Avvocati: la guida del CNF per scaricare i certificati ANPR

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Una guida operativa che accompagna ogni passaggio necessario nell’uso della nuova procedura online attiva dall’11 dicembre 2023

di Marina Crisafi

FONTE: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/avvocati-guida-cnf-scaricare-certificati-anpr-AFUgt7vB

Dall’11 dicembre 2023 alle ore 13:00 sarà operativo il servizio che consente agli avvocati di scaricare direttamente i certificati anagrafici dei cittadini iscritti all’ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente). 
Una possibilità concessa, si ricorda, dal decreto del ministero dell’Interno del 6 ottobre scorso (pubblicato in GU il 24 novembre 2023) dopo le numerose sollecitazioni da parte dell’avvocatura compatta che da mesi lamentava l’impossibilità, per gli avvocati, di accedere all’ANPR per ottenere i certificati relativi a soggetti terzi. 

Certificati ANPR Avvocati 
Il decreto consente ai legali iscritti all’albo di accedere, mediante autenticazione forte (CNS, SPID e CIE) per scaricare i certificati anagrafici dei cittadini iscritti nell’ANPR per le finalità connesse all’esecuzione del mandato professionale. 
I certificati sono esenti da bollo, sono validi tre mesi dalla data del rilascio e potranno essere scaricati fino a 30 al giorno in modalità telematica. 

La guida del CNF 
La guida del Consiglio Nazionale Forense, nata al fine di garantire agli avvocati l’assistenza tecnica nell’uso della nuova procedura, è consultabile sul sito istituzionale del CNF e sarà disponibile anche sul portale ANPR. 
Si tratta di una guida operativa che segue passo passo l’avvocato nell’utilizzo della procedura, a partire dal collegamento al portale ANPR, nella sezione “Area tecnica”, “Certificati per avvocati”. 
Da qui, dopo aver preso visione dei possibili controlli a campione cui potrebbe essere sottoposto e selezionato il soggetto intestatario del certificato (tramite i dati anagrafici e/o il codice fiscale, soprattutto nei casi di omocodia), il legale entra nel vivo della procedura che necessita di una serie di passaggi per ottenere il certificato desiderato. 

La procedura 
Passaggi interamente guidati, dal tasto “richiedi certificato” a “seleziona il certificato da richiedere” (anagrafico di nascita, di matrimonio, di cittadinanza, di stato civile, ecc.), sino a “seleziona la data del mandato” (ovvero del mandato professionale ricevuto alla quale è riferita la richiesta del certificato stesso), e “seleziona la finalità d’uso legale” (notifica, stragiudiziale o in giudizio), per giungere infine a “conferma l’uso del certificato” e “seleziona la seconda lingua” in cui il documento potrà essere emesso oltre a quella italiana. 
A questo punto, l’avvocato dovrà selezionare come ricevere il certificato, scegliendo se riceverlo via mail, sul proprio domicilio digitale, o in entrambe le modalità. Quindi, dovrà selezionare “ottieni certificato” e il sistema ANPR produrrà il documento in formato pdf non modificabile. 
Il certificato riporta, oltre ai loghi del ministero dell’Interno e dell’ANPR, anche un QRCode che ne garantisce l’autenticità e il sigillo elettronico qualificato del Viminale che ne garantisce l’integrità ed il non ripudio e, infine, la dicitura: “Il presente certificato è rilasciato all’avvocato che ne ha fatto richiesta per finalità connesse all’esecuzione del mandato professionale”. 

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Autotutela peggiorativa per il contribuente: decidono le Sezioni unite

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Grande attesa per le ricadute non solo pratiche del responso

di Dario Deotto e Luigi Lovecchio

FONTE: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/autotutela-peggiorativa-il-contribuente-decidono-sezioni-unite-AFCUh2uB

Rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa all’ammissibilità dell’esercizio del potere di autotutela in peius per il contribuente, per vizi di carattere sostanziale. Con l’ordinanza n. 33665, depositata ieri, la Cassazione solleva un problema di rilevante interesse sia pratico che teorico.

Il caso all’esame del giudice di legittimità riguarda un accertamento da indagini finanziarie, emesso in un primo momento senza tenere conto di una delle movimentazioni bancarie verificate. Successivamente, l’Ufficio ci ha ripensato e ha prima annullato l’atto di accertamento per riemetterlo subito dopo con un maggior imponibile, rispetto all’atto originario, corrispondente alla medesima movimentazione bancaria.

Il contribuente impugnava il secondo atto di accertamento, eccependo l’illegittimità dello stesso, in quanto avente natura di accertamento integrativo non fondato sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. In proposito, si ricorda che, ai sensi dell’articolo 43 del Dpr 600/1973, l’Ufficio può integrare un atto di rettifica che non sia qualificabile come accertamento parziale, entro gli ordinari termini decadenziali, a condizione che dimostri la sopravvenuta conoscenza di dati o notizie. La vicenda è giunta all’esame della Suprema Corte che ha ravvisato, in proposito, due opposti orientamenti dei giudici di vertice. Secondo il primo di essi, in virtù del «principio di perennità», l’Amministrazione finanziaria può sempre annullare un proprio atto viziato, anche dal lato della fondatezza della pretesa avanzata, per sostituirlo con altro provvedimento peggiorativo per il contribuente. Ciò, in ragione del criterio secondo cui l’autotutela avrebbe la funzione di perseguire l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi ed avrebbe pertanto come unici limiti i termini decadenziali dell’azione di controllo e il rispetto del giudicato.

Secondo un’altra prospettazione, invece, l’autotutela sarebbe funzionale essenzialmente a garantire l’interesse del contribuente e potrebbe essere pertanto esercitata solo nel senso della adozione di un provvedimento di favore per il contribuente, e non a suo danno. In questo senso, si richiama il principio di unicità dell’azione accertativa, e, con esso, il divieto dell’accertamento integrativo. In proposito, si segnala peraltro che il criterio della unitarietà dell’accertamento è sancito nello schema di decreto legislativo di revisione dello Statuto dei diritti dei contribuenti, trasmesso all’esame delle Camere in attuazione della delega di riforma del sistema fiscale (legge 111/2023).

Il responso delle Sezioni Unite dunque avrà una importante ricaduta sotto il profilo sistematico e applicativo.

