sulla vita privata di un determinato individuo che non si rivelino strettamente necessarie a soddisfare l’esigenza della collettività all’informazione in ordine a un determinato accadimento, occorre considerare il valore, nonché il diritto a conoscere l’evoluzione di certi fatti che fanno parte della storia attuale, contemporanea e non devono essere rimossi[13].

Ai fini dell’effettuazione di un corretto bilanciamento di interessi, si dovrà comunque tenere conto della situazione concreta, onde evitare inutili astrattismi, del grado di celebrità della persona, del metodo utilizzato, della veridicità della notizia, delle conseguenze che derivino dalla sua diffusione.

In particolare, in presenza di procedimenti e di condanne penali che riguardino fatti rilevanti, di interesse pubblico, come episodi di corruzione di personaggi di un certo rilievo, o ancor, più se si tratti di avvenimenti particolarmente gravi ed efferati, si può ritenere che l’interesse pubblico alla notizia non possa mai affievolirsi e che, al contrario, ne residui l’indubbia attualità unitamente al diritto dei singoli ad informarsi ed effettuare una adeguata e completa ricostruzione dal punto di vista storico.

In tali situazioni, infatti, il diritto all’oblio non potrà essere riconosciuto, nella necessità comunque di valutare la situazione concreta, tenuto conto anche del comportamento pregresso eventualmente tenuto dai ricorrenti, tale per cui, qualora i predetti abbiano ritenuto di trasmettere alla stampa determinata documentazione e di rendere pubbliche certe notizie, allora tale condotta ben potrà essere valutata come incompatibile rispetto all’intenzione di chiedere giudizialmente di “essere dimenticati”[14].


[1] Cfr. Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVII edizione aggiornata e con riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2015, p. 187.

[2] Cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, IX edizione 2017-2018, Nel diritto editore, Molfetta, 2017, p. 194.

[3] Ibidem, p. 193.

[4] Ibidem, p. 194.

[5] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 187.

[6] Cfr. Corte di Cassazione, sez. I civile, sent. n. 13161 del 24.06.2016.

[7] Cfr. Corte di Cassazione Civile, sent. n. 16111 del 26.06.2013.

[8] Cfr. Corte di Cassazione Civile, sent. n. 5525/2012.

[9] Cfr. provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali, del 21.12.2017.

[10] Cfr. Corte di Cassazione Civile, sent. n. 16111del 26.06.2013.

[11] Cfr. Corte di Cassazione Civile, sent. n. 13161 del 24.06.2016.

[12] Cfr. Corte EDU sez. V, sent. n. 71233-13, 19.10.2017.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. Corte EDU SENT. N. 60798-65599/10 DEL 28.06.2018- M.L. WW. c. GermaniaDid.

DiElena Munarini

( Articolo scrittom da Elena Munarini)

Leggi l’articolo completo: https://giuricivile.it/diritto-all-oblio/

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Rifiuto di fornire generalità ex art 126 bis CdS: le precisazioni della Cassazione Leggi l’articolo completo: https://giuricivile.it/rifiuto-di-fornire-generalita-ex-art-126-bis-cds-le-precisazioni-della-cassazione/

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art 126 bis Cds, omessa comunicazione dei dati del conducente responsabile della violazione

Con sentenza depositata in cancelleria in data 18 aprile 2018, la Cassazione si è pronunciata sul disposto dell’art. 126 bis C.d.S. relativo alle comunicazioni che devono essere effettuate a carico del conducente responsabile di una violazione e, in caso di mancata identificazione di quest’ultimo, da parte del proprietario del veicolo.

A chi spetta la sanzione? Solo a chi si disinteressa della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente o anche a chi abbia fornito una dichiarazione negativa? Il dubbio è stato definitivamente chiarito dalla sentenza in esame.

Sommario:
1. Il caso in esame
2. Decisione e motivazione della Suprema Corte
3. Il principio di diritto

Il caso in esame

Nel caso di specie era stato impugnato un verbale della Polizia Municipale dinnanzi al GDP di Bari. Con tale verbale, la Polizia Municipale di Bari aveva accertato la violazione dell’art. 126 bis C.d.S. da parte di una signora proprietaria di un veicolo, sanzionata per non aver tempestivamente comunicato all’Autorità le generalità della persona alla guida dell’auto di sua proprietà il giorno della commissione di un’infrazione stradale.

