CASSAZIONE: ESTRANEITÀ ALLA GESTIONE ESCLUDE PRESUNZIONE DELLA DISTRIBUZIONE DEGLI UTILI EXTRACONTABILI

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Nella sentenza n. 26473 del 10 ottobre, la Cassazione ha affermato che per superare la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, la prova dell’“assoluta estraneità” del socio alla gestione societaria deve essere “precisa e rigorosa”. La Corte ha chiarito che, sebbene sia legittima la presunzione, il contribuente ha la facoltà di dimostrare la propria estraneità. Tuttavia, nel caso specifico, le argomentazioni del socio non sono state ritenute sufficienti, poiché non hanno fornito elementi concreti a supporto della sua posizione, contrariamente alle evidenze documentali fornite dall’Agenzia delle Entrate.

La sentenza n. 26473 della Cassazione del 10 ottobre affronta il tema della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili in contesti di società con ristretta base partecipativa. I giudici hanno chiarito che, sebbene sia legittima la presunzione di attribuzione degli utili ai soci, il contribuente può dimostrare la propria estraneità alla gestione societaria. Questo richiede una prova rigorosa, che nel caso specifico non è stata fornita da un socio del 10% di una Srl attiva nel settore musicale.

La Corte ha sottolineato come l’interpretazione della presunzione non sia più rigidamente tradizionale: se il socio dimostra la sua totale estraneità alla vita e gestione della società, la presunzione perde validità. Tuttavia, le argomentazioni del contribuente si sono rivelate insufficienti, poiché la Commissione tributaria regionale si è limitata a esposizioni descrittive e non ha affrontato in modo concreto le evidenze documentali prodotte dall’Agenzia delle Entrate, che dimostravano un’operatività reale della società.

Inoltre, la Cassazione ha respinto la tesi secondo cui la modifica dell’articolo 7 del Dlgs n. 546 del 1992 avesse alterato l’onere della prova, ribadendo che le regole esistenti continuano a valere. In sintesi, il principio emerso è che, per superare la presunzione di distribuzione degli utili, è necessaria una prova molto rigorosa dell’estraneità alla gestione, nonché una valutazione adeguata delle evidenze documentali relative all’operatività della società.

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CCII – EMERSIONE ANTICIPATA: INCREMENTO DELLE DOMANDE

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Secondo il Report di Unioncamere-Infocamere, nel primo semestre del 2024 si è registrato un aumento del 53,5% delle istanze per la composizione negoziata rispetto all’anno precedente. Finora, 167 aziende sono riuscite a trovare un percorso di risanamento, salvaguardando 8.250 posti di lavoro. Questi dati evidenziano l’efficacia crescente di questo strumento nell’affrontare le difficoltà economiche prima che diventino irreversibili.

L’emersione anticipata della crisi d’impresa sta dando risultati significativi, come evidenziato dal Report di Unioncamere. Le domande di accesso alla composizione negoziata sono aumentate del 53,5% nel primo semestre 2024 rispetto all’anno precedente. Questo nuovo percorso extragiudiziale, introdotto nel 2021, si sta dimostrando efficace nel prevenire il deterioramento delle situazioni economico-finanziarie.

Nel 2023, il tasso di successo delle procedure di composizione negoziata ha raggiunto quasi il 22%, con 8.250 lavoratori impiegati nelle aziende “salvate”. Il decreto correttivo al Codice della crisi, che include misure come la transazione fiscale, mira a facilitare ulteriormente l’accesso a queste procedure.

Nonostante la liquidazione giudiziale rimanga la procedura più comune (76% nel 2024), la composizione negoziata continua a crescere, con un incremento significativo rispetto agli anni precedenti. Dal novembre 2021 a giugno 2024, sono state presentate 1.608 domande, di cui 915 già concluse.

La composizione negoziata non solo aiuta le aziende a trovare un percorso di risanamento, ma contribuisce anche a ridurre il carico dei tribunali. Nel primo semestre del 2024, ha rappresentato l’8,6% delle nuove procedure concorsuali, e un trend in crescita potrebbe alleggerire ulteriormente i tempi e i costi della giustizia.

Infine, si segnala un aumento delle dimensioni delle aziende che ricorrono a questa procedura, con un valore medio della produzione di 32 milioni di euro nel 2024, in aumento rispetto ai 7 milioni del 2022. La maggior parte delle richieste proviene dal Nord Italia (58%), seguita dal Centro (21%) e dal Sud (15%).

