CONSULTA: SORPRENDENTE SENTENZA SUL “TERZO GENERE” SESSUALE

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Sentenza n. 143 del 2024

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COMMENTO

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2024, ha affrontato due questioni cruciali in materia di rettificazione del sesso:

1. **Introduzione di un Terzo Genere**: La Corte ha dichiarato inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Bolzano riguardante la possibilità di introdurre un “terzo genere” oltre a quello maschile e femminile. La Corte ha sottolineato che una tale modifica richiederebbe un intervento legislativo piuttosto che giudiziario, data la complessità e l’impatto generale sul sistema normativo italiano. Nonostante il riconoscimento della dignità sociale e della tutela della salute delle persone non binarie, la Corte ha evidenziato che attualmente non esiste un consenso europeo sul tema, come dimostrato da recenti decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Suprema del Regno Unito.

2. **Autorizzazione all’Intervento Chirurgico**: La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui richiede l’autorizzazione del tribunale per interventi medico-chirurgici quando la transizione è già stata completata tramite trattamenti ormonali e psicologici. La Corte ha giudicato irragionevole questa prescrizione, poiché l’autorizzazione giudiziale non è funzionale se la rettificazione del sesso è già stata riconosciuta senza necessità di un intervento chirurgico, violando quindi l’art. 3 della Costituzione Italiana.

La sentenza, pertanto, spinge il legislatore a prendere in considerazione la condizione non binaria, evidenziando l’importanza di adattare il quadro normativo per rispettare la dignità e il benessere psicofisico delle persone non binarie.