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La cancellazione dell’impresa blocca piano del consumatore e concordato

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La Cassazione ribadisce l’esclusione per l’imprenditore eliminato dal Registro. Il Codice della crisi non ha introdotto modifiche normative sostanziali

Articolo di Roberto Marinoni

FONTE: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/la-cancellazione-dell-impresa-blocca-piano-consumatore-e-concordato-AF6jISz

L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese, ove le obbligazioni da ristrutturare abbiano natura mista (sia civile che commerciale), non può avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, né accedere al concordato minore, al concordato preventivo o a quello di omologazione degli accordi di ristrutturazione. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13299 del 26 luglio scorso con la quale la Corte (adita con il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale introdotto dall’articolo 363 – bis della legge 149/2022) è tornata sul tema della ammissibilità, e delle condizioni di ammissibilità, di una proposta di ristrutturazione dei debiti del consumatore e, in subordine, di una domanda di concordato minore (articolo 74 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) .

Il caso

Il rinvio pregiudiziale nasceva dal reclamo di cui la Corte d’Appello di Firenze era stata investita in base agli articoli 50 e 70 del Codice della crisi contro il decreto di inammissibilità emesso dal Tribunale di Firenze e verteva su tre questioni:

la prima, di diritto processuale, relativa alla competenza per il reclamo, in particolare se lo sia il Tribunale in veste collegiale o la Corte di Appello;

la seconda, di diritto sostanziale, per chiarire se la qualificazione giuridica di consumatore ricomprenda anche l’imprenditore individuale cessato che formuli una proposta riferita a debiti misti, civili e commerciali;

la terza, sempre di diritto sostanziale, per determinare se la qualificazione di imprenditore, ai fini dell’accesso all’istituto del concordato minore, si attagli anche all’ex imprenditore una volta cessata l’impresa e cancellato dal Registro Imprese.

I giudici di legittimità negano però l’ammissibilità del rinvio: le questioni sostanziali per mancanza di novità poiché la Corte si era già espressa sul tema con pronunce ancora valide in quanto l’entrata in vigore del Codice della crisi non ha introdotto modifiche normative sostanziali. La questione processuale mancava invece di necessità poiché era funzionale ai questiti relativi alle questioni sostanziali.

Accesso al piano del consumatore

Pur affermando l’inammissibilità delle questioni sostanziali sollevate dalla Corte d’appello di Firenze per difetto della condizione di novità, la Cassazione entra comunque nel merito.

Sulla possibilità per l’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese di avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, la Cassazione conferma la risposta negativa, richiamando la propria decisione 1869/2016.

Tale decisione, si legge nell’ordinanza del 26 luglio, «rimane ancora attuale» perché la definizione di “consumatore”, fornita oggi dal Codice della crisi (articolo 2, comma 1, lettera e), è solo «minimamente cambiata» rispetto a quella data dalla legge 3/2012 (articolo 6, comma 2, lettera b). Quindi, come già affermato nel 2016, l’imprenditore ed il professionista possono rientrare nella nozione di consumatore solo se i debiti oggetto del piano siano estranei alle obbligazioni commerciali; vale a dire nel senso che le obbligazioni devono essere state contratte per per far fronte ad esigenze personali, familiari e non ad attività d’impresa o professionale. La qualifica di consumatore o professionista si basa quindi sulla natura delle obbligazioni che devono essere ristrutturate: va perciò verificato se, al momento in cui sono state assunte, il debitore ha agito come consumatore o come professionista.

Accesso al concordato

La seconda questione riguardava invece la possibilità che l’ex imprenditore la cui impresa era cessata e cancellata dal Registro Imprese, potesse accedere al concordato minore.

Secondo la Cassazione, anche in questo caso la norma del Codice della crisi non è innovativa ma è in continuità con la giurisprudenza precedente. L’articolo 33, comma 4 del Codice della crisi prevede l’inammissibilità delle domande di accesso non solo al concordato minore, ma anche al concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione presentati dall’imprenditore cancellato dal Registro imprese.

La questione era infatti stata affrontata dalla sentenza 4329/2020 secondo la quale il combinato disposto degli articoli 2495 del Codice civile e 10 della legge fallimentare impediva di richiedere il concordato preventivo al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cui viene chiesto il fallimento entro l’anno dalla cancellazione: e ciò per la evidente ragione che l’obiettivo del concordato è risolvere la crisi di impresa, mentre la cessazione dell’attività imprenditoriale fa venir meno il bene che dovrebbe essere risanato.

D’altro canto, sottolinea la Cassazione, l’impossibilità di ricorrere al concordato non preclude l’esdebitazione, «che anzi con il nuovo Codice diviene un vero e proprio diritto (articolo 282 del Codice della crisi), con il decorso di un triennio dall’apertura della liquidazione controllata, senza neppure dover attendere la chiusura della procedura liquidatoria

La massima
L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal registro delle imprese non può accedere al concordato minore, preventivo, né al piano di ristrutturazione, per inesistenza del bene (impresa) al cui risanamento si vorrebbe mirare
Corte di Cassazione, ordinanza n. 22699 del 26 luglio 2023

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La transazione fiscale entra nella composizione negoziata

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di Giulio Andreani

Fonte: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/la-transazione-fiscale-entra-composizione-negoziata-AFnIGEq

18 Settembre 2023

L’articolo 9, comma 1, della legge delega per la revisione del sistema tributario prevede significativi interventi nel campo della fiscalità della crisi d’impresa.

In attuazione del principio direttivo sancito alla lettera a), n. 5, di tale norma, la transazione fiscale – attualmente prevista dagli articoli 63 e 88 del Codice della crisi solo nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo – è destinata a essere estesa ad altri istituti nell’ambito dei quali non è al momento applicabile (seppur in alcuni casi con qualche incertezza):
● composizione negoziata;
● concordato minore;
● piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (Pro);
● concordato proposto nella liquidazione giudiziale, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Nella situazione attuale, la variabile fiscale influenza la scelta dello strumento utilizzabile ai fini del superamento delle situazioni di crisi, generando distorsioni e condizionamenti: da qui l’esigenza di una omogeneizzazione del trattamento dei debiti tributari nell’ambito di tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi in cui la transazione, tenuto conto della sua natura, possa trovare applicazione.