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SUPERBONUS: QUANDO SI CONSUMA IL REATO DI TRUFFA AGGRAVATA EX ART. 640 BIS C.P. E CONSEGUENTE SEQUESTRO PREVENTIVO

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Dispositivo dell’art. 640 bis Codice Penale

<<La pena è della reclusione da due a sette anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee [32 quater].>>

Sintesi esplicativa del dispositivo:

La qualificazione della truffa aggravata ex art. 640 bis c.p. come circostanza aggravante della fattispecie di truffa, piuttosto che come reato autonomo, si basa sul fatto che l’art. 640 bis non modifica gli elementi essenziali del reato di truffa, ma introduce un elemento specifico relativo all’oggetto materiale della condotta illecita. In particolare, il legislatore prevede che la truffa riguardi contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni simili, conferendo alla norma un rapporto di specialità unilaterale per aggiunta rispetto all’art. 640 c.p.

Pertanto, gli elementi costitutivi della truffa ex art. 640 c.p., quali l’inganno, l’induzione in errore e l’atto di disposizione patrimoniale, rimangono invariati anche nell’ambito dell’art. 640 bis c.p. La specificità della norma risiede nel tipo di bene giuridico coinvolto, ossia il patrimonio pubblico, che richiede una tutela rafforzata.

È importante notare che, nel contesto dell’art. 640 bis c.p., il danno patrimoniale per l’ente pubblico non si identifica con il lucro cessante (vale a dire la mancata acquisizione di un beneficio), ma con il danno emergente, che si concretizza al momento dell’effettiva elargizione indebita dei fondi o dei benefici oggetto della truffa. Il momento consumativo del reato coincide quindi con la realizzazione di una perdita effettiva per l’ente, che si verifica con la concessione indebita del beneficio economico.

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PREMESSA

(C.p.: art. 640 bis c.p.; art. 640 quater)

Prima di affrontare il caso specifico è fondamentale effettuare un’analisi dettagliata sulla consumazione del reato di truffa aggravata ex art. 640 bis c.p., con particolare riferimento alla possibilità di applicare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. La questione centrale riguarda la delimitazione del momento consumativo della truffa, essenziale per stabilire la legittimità del sequestro.

La truffa ex art. 640 bis c.p. è caratterizzata dall’inganno, in cui l’agente, tramite artifici o raggiri, induce la vittima a un atto di disposizione patrimoniale, producendo un danno e un profitto ingiusto. Perché il reato si consumi, è necessario che si verifichi una perdita effettiva del patrimonio della vittima, coerentemente con una visione economica del danno. La Cassazione, con diverse sentenze, ha ribadito che il reato si perfeziona solo con l’effettivo conseguimento del bene o del vantaggio patrimoniale, non al momento dell’insorgenza dell’obbligazione o del riconoscimento formale di un credito.

La norma che prevede la confisca per equivalente (art. 640 quater c.p.) può applicarsi solo ai reati consumati. Questo principio esclude il tentativo di truffa aggravata, in quanto il tentativo costituisce una fattispecie autonoma e distinta rispetto al delitto consumato. La giurisprudenza ha chiarito che il divieto di analogia in malam partem impedisce di estendere l’applicazione del sequestro preventivo a casi non espressamente previsti dal legislatore.

Nel caso del Superbonus, il reato di truffa aggravata si consuma non con il mero riconoscimento fiscale del credito d’imposta, ma con la sua cessione o compensazione effettiva, ossia quando si realizza una concreta perdita per lo Stato. Pertanto, prima di questo momento, il comportamento potrebbe configurarsi solo come un tentativo di reato, non suscettibile di confisca per equivalente.

In sintesi, la Corte ha precisato che, per la truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 bis c.p., la consumazione del reato richiede la concretizzazione del danno patrimoniale, consolidando un orientamento volto a distinguere nettamente tra tentativo e reato consumato.

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SENTENZA SUL CASO DI SPECIE

Cassazione pen., Sez. 3, 11 giugno 2024, n. 23402

La sentenza n. 23402 dell’11 giugno 2024 della Corte di Cassazione offre un chiarimento significativo sul momento consumativo del reato di truffa aggravata ex art. 640 bis c.p. rispetto alla fattispecie di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter c.p., con specifico riferimento all’applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. Il caso trattato riguarda un sequestro preventivo disposto per reati legati al Superbonus, contestando l’errata configurazione del reato come truffa consumata.