La signora, impugnando il verbale, affermava di non essere stata in grado di indicare le generalità di chi era alla guida della sua auto, dal momento che era trascorso diverso tempo dal giorno dell’infrazione, e dal momento che la medesima automobile veniva guidata sia dalle sue figlie che dal marito. Pertanto, la ricorrente dichiarava di non essere in grado di fornire esattamente i dati di chi fosse effettivamente alla guida il giorno dell’infrazione.

Si era costituito in giudizio il Comune di Bari, chiedendo il rigetto del ricorso, ed asserendo che il proprietario del veicolo è sempre tenuto a conoscere le generalità della persona cui è affidato il mezzo.

In caso contrario, costui dovrebbe rispondere a titolo di colpa per inosservanza del dovere di vigilanza sul proprio mezzo. All’esito del giudizio di primo grado, il Giudice di Pace accoglieva il ricorso della signora, e condannava il Comune a sostenere le spese della causa[1]. La parte soccombente proponeva, quindi, appello presso il Tribunale di Bari, ottenendo, però, il medesimo verdetto ricevuto in primo grado[2].

Il Comune di Bari ha proposto ricorso in Cassazione, basando la propria pretesa su un unico motivo, ossia la violazione dell’art. 126 bis, II comma, C.d.S. e dell’art. 180 C.d.S., VIII comma, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. A detta del ricorrente la corretta interpretazione delle norme anzidette è da intendersi nell’obbligo assoluto di conoscere l’identità dei soggetti cui è affidato il mezzo, e pertanto, a richiesta della Polizia, si è obbligati a fornire risposta. Non appare una giustificazione, a detta del Comune, l’evenienza che il veicolo in questione venga generalmente affidato a diverse persone.

Decisione e motivazione della Suprema Corte

La Suprema Corte, dopo aver passato in rassegna diverse pronunce della Cassazione stessa sul tema, afferma, però, che al fulcro della decisione vi sia la sentenza interpretativa n. 165 del 2008 della Corte Costituzionale, evidenziandone la grande portata.

In tale occasione, infatti, era stato affermato che deve essere riconosciuta al proprietario del veicolo la facoltà di esonerarsi da responsabilità, dimostrando impossibilità di rendere una dichiarazione diversa dall’affermazione di non conoscere i dati personali e della patente del conducente che ha commesso l’infrazione, affermando che tale conclusione discende dalla necessità di offrire un’interpretazione coerente con gli indirizzi ermeneutici formatisi in merito alla norma richiamata, e secondo i quali essa sanzionerebbe il rifiuto della condotta collaborativa, che sarebbe invece necessaria ai fini dell’accertamento delle infrazioni stradali[3]. È opportuno prevedere, a detta della Corte Costituzionale, che vi possano essere delle esimenti o cause di giustificazione accertate esistenti e fondate.

Alla luce di tale importante pronuncia, la Cassazione conclude affermando che se resta sanzionabile la condotta di chi non ottemperi alla richiesta di comunicazione dei dati personali e della patente di guida, d’altra parte, qualora la risposta sia stata fornita, anche se in termini negativi, è opportuno devolvere la valutazione della verifica relativa all’idoneità delle giustificazioni fornite dall’interessato al giudice di merito, in modo da verificare se sia opportuno o meno escludere la presunzione di responsabilità che la norma pone a carico del dichiarante.

Il Tribunale di Bari, nel caso in esame, aveva deciso per la non responsabilità della proprietaria dell’auto, ponendo a fondamento di tale decisione il fattore del decorso del tempo tra la data dell’infrazione e la data in cui sono state richieste le informazioni in merito al conducente (circa 3 mesi), e valutando come giustificata la mancata risposta da parte della ricorrente, accettando così la giustificazione fornita dalla proprietaria, ossia che l’autovettura proprietà fosse nella disponibilità anche delle due figlie e del marito, fatto che non le avrebbe permesso di riferire a richiesta i dati esatti del conducente.