L’estensione

La possibilità di un accordo fra il debitore e il Fisco – avente a oggetto il pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari – dovrebbe essere estesa innanzitutto alla composizione negoziata della crisi, stabilendo che il pagamento offerto non possa essere comunque deteriore per i rispettivi creditori rispetto alla liquidazione giudiziale e che le agenzie fiscali possano verificare il vantaggio dell’accordo in base al giudizio espresso da un professionista indipendente.

La proposta del debitore potrebbe quindi produrre effetto:

● a condizione che venga sottoscritto il contratto (anche con un solo creditore) previsto dall’articolo 23, comma 1, lettera a), del Codice della crisi, e che esso sia idoneo ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni, ovvero l’accordo di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo, che deve apparire coerente con la regolazione della crisi o dell’insolvenza, dovendo ciò risultare in entrambi i casi da una relazione dell’esperto nominato nell’ambito della composizione negoziata;

● a condizione che l’esperto attesti che le trattative si sono svolte secondo buona fede e correttezza e che un professionista indipendente attesti il carattere non deteriore della proposta per i creditori rispetto alla liquidazione giudiziale;

● nei termini e nei limiti risultanti dall’accordo sottoscritto dall’imprenditore e dai titolari dei suddetti crediti, raccolto in un processo verbale sottoscritto anche dal giudice e dal cancelliere, dopo che il giudice, sentito l’esperto e assunti i necessari mezzi istruttori, abbia accertato che il trattamento dei crediti proposto non è deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale e abbia verificato l’assenza di pregiudizio per i creditori.

Pare da escludere la possibilità di cram down fiscale, poiché la composizione negoziata non prevede un procedimento di omologazione dell’accordo raggiunto, pur venendo richiesto, ai fini dell’efficacia dell’accordo, che quest’ultimo sia sottoscritto anche dal giudice, a seguito di adeguate verifiche sulla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e sull’assenza di pregiudizio per i creditori.

Peraltro, la omologazione forzosa può già oggi trovare applicazione anche a seguito della composizione negoziata, ogni qualvolta questa sfoci in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in concordato preventivo, all’interno del quale il cram down fiscale è previsto, seppur con alcune limitazioni.

Le esclusioni

Non pare invece necessaria l’estensione della transazione fiscale al concordato semplificato e alla ristrutturazione dei debiti del consumatore, data la diversa struttura di tali istituti, che non prevedono un accordo con i creditori né l’espressione di un voto da parte di questi ultimi, ma solo la loro possibilità di opporsi alla omologazione o di formulare osservazioni al tribunale ai fini dell’omologa.

L’estensione va infine esclusa anche per il piano attestato (articolo 56 del Codice), che non prevede l’intervento dell’autorità giudiziaria, ritenuto necessario per la transazione fiscale.

In sintesi

1. Il principio 
L’articolo 9, comma 1, lettera a), n. 5, della legge 9 agosto 2023, n. 111, avente a oggetto la revisione del sistema tributario, stabilisce il principio direttivo in base al quale deve essere prevista la possibilità di raggiungere un accordo sul pagamento parziale o dilazionato dei tributi, anche locali, nell’ambito della composizione negoziata, prevedendo l’intervento del tribunale, e l’introduzione di un’analoga disciplina per l’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. 
2. Il campo di applicazione
 
Attualmente, la transazione fiscale è attuabile solo nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo ed è esclusa nella composizione negoziata della crisi, negli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, nel concordato minore, nel concordato attuato nella liquidazione giudiziale, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

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Mediazione, scattano gli obblighi di trasparenza per gli organismi Adr

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di Marco Marinaro

Fonte: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/mediazione-scattano-obblighi-trasparenza-gli-organismi-adr-AFywWRTB

01 Novembre 2023

Decreto in Gazzetta. In vigore dal 15 novembre le novità della riforma Cartabia

Con il decreto n. 150 del 24 ottobre 2023 del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro delle Imprese e del made in Italy (pubblicato il 31 ottobre sulla Gazzetta Ufficiale), si chiude il percorso della riforma Cartabia con riguardo alla mediazione civile e commerciale.

Alla riforma della disciplina primaria (decreto legislativo n. 28 del 2010, come novellato dal decreto legislativo n. 149 del 2022) entrata in vigore in due fasi (il 28 febbraio e il 30 giugno 2023) avevano fatto seguito i due decreti ministeriali del 1° agosto relativi alla regolamentazione degli incentivi fiscali e al patrocinio a spese dello Stato e si era in attesa del terzo, ultimo, e più rilevante decreto per il completamento del nuovo quadro di riferimento normativo voluto dalla legge delega (n. 206 del 2021).

E così dal 15 novembre prossimo (decorso l’ordinario periodo di vacatio legis) entrerà in vigore il nuovo decreto che sostituisce mediante abrogazione la precedente regolamentazione contenuta nel decreto ministeriale n. 180 del 2010. Per cui a distanza di tredici anni la disciplina secondaria per la mediazione civile e commerciale trova una nuova e più ampia disciplina (49 articoli, in sostituzione degli originali 21 articoli) con l’obiettivo di rafforzare il sistema degli organismi e di rendere effettiva la mediazione.

Il decreto ministeriale attua quindi la disciplina primaria come innovata dalla riforma Cartabia determinando i criteri e le modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco degli enti di formazione, nonché fissando le indennità spettanti agli organismi, istituendo altresì l’elenco degli organismi Adr deputati a gestire le controversie nazionali e transfrontaliere in materia di consumo (questi ultimi in attuazione di quando previsto dal Codice del consumo come novellato in sede di recepimento della direttiva 11/2013).

Per quanto attiene agli organismi di mediazione vengono disciplinati i requisiti di onorabilità, serietà, efficienza, con una particolare attenzione – per la prima volta – agli obblighi di trasparenza. Per questi ultimi si richiede la pubblicazione sul sito web di una serie di dati e di notizie, tra i quali si segnalano – ad esempio – anche le informazioni necessarie per la presentazione dei reclami. Analoga regolamentazione viene dettata anche per gli organismi Adr, cioè per quegli organismi che si iscriveranno nella nuova sezione speciale ad essi destinata nel registro ministeriale per le procedure di mediazione volontarie da svolgersi secondo la disciplina del Codice del consumo.