La Corte ha ribadito che, per configurare la consumazione del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, è necessario un danno economico concreto e non solo formale. Nello specifico, ha affermato che la truffa si consuma non al momento del riconoscimento del credito d’imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate, ma solo quando il credito viene effettivamente utilizzato, ad esempio mediante riscossione o compensazione. Tale precisazione è fondamentale perché il danno per lo Stato si verifica solo con la concreta perdita del patrimonio pubblico, ossia quando il credito fittizio viene sfruttato.

La sentenza sottolinea la differenza tra truffa aggravata e indebita percezione di erogazioni pubbliche: mentre per quest’ultima fattispecie ex art. 316 ter c.p. il momento consumativo coincide con il riconoscimento del beneficio (ad esempio, un credito d’imposta), nel caso della truffa aggravata è necessario il verificarsi di un danno economico reale. Pertanto, l’utilizzo del credito di imposta, sia per riscossione che per compensazione, costituisce il momento in cui il reato si perfeziona.

Inoltre, la Corte ha confermato che la confisca per equivalente può essere applicata solo in caso di reati consumati, come previsto dall’art. 640 quater c.p. Il tentativo di truffa non rientra nell’ambito di applicazione della confisca per equivalente, in quanto il legislatore ha limitato tale misura ai delitti consumati e non a quelli tentati, come chiarito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 40985 del 2018.

La decisione consolida l’orientamento secondo cui il tentativo di truffa costituisce una fattispecie autonoma, con una diversa rilevanza penale rispetto alla truffa consumata. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente non è quindi ammissibile per il tentativo di reato, in conformità al principio del divieto di analogia in malam partem, che impedisce l’estensione delle norme penali oltre i casi espressamente previsti dalla legge.

La sentenza rappresenta un passo importante verso una maggiore certezza giuridica in materia di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, fornendo criteri chiari per distinguere il momento consumativo e le conseguenze in termini di misure cautelari reali.

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MASSIMA REDAZIONALE

Esattamente, in caso di truffa aggravata ex art. 640 bis c.p. mediante l’utilizzo di crediti d’imposta fittizi generati attraverso false asseverazioni, il profitto del reato si configura unicamente con i proventi ottenuti dalle cessioni dei crediti fittizi quando questi vengono effettivamente riscossi o utilizzati in compensazione. Il momento consumativo del reato si realizza solo nel momento in cui si verifica una concreta perdita economica per lo Stato, ossia quando il credito viene utilizzato per ridurre obbligazioni fiscali o incassato come denaro.

Fino a quando i crediti rimangono non utilizzati o non compensati, non si può configurare un danno patrimoniale reale per la pubblica amministrazione, e quindi non si realizza il reato di truffa consumata, ma solo un tentativo di reato. Questo implica che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere applicato soltanto in relazione ai proventi effettivamente conseguiti mediante la cessione dei crediti d’imposta e il loro successivo utilizzo o compensazione.

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LIMITE DI 45 GIORNI ALLA DURATA DELLE INTERCETTAZIONI, APPROVATO AL SENATO IL DDL ZANETTIN

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La riforma delle intercettazioni approvata al Senato rappresenta un cambiamento significativo rispetto alla disciplina attuale. La nuova legge introduce per la prima volta un limite temporale esplicito alla durata delle operazioni di intercettazione, fissandolo a 45 giorni, con possibilità di proroga solo in caso di assoluta indispensabilità, giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti. Questo rappresenta una restrizione rispetto alla normativa precedente, che permetteva proroghe illimitate di 15 giorni in presenza dei presupposti richiesti.

L’eccezione principale riguarda i procedimenti per reati di mafia e terrorismo, ai quali non si applica il limite di 45 giorni, mantenendo una flessibilità maggiore per le indagini in questi ambiti. Per tali reati, gli standard probatori per autorizzare le intercettazioni sono già più bassi rispetto ad altre fattispecie, con indizi che possono essere “insufficienti” e una soglia di “necessità” invece di “indispensabilità”.

Le intercettazioni ambientali nei luoghi privati seguono una disciplina diversa, con una durata iniziale di 40 giorni, prorogabile per periodi di 20 giorni. La riforma, secondo il senatore Zanettin, punta a evitare le proroghe “automatiche” che caratterizzavano le prassi precedenti, richiedendo una motivazione più stringente e legata ai risultati ottenuti dalle indagini.