Principio di diritto

Alla luce di quanto affermato, la Cassazione ha deciso, in definitiva, per il rigetto del ricorso proposto dal comune di Bari, enunciando il seguente principio di diritto:

“ai fini dell’applicazione dell’art. 126 bis C.d.S., occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così in alcun modo all’invito rivoltogli e la condanna di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante deve essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle caratteristiche delle singole fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio, con apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità”.

Unitamente al rigetto del ricorso, la Cassazione condannava il Comune di Bari al rimborso delle spese di lite.

Precedenti giurisprudenziali

L’applicazione dell’art 126 bis C.d.S. è stata più volte presa in considerazione dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione; assai di recente, con la sentenza n. 29593 del 11.12.2017, la sez. VI della suprema Corte aveva affermato che, in tema di violazioni alle norme del Codice della strada, il proprietario di un veicolo, essendo il responsabile della circolazione del proprio mezzo, è tenuto a conoscere sempre l’identità dei soggetti ai quali affida la conduzione della vettura, ed è parimenti obbligato a fornire tutte le informazioni dovute in merito al conducente qualora venga lecitamente richiesto dall’autorità amministrativa al fine di contestare un’infrazione; in tale occasione la Corte aveva anche ribadito che l’inosservanza del dovere di collaborazione fosse da sanzionarsi in base al combinato disposto dagli articoli 126 bis e 180 C.d.S..

In tempi più risalenti, con la pronuncia n. 12842/2009, la medesima Corte si era pronunciata sempre con lo stesso principio di diritto, affermando che il proprietario di un veicolo, in quanto responsabile della circolazione dello stesso nei confronti della P.A. o dei terzi, è tenuto sempre a conoscere l’identità dei soggetti ai quali affida la conduzione e, di conseguenza, a comunicare tale identità all’autorità amministrativa che gliene faccia legittima richiesta, al fine di contestare un’infrazione amministrativa.

Questo era, ed è tutt’ora, l’orientamento prevalente della Suprema Corte, la quale a più riprese ha specificato che l’inosservanza del dovere di fornire le informazioni del conducente da parte del proprietario del veicolo è sanzionabile in base al combinato disposto degli art. 126 bis e 180 C.d.s.[4].

Il contributo fornito con la pronuncia n. 9555 qui in esame, non ha portato ad un distaccamento dal precedente orientamento, poiché la Corte non si è assolutamente spinta a mettere in discussione la sanzionabilità della condotta del proprietario che omette di rispondere alle domande della P.A., bensì ha più semplicemente specificato l’opportunità di distinguere tra una condotta di totale e categorico rifiuto a ottemperare alle richieste dell’Autorità, da quella che invece può essere una condotta pur sempre non satisfattiva delle richieste, ma comunque non di ostruzionismo.

Nel caso di specie, ad esempio, la proprietaria dell’automobile da un lato non aveva risposto affermativamente alla richiesta dell’Autorità di fornire i dati completi della persona che era alla guida dell’automobile al momento dell’infrazione – avvenuta mesi prima – d’altra parte non aveva ottemperato alla richiesta dichiarando di non essere in grado di fornire quei dati. È stato, il suo, un comportamento giudicato dal Giudice supremo come non rientrante nelle ipotesi di sanzionabilità dell’art. 126 bis C.d.S., alla luce di quelle cause di giustificazione ritenute ammissibili dalla Corte Costituzionale con la sentenza sopracitata.


[1] Sentenza n. 7244 del 2008.

[2] Sentenza Tribunale di Bari n. 4848 del 4 novembre 2014.

[3] La Corte Costituzionale aveva già in precedenza affermato, con ordinanza n. 434 del 2007 la necessità di precisare che: “la scelta in favore di un’opzione ermeneutica, che pervenisse alla conclusione di equiparare ogni ipotesi di omessa comunicazione dei dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione, presenterebbe una dubbia compatibilità con l’art. 24 Cost.”

[4] Principio già da tempo applicato alla luce di quanto espressamente affermato dalla Corte Cost. nella sentenza n. 27 del 2005, senza che il proprietario possa sottrarsi legittimamente a tale obbligo in base al semplice rilievo di essere proprietario di numerosi automezzi o di avere un elevato numero di dipendenti che ne fanno uso.

(Articolo di Elisa Gabaccia)

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