Si incide poi significativamente anche sui percorsi formativi di base del mediatore in quanto il corso di formazione dovrà avere una durata non inferiore a ottanta ore (rispetto alle cinquanta ore in precedenza previste), oltre allo svolgimento di un tirocinio. Inoltre, per coloro che non sono in possesso della laurea in giurisprudenza viene introdotto un corso di approfondimento giuridico, di durata non inferiore a quattordici ore.

Tra le numerose novità del nuovo testo si segnala poi l’aggiornamento della tabella che indica i costi della mediazione e, in particolare, la fissazione del costo del primo incontro nei casi in cui sia obbligatorio e si concluda con un mancato accordo, non senza precisare che viene introdotta una disponibilità temporale minima da parte dall’organismo per lo svolgimento del primo incontro (non inferiore a due ore) e la necessità di indicare le condizioni per la sua eventuale estensione nell’ambito della medesima giornata.

Per l’avvio della nuova regolamentazione viene prevista infine una disciplina transitoria destinata agli organismi di mediazione e agli enti di formazione che, iscritti nel registro alla data del 15 novembre, hanno presentato istanza di permanenza entro il 30 aprile. Il termine fissato per l’adeguamento ai nuovi requisiti è fissato per il 15 agosto 2024.

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Fallimento, la prescrizione presuntiva va rigettata se chi la oppone ammette che l’obbligazione non si è estinta

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di Mario Finocchiaro

Fonte: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/fallimento-prescrizione-presuntiva-va-rigettata-se-chi-oppone-ammette-che-l-obbligazione-non-si-e-estinta-AFaluYSB

31 Ottobre 2023

Contenuto esclusivo Norme & Tributi Plus

La prescrizione presuntiva trova fondamento nella supposizione, avente fonte legale, che determinati crediti, per il tipo di contratti da cui sono sorti, vengano estinti sollecitamente, in un lasso di tempo ristretto, con l’effetto che, trascorso un certo periodo da quando sono sorti senza che il creditore abbia fatto valere la sua pretesa, si presumono estinti. La prescrizione presuntiva non opera, quindi, sul piano del diritto sostanziale, come la prescrizione estintiva, che, laddove venga sollevata, è causa di estinzione del diritto, ma si dispiega interamente sul terreno della prova nel processo, ponendo a favore del debitore la presunzione legale che, una volta trascorso il periodo di tempo previsto dalla legge, l’obbligazione si sia estinta. Si tratta, peraltro, di una presunzione legale semplice, che il creditore può superare deferendo il giuramento decisorio per accertare se si è verificata l’estinzione del debito (art. 2960 Cc). Proprio perché la prescrizione presuntiva opera sul piano della prova e non su quello sostanziale, il fatto (incerto) che la stessa presume, e cioè il pagamento del debito, (anche se ad eccepirla è il curatore del fallimento del debitore) dev’essere escluso tutte le volte in cui il debitore sollevi nel processo eccezioni e difese che, essendo incompatibili con esso, lo smentiscano. L’art. 2959 Cc stabilisce, in effetti, che l’eccezione di prescrizione presuntiva va rigettata in tutti i casi in cui chi la oppone ammette che l’obbligazione non si è estinta ovvero (come, appunto, nel caso del curatore del fallimento) dichiari di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno. Questo il principio espresso dalla Sezione I della Cassazione con l’ordinanza 11 luglio 2023 n. 19649.

I precedenti
Analogamente, la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno costituisce mancato giuramento, dovendo egli subire le conseguenze dell’affermazione dell’estinzione del debito implicita nella sollevata eccezione di prescrizione presuntiva, Cassazione, sentenza 27 giugno 2022, n. 20602, in Fallimento, 2022, p. 1041, ricordata in motivazione, nella pronunzia in rassegna.
Nel senso, peraltro, che nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all’obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio, Cassazione, sentenze 3 agosto 2017, n. 19418, in Fallimento, 2018, p. 170, con nota di Rolfi F., Curatore e giuramento decisorio: una decisione che è un’occasione perduta, e 24 luglio 2015, n. 15570 e 14 febbraio 2011, n. 3573 (secondo cui il giuramento decisorio non è deferibile, invece, né al fallito, che perde la capacità processuale, né al curatore fallimentare, terzo rispetto ai rapporti fra il fallito ed il creditore).
Nello stesso ordine di idee, le deduzioni del curatore fallimentare in un giudizio civile sono prive di qualsiasi valore confessorio, stante la sua qualità di terzo rispetto all’imprenditore fallito, Cassazione, sentenza 11 novembre 2013, n. 25286, nonché Cassazione, ordinanza 14 marzo 2022, n. 8130 e sentenza 29 agosto 2011, n. 17717, secondo le quali il commissario giudiziale della procedura di concordato preventivo non ha la capacità di disporre dei diritti dell’impresa, sicché, ai sensi dell’art. 2731 Cc, alle dichiarazioni da lui rese in sede giudiziale non può attribuirsi il valore di ammissione di fatti di natura confessoria.

Il merito in contrasto
In termini opposti, in sede di merito:
– nel senso che se si ritiene che il curatore possa sollevare l’eccezione di prescrizione presuntiva, allora deve conseguentemente ritenersi che al curatore possa anche essere deferito il giuramento decisorio, sia pure con una formulazione adattata al ruolo ricoperto e suscettibile di poter essere oggetto di dichiarazione, e ciò in quanto, diversamente argomentando, l’eccezione presuntiva si trasformerebbe in ciò che per legge non è, ossia un mezzo di prova insuscettibile di prova contraria, Tribunale di Roma, sentenza 8 marzo 2022, in Fallimento, 2022, p 1043;
– per la precisazione che in caso di eccezione, da parte del curatore, della prescrizione presuntiva, a seguito dell’insinuazione al passivo di crediti professionali, è da ritenersi ammissibile la possibilità, per il creditore, che si veda opposta la prescrizione, di deferire al curatore fallimentare il giuramento de scientia in ordine all’estinzione del debito, in ragione della portata generale dell’art. 2939 Cc, a mente del quale qualunque terzo interessato resterebbe legittimato a ricevere la delazione del giuramento; la mancata conoscenza da parte del soggetto delato (curatore fallimentare) delle circostanze oggetto del giuramento decisorio de scientia riveste valore equipollente alla mancata prestazione del giuramento, Tribunale di Milano, sentenza 16 febbraio 2017, in Fallimento, 2018, p. 222, con nota di Conte, Prescrizioni presuntive e giuramento decisorio de scientia del curatore fallimentare;
– per il rilievo che qualora l’eccezione di prescrizione presuntiva venga sollevata dalla curatela fallimentare, è ammissibile il giuramento de scientia deferito al curatore che abbia eccepito la prescrizione presuntiva, Tribunale di Agrigento, sentenza 14 giugno 2004, in Giurisprudenza italiana, 2004, I, p. 1426.