Le critiche, tuttavia, non mancano: l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha sollevato preoccupazioni riguardo alla limitazione dei 45 giorni per reati gravi, come omicidi o traffico di esseri umani, temendo che possa compromettere la capacità della magistratura di condurre indagini efficaci in casi complessi che richiedono tempistiche più lunghe.

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FALLIMENTO, CASS. ORD. N. 26159/2024: PREDEDUCIBILITÀ DEI CREDITI MATURATI DAL PROFESSIONISTA INCARICATO

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Questo principio stabilito dalla Corte riguarda la prededucibilità dei crediti sorti per prestazioni funzionali a una procedura concorsuale. In questo caso, si afferma che il credito maturato dal professionista incaricato dal debitore per l’accesso alla procedura di concordato preventivo è considerato prededucibile anche nel fallimento successivo e consecutivo.

La condizione per la prededucibilità è che la prestazione del professionista sia stata funzionale al raggiungimento degli obiettivi della procedura di concordato preventivo, anche se poi quest’ultima si è risolta in un fallimento. Ciò significa che il credito del professionista avrà priorità di pagamento rispetto ad altri debiti nel contesto della procedura fallimentare, poiché il lavoro svolto è stato ritenuto necessario per le finalità concorsuali iniziali.

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Digitare la scritta “Download” sottostante per la lettura integrale in formato PDF della Ord. n. 26159/2024 della Suprema Corte di Cassazione

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DOMANDA DI RIVENDICA E RESTITUZIONE DEI BENI ACQUISTI PER L’ESECUZIONE CONCORSUALE NEL CCII

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La transizione dal fallimento alla liquidazione giudiziale operata dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) ha portato novità significative, senza però rinunciare a principi fondamentali come quello del concorso formale dei creditori. La disciplina del CCII, infatti, conserva la necessità di verificare tutte le pretese avanzate da terzi nel corso della procedura, siano esse di natura reale o personale, con il rispetto del contraddittorio tra i creditori. Questo aspetto riguarda in particolare le domande di rivendica o restituzione di beni, con lo scopo di sottrarli all’attivo della procedura concorsuale.

Novità introdotte dal Codice e la questione della cognizione extraconcorsuale

Una delle innovazioni più rilevanti apportate dal CCII è il passaggio da una cognizione meramente endoconcorsuale (valida solo all’interno del concorso) delle decisioni sulle domande di rivendica e restituzione, a una nuova valenza extraconcorsuale di tali decisioni. Questo mutamento deriva dall’art. 204, ultimo comma, che attribuisce a queste decisioni la possibilità di produrre effetti di giudicato anche al di fuori della procedura concorsuale, consolidando così la stabilità degli atti compiuti in sede concorsuale.

In passato, le decisioni prese dal giudice delegato o dal tribunale in sede di verifica del passivo erano vincolanti solo “ai fini del concorso”. Con la nuova disciplina, tali decisioni possono vincolare anche i rapporti extraconcorsuali, per garantire maggiore sicurezza giuridica nelle vendite immobiliari successive. Tuttavia, rimane un rischio residuo di evizione per l’acquirente nel caso in cui il terzo, che non abbia presentato rivendicazione in sede concorsuale, agisca successivamente contro di lui.

Riflessioni sul ruolo del debitore tornato in bonis

Un tema di grande rilevanza riguarda la possibilità per il debitore, tornato in bonis, di contestare decisioni favorevoli ottenute da terzi pretendenti durante la procedura di liquidazione giudiziale. La riforma ha cercato di chiarire questo punto, riconoscendo al debitore la facoltà di intervenire e proporre impugnazione contro le decisioni relative alle domande di rivendica o restituzione, sancendo così una forma di partecipazione diretta del debitore anche durante la procedura.

Critiche e risposte normative

La proposta di una lettura “minimalista” della riforma, secondo cui le decisioni concorsuali favorevoli ai terzi pretendenti sarebbero vincolanti solo nei confronti dei creditori o dell’aggiudicatario, ma non nei confronti del debitore, è stata criticata. Infatti, la nuova disposizione dell’art. 204 sembra chiarire che anche il debitore è vincolato dalle decisioni rese durante la procedura concorsuale, se ha avuto la possibilità di partecipare e difendersi.