La disciplina previgente
Con riguardo alla disciplina previgente, nel senso che in tema di insinuazione tardiva di crediti, nell’applicabilità ratione temporis del regime anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006, qualora a fronte di una domanda di ammissione ex art. 101 legge fallimentare la curatela fallimentare non abbia sollevato in via immediata opposizione, rimane preclusa la proponibilità, da parte di essa, in successiva udienza, dell’eccezione di prescrizione presuntiva, invero incompatibile ex art. 2959 Cc con l’atteggiamento prima assunto dall’organo concorsuale, Cassazione, sentenza 11 giugno 2018, n. 15072.

Prescrizione presuntiva e procedure fallimentari
Sempre in tema di prescrizione presuntiva e dei suoi rapporti con le procedure fallimentari, si è precisato, altresì, tra l’altro:
– l’eccezione di prescrizione presuntiva implica il riconoscimento dell’esistenza del credito nella misura richiesta dal creditore e, pertanto, non può essere opposta dal debitore il quale dichiari di avere estinto l’obbligazione per una somma inferiore a quella domandata, Cassazione, sentenze 28 novembre 2001, n. 15132; 1° febbraio 1995, n. 1160 e 15 marzo 1982, n. 2309;
– le prescrizioni presuntive di cui agli articoli 2954 e seg. Cc sono fenomeni di natura probatoria, sostanziandosi in presunzioni di «avvenuto pagamento»; non dà perciò luogo a prescrizione presuntiva la fattispecie in cui una frazione del tempo stabilito dalla norma di legge fondante la stessa sia decorsa dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, pur se prima che il creditore abbia presentato domanda di insinuazione nel relativo passivo, Cassazione, sentenza 14 giugno 2019, n. 16123, in Fallimento, 2019, p. 1464, con nota di Napolitano, La prescrizione presuntiva, il fallimento e il giuramento decisorio del curatore nei giudizi di opposizione allo stato passivo;
– il curatore non ha l’onere di riproporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo un’eccezione in senso stretto, come quella di prescrizione presuntiva, già sollevata ed accolta nella fase sommaria, Cassazione, ordinanza 14 marzo 2017, n. 6522;
– l’eccezione di prescrizione presuntiva è perfettamente compatibile con quella, proposta in linea subordinata, di contestazione del rango privilegiato del credito, per il caso che il giudice lo ritenga esistente, in quanto quest’ultima eccezione non implica l’ammissione, ai sensi dell’articolo 2959 Cc, che l’obbligazione non è stata estinta, Cassazione, sentenza 15 settembre 2005, n. 18242, in Giustizia civile, 2005, I, p. 2939 (fattispecie concernente la proposizione di insinuazione tardiva nel fallimento e di proposizione dell’eccezione da parte del curatore del fallimento).
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La cancellazione dell’impresa blocca piano del consumatore e concordato

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di Roberto Marinoni

Fonte: La cancellazione dell’impresa blocca piano del consumatore e concordato | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

02 Ottobre 2023

L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese, ove le obbligazioni da ristrutturare abbiano natura mista (sia civile che commerciale), non può avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, né accedere al concordato minore, al concordato preventivo o a quello di omologazione degli accordi di ristrutturazione. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13299 del 26 luglio scorso con la quale la Corte (adita con il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale introdotto dall’articolo 363 – bis della legge 149/2022) è tornata sul tema della ammissibilità, e delle condizioni di ammissibilità, di una proposta di ristrutturazione dei debiti del consumatore e, in subordine, di una domanda di concordato minore (articolo 74 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) .

Il caso

Il rinvio pregiudiziale nasceva dal reclamo di cui la Corte d’Appello di Firenze era stata investita in base agli articoli 50 e 70 del Codice della crisi contro il decreto di inammissibilità emesso dal Tribunale di Firenze e verteva su tre questioni:

la prima, di diritto processuale, relativa alla competenza per il reclamo, in particolare se lo sia il Tribunale in veste collegiale o la Corte di Appello;

la seconda, di diritto sostanziale, per chiarire se la qualificazione giuridica di consumatore ricomprenda anche l’imprenditore individuale cessato che formuli una proposta riferita a debiti misti, civili e commerciali;

la terza, sempre di diritto sostanziale, per determinare se la qualificazione di imprenditore, ai fini dell’accesso all’istituto del concordato minore, si attagli anche all’ex imprenditore una volta cessata l’impresa e cancellato dal Registro Imprese.

I giudici di legittimità negano però l’ammissibilità del rinvio: le questioni sostanziali per mancanza di novità poiché la Corte si era già espressa sul tema con pronunce ancora valide in quanto l’entrata in vigore del Codice della crisi non ha introdotto modifiche normative sostanziali. La questione processuale mancava invece di necessità poiché era funzionale ai questiti relativi alle questioni sostanziali.

Accesso al piano del consumatore

Pur affermando l’inammissibilità delle questioni sostanziali sollevate dalla Corte d’appello di Firenze per difetto della condizione di novità, la Cassazione entra comunque nel merito.

Sulla possibilità per l’imprenditore individuale cessato e cancellato dal Registro imprese di avanzare la proposta di ristrutturazione dei debiti avvalendosi del piano del consumatore, la Cassazione conferma la risposta negativa, richiamando la propria decisione 1869/2016.

Tale decisione, si legge nell’ordinanza del 26 luglio, «rimane ancora attuale» perché la definizione di “consumatore”, fornita oggi dal Codice della crisi (articolo 2, comma 1, lettera e), è solo «minimamente cambiata» rispetto a quella data dalla legge 3/2012 (articolo 6, comma 2, lettera b). Quindi, come già affermato nel 2016, l’imprenditore ed il professionista possono rientrare nella nozione di consumatore solo se i debiti oggetto del piano siano estranei alle obbligazioni commerciali; vale a dire nel senso che le obbligazioni devono essere state contratte per per far fronte ad esigenze personali, familiari e non ad attività d’impresa o professionale. La qualifica di consumatore o professionista si basa quindi sulla natura delle obbligazioni che devono essere ristrutturate: va perciò verificato se, al momento in cui sono state assunte, il debitore ha agito come consumatore o come professionista.

Accesso al concordato

La seconda questione riguardava invece la possibilità che l’ex imprenditore la cui impresa era cessata e cancellata dal Registro Imprese, potesse accedere al concordato minore.

Secondo la Cassazione, anche in questo caso la norma del Codice della crisi non è innovativa ma è in continuità con la giurisprudenza precedente. L’articolo 33, comma 4 del Codice della crisi prevede l’inammissibilità delle domande di accesso non solo al concordato minore, ma anche al concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione presentati dall’imprenditore cancellato dal Registro imprese.

La questione era infatti stata affrontata dalla sentenza 4329/2020 secondo la quale il combinato disposto degli articoli 2495 del Codice civile e 10 della legge fallimentare impediva di richiedere il concordato preventivo al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cu viene chiesto il fallimento entro l’anno dalla cancellazione: e ciò per la evidente ragione l’obiettivo del concordato è risolvere la crisi di impresa, mentre la cessazione dell’attività imprenditoriale fa venir meno il bene che dovrebbe essere risanato.

D’altro canto, sottolinea la Cassazione, l’impossibilità di ricorrere al concordato non preclude l’esdebitazione, «che anzi con il nuovo Codice diviene un vero e proprio diritto (articolo 282 del Codice della crisi), con il decorso di un triennio dall’apertura della liquidazione controllata, senza neppure dover attendere la chiusura della procedura liquidatoria

La massima
L’imprenditore individuale cessato e cancellato dal registro delle imprese non può accedere al concordato minore, preventivo, né al piano di ristrutturazione, per inesistenza del bene (impresa) al cui risanamento si vorrebbe mirare
Corte di Cassazione, ordinanza n. 22699 del 26 luglio 2023

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Concordato preventivo in continuità aziendale, dilazione oltre l’anno del pagamento dei crediti privilegiati

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di Mario Finocchiaro

Concordato preventivo in continuità aziendale, dilazione oltre l’anno del pagamento dei crediti privilegiati | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

20 Ottobre 2023

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Nel concordato preventivo con continuità aziendale è consentita la dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall’omologazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi. In tal caso, il diritto di voto dei privilegiati dilazionati andrà calcolato sulla base del differenziale tra il valore del loro credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello calcolato al termine della moratoria, dovendo i criteri per tale determinazione essere contenuti nel piano concordatario a pena di inammissibilità della proposta, come si desume sia dall’articolo 86 del decreto legislativo n. 14 del 2019 che dall’articolo 2426, comma 1, n. 8), Cc. Questo il principio espresso dalla Sezione I della Cassazione con l’ordinanza 11 luglio 2023 n. 19648.

I precedenti
In termini, richiamata in motivazione nella pronunzia in rassegna, Cassazione, sentenza 18 giugno 2020, n. 11882, in Fallimento, 2021, p. 349, con nota di Trentini C., Ammissibilità del pagamento dilazionato dei creditori privilegiati nel concordato preventivo.
Non diversamente, per l’affermazione che negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall’articolo 8, comma 4, della legge n. 3 del 2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore, Cassazione, sentenza 3 luglio 2019, n. 17834, ivi, 2020, p. 215, con nota di Rolfi F., Sovraindebitamento e “moratoria” ultrannuale dei privilegiati tra regole attuali e future.
Per la precisazione che negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall’articolo 8, comma 4, della legge n. 3 del 2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore, Cassazione, sentenza 3 luglio 2019, n. 17834, ivi, 2020, p. 215, con la già ricordata nota di Rolfi F., Sovraindebitamento e “moratoria” ultrannuale dei privilegiati tra regole attuali e future.

Determinazione della perdita
Sempre in argomento, nel senso che tema di concordato preventivo la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale ad una soddisfazione non integrale degli stessi, in ragione della perdita economica conseguente al ritardo rispetto ai tempi normali con il quale i creditori conseguono le somme dovute. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex articolo 177, comma 3, legge fallimentare, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata del professionista ex articolo 160, secondo comma, legge fallimentare, tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di liquidazione dei beni gravati dal privilegio in ipotesi di soluzione della crisi alternativa al concordato, Cassazione, ordinanza 4 febbraio 2020, n. 2424 e sentenza 9 maggio 2014, n. 10112.

Fattibilità giuridica ed economica del concordato preventivo
Pur essa ricordata in motivazione, nella pronunzia in rassegna, sulla distinzione tra fattibilità giuridica ed economica del concordato preventivo, per il rilievo che la stessa postula che il sindacato del tribunale riferito alla prima appuri la non incompatibilità del piano con norme inderogabili, mentre quello relativo alla seconda si incentri sulla realizzabilità del piano medesimo nei limiti della verifica della sua eventuale manifesta inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, rimanendo riservata ai creditori la sola valutazione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa fallimentare, oltre a quella della specifica realizzabilità della singola percentuale di soddisfazione prevista per ciascuno di essi; né sulla detta distinzione ha inciso il comma 4 dell’articolo 160 legge fallimentare (introdotto dal decreto legge n. 83 del 2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 132 del 2015), laddove prevede che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta di concordato deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, limitandosi ad introdurre un requisito ulteriore di validità della proposta, al cui riscontro il giudice deve procedere già in sede di ammissione alla procedura, Cassazione, sentenza 15 giugno 2020, n. 11522.

Fattibilità del piano
Sostanzialmente nella stessa ottica, per il rilievo che in tema di concordato preventivo, il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta). Tali principi vengono maggiormente in rilievo nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale ex articolo 186-bis legge fallimentare, laddove la rigorosa verifica della fattibilità in concreto presuppone una analisi inscindibile dei presupposti giuridici ed economici, dovendo il piano con continuità essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un contesto in cui il favor per la prosecuzione della attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele inerenti il piano e la attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione della attività non può che essere funzionale, Cassazione, sentenza 7 aprile 2017, n. 9061.