Conclusioni

La riforma operata dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha quindi confermato la validità extraconcorsuale delle decisioni assunte sulle domande di rivendica e restituzione. La nuova disciplina, pur introducendo meccanismi di maggiore protezione per gli acquirenti nelle vendite concorsuali, non elimina completamente il rischio di evizione, ma cerca di ridurlo. Allo stesso tempo, la possibilità per il debitore tornato in bonis di trarre giovamento dalle decisioni concorsuali a lui favorevoli è riconosciuta e confermata dal sistema normativo.

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L’ABROGAZIONE DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO ALLA MERCÉ INTERPRETATIVA DEI GIUDICI

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Quod erat demonstrandum, ogni qualvolta si legifera una riforma legislativa di elevata rilevanza giuridica, nelle more della formazione di una giurisprudenza dominante, si assiste a una variegata interpretazione della riforma in oggetto da parte dei giudici, con provvedimenti contrastanti tra i diversi Tribunali italiani.

Decreto legge carceri, il n. 92 del 2024

Pertanto, ciò è quello che sta emergendo con l’entrata in vigore della riforma sul reato di abuso d’ufficio del governo Meloni.

Il tema della soppressione dell’abuso d’ufficio sta generando decisioni contrastanti nei tribunali italiani. Mentre il tribunale di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale riguardo alla nuova normativa introdotta con la legge Nordio, il tribunale di Reggio Emilia, per la prima volta, ha respinto una richiesta simile da parte della procura.

L’ordinanza dei giudici emiliani ritiene inammissibile la questione di legittimità costituzionale, affermando che un intervento della Corte costituzionale non porterebbe a ripristinare automaticamente il reato di abuso d’ufficio, trattandosi di una scelta legislativa deliberata. Inoltre, il tribunale evidenzia che le esigenze di tutela costituzionale non devono necessariamente essere soddisfatte con sanzioni penali, potendo essere raggiunte con misure di diversa natura.

Un’altra questione sollevata è quella relativa alla presunta violazione della Convenzione ONU di Merida, che, contrariamente a quanto affermato dalla procura, non impone un obbligo di incriminare le condotte riconducibili all’abuso d’ufficio. La Convenzione richiede piuttosto che gli Stati considerino l’adozione di misure legislative in merito, ma lascia loro discrezionalità.

Inoltre, l’ordinanza si sofferma sul nuovo reato di peculato per distrazione, introdotto dal decreto legge n. 92 del 2024. Questo reato, che ricalca in parte il delitto di peculato comune, sembra colmare il vuoto lasciato dalla soppressione dell’abuso d’ufficio, mantenendo la rilevanza penale delle condotte distrattive di denaro o altri beni mobili destinati a scopi pubblici. Tuttavia, emerge un possibile profilo di illegittimità costituzionale, non rilevante nel procedimento, riguardo alla mancata inclusione dei beni immobili, contrariamente a quanto previsto dalla Direttiva Pif dell’Unione Europea.

Queste decisioni dimostrano come la soppressione dell’abuso d’ufficio stia creando incertezze giuridiche e una diversità di interpretazioni tra i tribunali italiani.

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Dispositivo dell’art. 314 bis Codice Penale modificato

Note

Articolo introdotto dall’art. 9, comma 1 del D.L. 4 luglio 2024, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 2024, n. 112.

<< Fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e l’ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto sono superiori ad euro 100.000. >>

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Direttiva Protezione Interessi Finanziari (PIF)

La direttiva dell’Unione europea 2017/1371, nota come “direttiva PIF”, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, obbliga gli Stati membri: a sanzionare penalmente le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea identificate. La direttiva PIF il cui acronimo significa (Protezione Interessi Finanziari) approvata definitivamente il 5 luglio 2017 ha armonizzato il diritto penale degli Stati membri; in particolare ha di fatto obbligato gli Stati a modificare la disciplina dei reati tributari sulla responsabilità amministrativa delle società.

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DANNO DA PERDITA DI CHANCE: CRITERIO DI QUANTIFICAZIONE SECONDO LA CASSAZIONE

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Cass. Sez. Lav., 8 luglio 2024, n. 18568 – Pres. Marotta; Rel. Sarracino; Ric. M.L.P.S.; Controric. P.C.;

La sentenza della Corte di Cassazione in questione affronta il tema della quantificazione del danno da perdita di chance, con particolare riferimento a un caso di stabilizzazione lavorativa mancata a causa di un provvedimento illegittimo. In particolare, la lavoratrice lamentava di non aver potuto partecipare a una procedura di stabilizzazione, a differenza degli altri lavoratori, per via di un provvedimento che l’aveva esclusa da un progetto lavorativo, successivamente dichiarato illegittimo.