Il giudizio dei creditori
Sempre sulla questione specifica.
– la previsione dell’articolo 186 bis, ultimo comma, legge fallimentare, che attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato con continuità aziendale qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, non attribuisce all’organo giudicante il compito di procedere alla valutazione della convenienza economica della proposta che, quando non sia implausibile, è riservata al giudizio dei creditori ma solo verificare che l’andamento dei flussi di cassa, ed il conseguente indebitamento, non siano tali da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori., che attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato con continuità aziendale qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, non attribuisce all’organo giudicante il compito di procedere alla valutazione della convenienza economica della proposta che, quando non sia implausibile, è riservata al giudizio dei creditori ma solo verificare che l’andamento dei flussi di cassa, ed il conseguente indebitamento, non siano tali da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori, Cassazione, sentenza 27 settembre 2018, n. 23315;

Sindacato del giudice sulla fattibilità
– In tema di concordato preventivo, il sindacato del giudice sulla fattibilità, intesa come prognosi di concreta realizzabilità del piano concordatario, quale presupposto di ammissibilità, consiste nella verifica diretta del presupposto stesso, sia sotto il profilo della fattibilità giuridica, intesa come non incompatibilità del piano con norme inderogabili, sia sotto il profilo della fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del piano medesimo, dovendosi in tal caso, verificare unicamente la sussistenza o meno di un’assoluta e manifesta non attitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obiettivi prefissati, ossia a realizzare la causa concreta del concordato, Cassazione, sentenza 6 novembre 2013, n. 24970 (in Giurisprudenza commerciale, 2015, II, p. 53, con nota di Ciervo G., Ancora sul giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo e in Fallimento, 2014, p. 662, con nota di Conte R., Tributo indiretto, tassa di scopo e privilegi concorsuali) (Nella specie, concernente un’ipotesi di omologazione di concordato preventivo con continuità aziendale, le osservazioni contenute nel parere del commissario giudiziale ex articolo 180, comma 2, legge fallimentare – inerenti alla mancanza di apporto di nuova finanza da parte delle banche in epoca successiva all’omologa, nel deficit patrimoniale registrato dal debitore con conseguente totale perdita del capitale, nella mancanza di garanzie di vendita degli immobili e nella mancanza di copertura del fabbisogno concordatario con le risorse previste dal piano e, dunque, sostanziandosi in rilievi valutativi e prognostici – sono state ritenute inidonee a palesare la manifesta irrealizzabilità del piano e a giustificare l’intervento officioso del tribunale).

Concordato in continuità aziendale
In termini generali, in tema di concordato preventivo in continuità aziendale, si è precisato, tra l’altro:
– il concordato preventivo è qualificabile come in continuità aziendale, salvi i casi di abuso dello strumento, allorquando alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale, tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del successivo trasferimento cui l’azienda in esercizio dev’essere dichiaratamente destinata, senza che rilevi in senso ostativo all’applicazione del regime ex articolo 186-bis legge fallimentare l’eventuale intervenuta modificazione di una parte dell’attività produttiva, Cassazione, ordinanza 15 giugno 2023, n. 17092;
– in tema di accertamento del passivo fallimentare, sull’advisor che intenda far valere crediti per l’attività di assistenza prestata in favore dell’ente per la predisposizione di un piano di concordato preventivo in continuità aziendale incombe – a fronte dell’eccezione del curatore di non corretta esecuzione della prestazione o di sua totale o parziale inutilità per la massa – l’onere di dimostrare l’esattezza del proprio adempimento o l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili della negativa evoluzione della procedura concorsuale minore, culminata nella dichiarazione di fallimento; detto onere postula anche la rappresentazione puntuale, completa e veritiera della situazione patrimoniale, tale da renderla idonea a propiziare l’ammissione alla procedura concordataria, con l’indicazione dei crediti risarcitori conosciuti o conoscibili, suscettibili di derivare da azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori per atti di mala gestio, Cassazione, ordinanza 13 dicembre 2022, n. 36319;
– il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’articolo 186 bis legge fallimentare, è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) – assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. intangibles), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe; resta comunque fermo il limite del c.d. abuso del concordato con continuità, da verificare in concreto, avuto riguardo agli artt. 160 ultimo comma e 173 legge fallimentare, Cassazione, sentenze 1 marzo 2022, n. 6772, in Società, 2022, p. 1382, con nota di Miramondi M., La compatibilità dell’affitto d’azienda con il concordato preventivo in continuità aziendale: stato dell’arte e alcune considerazioni alla luce del D.lgs. n. 83/2022 e 19 novembre 2018, n. 29742, in Foro italiano, 2019, I, c. 162, con nota di Fabiani M. Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche ammissione.

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Pec: se l’allegato è illeggibile la notifica non è inesistente

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di Francesco Machina Grifeo

30 Ottobre 2023

Fonte: Pec: se l’allegato è illeggibile la notifica non è inesistente | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

Per la Cassazione, sentenza n. 30083 depositata oggi, di fronte a delle “anomalie” il destinatario ha il dovere di informare il mittente

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L’ illeggibilità del file allegato alla Pec non rende inesistente la notifica, se per il resto l’invio è regolare. L’importante chiarimento arriva dalla Sezione lavoro della Cassazione, sentenza n. 30083 depositata oggi, che ha così accolto, con rinvio, il ricorso del ministero dell’Istruzione nei confronti di una decisione della Corte d’Appello di Palermo che aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto contro la decisione del tribunale di accoglimento delle domande di cinque impiegati amministrativi (personale A.T.A.) volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato.

Per il giudice di secondo grado, infatti, dalla dimensione degli atti allegati – «1 byte» – non si poteva che desumere, come sostenuto dagli appellati, che si trattasse di file del tutto vuoti e ha così ritenuto “inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare”.

La Sezione lavoro, per prima cosa ricorda che le S.U. hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il non-atto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (n. 14916/2016).

Tornando al caso specifico, prosegue la decisione, il procedimento di trasmissione degli atti “risulta perfettamente conforme al diritto”. In quanto “sia il mittente che il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti”. Ciò che viene in rilievo invece è l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.

Ebbene, in un simile caso, quando cioè delle anomalie rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio, il destinatario ha il «dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente». Né vale l’obiezione per cui il mittente avrebbe facilmente potuto accorgersi dell’anomalia, perché qui non conta la “colpevolezza o meno” quanto piuttosto “se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello”.