In primo grado, il Tribunale di Napoli aveva rigettato la domanda di risarcimento per danno da perdita di chance, ma la Corte d’appello aveva accolto l’istanza, stabilendo che la ricorrente avesse subito un danno economico e quantificando il risarcimento sulla base delle retribuzioni che avrebbe percepito dal momento della stabilizzazione fino al pensionamento.

La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta l’individuazione del danno come perdita di chance, in quanto la condotta illegittima aveva negato alla ricorrente una probabilità significativa di ottenere un vantaggio economico. Tuttavia, ha censurato la Corte d’Appello per la quantificazione del danno, affermando che non era stato applicato correttamente il criterio di riduzione del risarcimento in funzione della probabilità di conseguimento del risultato economico.

Secondo la Corte di Cassazione, il danno da perdita di chance deve essere determinato tenendo conto del vantaggio economico che il soggetto avrebbe potuto astrattamente ottenere, ma questo deve essere ridotto in base alla probabilità effettiva che tale risultato si sarebbe concretizzato. Nel caso specifico, la Corte d’Appello non aveva applicato tale riduzione, quantificando il danno direttamente sulle retribuzioni perse, senza tener conto della possibilità reale di conseguire quel risultato.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d’appello per una nuova quantificazione del danno.

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GIURISPRUDENZA PENALE: PRIVACY E INTERCETTAZIONI

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La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiarisce la disciplina relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per cui sono state disposte, ai sensi del comma 1 dell’art. 270 del codice di procedura penale, come modificato dal Decreto Legge 161/2019. Secondo questa normativa, l’inutilizzabilità delle intercettazioni si applica nei casi in cui il procedimento per il quale sono state effettuate sia stato iscritto dopo il 31 agosto 2020.

Inoltre, la sentenza affronta la questione della privacy, soprattutto in riferimento alla richiesta di oscuramento dei dati personali avanzata dagli imputati, che nel caso esaminato erano professionisti come avvocati e commercialisti. La Cassazione stabilisce che il diritto alla privacy deve essere bilanciato con il principio della pubblicità delle sentenze, un valore costituzionale che garantisce il diritto del pubblico a conoscere il contenuto integrale dell’attività giudiziaria.

Questa pronuncia della Cassazione mette in luce l’importanza di bilanciare la protezione della riservatezza con l’interesse pubblico alla trasparenza e alla conoscibilità delle decisioni giudiziarie.

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Digitare la scritta “Download” sottostante per la lettura integrale in formato PDF della Ord. n. 36764/2024della Suprema Corte di Cassazione

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FACEBOOK: RECENTE ARRESTO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE SULL’ UTILIZZO DEI DATI PERSONALI A FINI PUBBLICITARI

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Corte di Giustizia dell’Unione europea|Sezione 4 |Sentenza|4 ottobre 2024| n. 446/21

La tutela dei dati personali è uno dei temi più attuali della società moderna e la fonte economica che rappresenta per le multinazionali induce i social a speculare in modo illegittimo, se non illegale, sui suddetti dati del propri utenti.

In un parere di risarcimento danni a favore di un utente di un famoso social, richiesto dal medesimo allo studio legale Bonanni Saraceno, è stato affrontato il diritto della tutela dei dati personali.

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-446/21 stabilisce che Facebook (Meta Platforms Ireland) non può utilizzare i dati personali degli utenti a fini di pubblicità mirata senza limiti temporali e senza distinguere la natura di tali dati. Questo principio si basa sul principio della minimizzazione dei dati previsto dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD). Anche se un utente, come Maximilian Schrems, ha reso pubblica una parte dei suoi dati personali, come il proprio orientamento sessuale durante una tavola rotonda, ciò non autorizza automaticamente il trattamento di altri dati sensibili ottenuti al di fuori della piattaforma social per scopi pubblicitari.

In sostanza, la sentenza sottolinea che il trattamento dei dati sensibili deve essere limitato e rispettare i diritti degli utenti, impedendo l’aggregazione e l’uso di tali dati senza un esplicito consenso e senza limitazioni temporali.

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