E qui, prosegue il ragionamento, gioca un ruolo decisivo il fatto che il messaggio PEC “indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»)”. Ne deriva che la consegna del messaggio, “seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione”.

Ciò dunque esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.

In definitiva per la Sezione lavoro va affermato il seguente principio di diritto: «Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».

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Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti

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di Antonino La Lumia, Claudia Carmicino*

06 Ottobre 2023

E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza del 28 settembre 2023. n. 27545. Nella stessa pronuncia la Corte ha richiamato, poi, l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimi, l’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”

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Fonte: Gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti | NT+ Diritto (ilsole24ore.com)

 I saggi di interesse usurari – che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa – costituiscono in ogni caso importi indebiti . Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra-legale pretenderebbe per ciò stesso l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata : il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto”: è questo il principio affermato dalla Suprema Corte con la recentissima ordinanza n. 27545 del 28 settembre 2023.

La Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’annosa questione della c.d. usura sopravvenuta, con una decisione che si pone in netto contrasto con quello che, dopo la nota sentenza della medesima Corte n. 24675 del 18 luglio 2017 , sembrava l’orientamento ormai predominante.

Come noto agli operatori di settore, con tale sentenza le Sezioni Unite avevano escluso la sussistenza dell’usura sopravvenuta nei contratti di mutuo, rilevando che: “Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto”.

Era stata, quindi, esclusa la nullità sopravvenuta della clausola contrattuale di determinazione degli interessi che, originariamente sottosoglia, avessero superato in corso di esecuzione del contratto di mutuo il tasso soglia dell’usura; secondo la Corte le clausole di determinazione del tasso di interesse sarebbero pienamente legittime e l’esercizio dei diritti che discendono dal contratto non potrebbe configurare violazione del canone di buona fede.

Tale decisione aveva accesso un lungo dibattito interpretativo, considerato che parte della giurisprudenza si era spinta a ritenere estensibile anche ai rapporti di conto corrente l’inesistenza della usurarietà sopravvenuta sancita dalle Sezioni Unite della Cassazione solo con riferimento al contratto di mutuo, ritenendo che quanto affermato dalla Corte dovesse essere considerato un principio generale in materia di usura, derivante da un’interpretazione sistematica degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, c.c.

Secondo tale orientamento, quindi, nei rapporti di mutuo e in quelli di conto corrente, l’unico momento rilevante sia ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 644 c.p. sia per l’applicazione della sanzione civile disposta dall’art. 1815, comma 2, c.c., sarebbe quello della stipula del contratto, con la conseguenza che le successive variazioni dei tassi operate dalla banca sarebbe irrilevante ai fini della nullità previste dalla legge.

Tale impostazione viene ribaltata dalla Corte che, nella fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento, cassa la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, confermando la sentenza di primo grado emessa in esito a un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva respinto l’eccezione di usurarietà del tasso di interesse debitorio applicato in corso di rapporto (ritenendo che gli attori non avevano allegato specificatamente né che tali interessi fossero frutto di una diversa pattuizione, né che la pretesa fosse contraria a buona fede) e aveva rigettato la richiesta dell’attrice di portare in compensazione con quanto dovuto alla banca gli importi ultralegali accertati dalla consulenza tecnica espletata in giudizio.

L’ordinanza in commento giunge ad affermare proprio in relazione ad un rapporto di conto corrente che “… è illegittima la pretesa della banca in relazione all’importo (individuato dal CTU) eccedente la soglia di usura, anche se i saggi di interesse usurario sono sopraggiunti in corso di rapporto”.

Il Supremo consesso afferma, quindi, che gli interesse usurari sopraggiunti in corso di causa costituiscono importi indebiti, con la conseguenza che il creditore che pretenda il pagamento di interessi divenuti ultralegali nel corso del rapporto richiederebbe l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata; il suo comportamento sarebbe, infatti, contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto.

Tale interpretazione è in linea con la necessità che gli intermediari, quali operatori qualificati, abbiano contezza – in virtù degli strumenti di rilevazione e di controllo normalmente adottati nell’esercizio dell’attività bancaria – quando il rapporto è venuto, in un certo momento, a oltrepassare la soglia vietata: perciò, se non intervengono tempestivamente per adottare le misure di rimedio (continuando ad applicare e variare unilateralmente tassi e condizioni economiche) è arduo sostenere che stiano mantenendo una condotta conforme al canone di buona fede o che le eventuali illiceità commesse non abbiano rilevanza ai fini delle sanzioni fissate dall’ordinamento.

Con la citata sentenza n. 24675 del 18 luglio 2017, la Suprema Corte ha soltanto ribadito un principio, secondo cui il superamento del tasso soglia non comporta l’azzeramento degli interessi, quando si verifichi – successivamente alla stipula del contratto di mutuo – soltanto in due ipotesi: quando il contratto sia stato stipulato in periodo antecedente all’entrata in vigore della normativa antiusura (L. 108 del 1996) oppure quando – in corso di rapporto – il tasso soglia diminuisca e, per effetto di questa discesa, il tasso del finanziamento (nel frattempo rimasto fisso) diventi usurario.
Altra fattispecie è quella relativa ai contratti di conto corrente che deriva dalle modifiche unilaterale delle clausole contrattuali da parte della banca.

La Suprema Corte ha, poi, richiamato l’orientamento giurisprudenziale che impone, a chi intenda far valere in giudizio l’applicazione di interessi illegittimil’onere di “… dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato e gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento”.

Fatta tale premessa e rilevato che, nella fattispecie in esame, gli attori avevano allegato all’atto di citazione perizia di parte, nella quale il tecnico aveva indicato i saggi di interesse applicati dall’Istituto nel corso del rapporto nel periodo contestato, i giudici hanno affermato il principio secondo cui “In caso di azione giudiziaria con la quale si contesta mediante dettagliata relazione peritale l’applicazione di saggi di interesse illegittimi nel corso di rapporti bancari, per l’istituto bancario convenuto, che intenda contestare il computo dei saggi, non è sufficiente una contestazione generica , che faccia riferimento all’art. 115 c.p.c., ma è necessaria l’indicazione dei saggi che, in tesi difensiva, sarebbero stati effettivamente applicati .

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*A cura dell’avv. Antonino La Lumia e dell’avv. Claudia Carmicino – Lexalent

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