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SENTENZA

CORTE COSTITUZIONALE
Sentenza 143/2024
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente BARBERA – Redattore PETITTI
Udienza Pubblica del 18/06/2024 Decisione del 03/07/2024
Deposito del 23/07/2024 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 1 della legge 14/04/1982, n. 164 e 31, c. 4°, del decreto legislativo 01/09/2011, n. 150.
Massime:
Atti decisi: ord. 11/2024
SENTENZA N. 143
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo
BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in
materia di rettificazione di attribuzione di sesso), e 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011,
n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), promosso
dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, nel procedimento
instaurato da L. N., con ordinanza del 12 gennaio 2024, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2024 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visto l’atto di costituzione di L. N. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti;
uditi l’avvocato Alexander Schuster per L. N. e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente
del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 3 luglio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 gennaio 2024, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2024, il Tribunale di
Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione
di sesso), e dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili
di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).
L’art. 1 della legge n. 164 del 1982 violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «nella parte in cui
afferma che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad
una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei
suoi caratteri sessuali”, anziché prevedere che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale
passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita
ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi
caratteri sessuali”».
L’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost., «nella parte in cui
prevede che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante
trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è
regolato dai commi 1, 2 e 3”».
1.1.– Per quanto esposto nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale di Bolzano è stato adito da L. N.,
persona di sesso anagrafico femminile, la quale non si riconosce tuttavia in tale genere, né propriamente in
quello maschile, bensì in un genere non binario, seppure incline al polo maschile; assunto durante la
frequenza degli studi universitari il prenome maschile di I., dal quale ormai si sente definita rispetto agli
altri, N. si è infine rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, presso le quali ha ricevuto una diagnosi di
disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con propensione alla componente
maschile; da qui la sua domanda giudiziale per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro”
e il cambiamento del prenome da L. a I., nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni
intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (innanzitutto, la mastectomia).
1.2.– In ordine alla rilevanza delle questioni aventi ad oggetto l’art. 1 della legge n. 164 del 1982, il
giudice assume che la formulazione attuale della disposizione non consenta di accogliere a quo la domanda
di rettificazione verso un genere non binario.
«Sebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in
termini strettamente binari» – deduce il rimettente – «deve, infatti, ritenersi che l’ordinamento dello stato
civile vigente sia informato implicitamente sulla bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che
pertanto non sia configurabile una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere terzo».
Le questioni riferite all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbero rilevanti poiché, ove esse
fossero accolte, la persona interessata potrebbe accedere agli interventi medico-chirurgici di adeguamento
dei caratteri sessuali su base esclusivamente sanitaria e dunque il procedimento giudiziale «si concluderebbe
verosimilmente – in parte qua – con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione».
Entrambe le norme censurate non sarebbero suscettibili di interpretazione adeguatrice, né l’art. 1 della
legge n. 164 del 1982, implicitamente informato ad una logica di genere binario, né l’art. 31, comma 4, del
d.lgs. n. 150 del 2011, chiaro nel subordinare i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri
sessuali alla preventiva autorizzazione del giudice.
1.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ne esamina distintamente i
parametri, che, riguardo al tema del dimorfismo di genere, evocano anche un profilo convenzionale.
1.3.1.– Il Tribunale premette che la psicologia sociale ha ormai acquisito una concezione non binaria
dell’identità di genere, sul condiviso presupposto che il genere stesso non sia determinato unicamente dal
dato morfologico e cromosomico, ma altresì da fattori sociali e psicologici.
Richiamate la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’identità sessuale e le
pronunce sul terzo genere rese da alcune Corti costituzionali europee, il giudice a quo assume che
l’impossibilità di riconoscere tramite procedura di rettificazione l’autopercezione non binaria dell’individuo
comporti la violazione degli artt. 2, 32, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU,
per la lesione inflitta all’identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare della persona.
L’ingerenza determinata dalla norma censurata sulla vita privata e familiare della persona non binaria
non risponderebbe ai canoni di necessità e proporzionalità enucleati dalla giurisprudenza di Strasburgo
nell’interpretazione dell’art. 8 CEDU.
In particolare, per il suo carattere assoluto e l’assenza di qualunque bilanciamento, il sacrificio del
diritto individuale della persona con identità non binaria non potrebbe trovare giustificazione nell’interesse
pubblico alla certezza dei rapporti giuridici, segnatamente all’esatta differenziazione tra i generi presupposta
dall’attuale sistema di diritto familiare.
L’art. 1 della legge n. 164 del 1982 violerebbe altresì il principio di uguaglianza, poiché a coloro che
percepiscono un’identità di genere non binaria sarebbe preclusa la rettificazione di sesso viceversa
consentita alle persone con identità binaria, in tal modo evidenziandosi nella norma censurata
un’irragionevole lacuna.
1.3.2.– Quanto all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, richiamata la giurisprudenza
costituzionale sul carattere non necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione di
attribuzione del sesso – è citata la sentenza n. 221 del 2015 –, il Tribunale di Bolzano dubita «della
ragionevolezza del regime autorizzatorio previsto dalla normativa censurata, la quale impone un
apprezzamento di natura giudiziale sulla necessità dell’intervento chirurgico che dovrebbe per contro essere
demandato in via esclusiva ad una valutazione di natura medica e psicologica».
Con specifico riferimento alla sentenza n. 151 del 2009 di questa Corte, il rimettente evoca i limiti che la
discrezionalità legislativa incontra nella materia della pratica terapeutica, nella quale la regola di fondo
dovrebbe essere l’autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le
necessarie scelte professionali.
L’opzione legislativa di condizionare gli interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali
all’autorizzazione del tribunale non risponderebbe a necessità e proporzionalità, giacché tempi e costi della
procedura giudiziale ostacolerebbero l’affermazione del diritto del paziente che pure abbia ottenuto
un’indicazione medica favorevole, dalla quale peraltro difficilmente il giudice potrebbe discostarsi.
Sarebbero dunque violati gli artt. 2, 3 e 32 Cost., per l’ingiustificata compressione
dell’autodeterminazione individuale e del diritto alla salute.
Apparirebbe d’altronde irragionevole la disparità di trattamento fra chi debba sottoporsi a un intervento
chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali per una disforia di genere e chi debba sottoporsi a un
intervento chirurgico di altra natura, ma ugualmente irreversibile, per il primo soltanto esigendosi – oltre alla
valutazione sanitaria – l’autorizzazione del tribunale.
Il regime autorizzatorio neppure potrebbe essere giustificato dall’interesse pubblico alla certezza delle
relazioni giuridiche sotto il profilo della definizione del genere, poiché a tale interesse corrisponderebbe la
verifica giudiziale sul completamento della transizione ai fini della rettificazione anagrafica, mentre
resterebbe ad esso estranea l’autorizzazione ai trattamenti chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– Le questioni relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sarebbero inammissibili per il carattere
«creativo» del , «eccedente rispetto ai poteri della Corte costituzionale, implicando petitum scelte affidate
alla discrezionalità politica del legislatore».
Esse inoltre darebbero «per scontate risultanze scientifiche, come l’esistenza di un sesso diverso da
quello maschile e femminile, sulle quali invece la comunità scientifica è ben lontana dall’aver raggiunto un
consenso e un’opinione pienamente condivisa».
Poiché il giudizio a quo riguarda un adulto transessuale, sarebbe poi irrilevante ogni riferimento alla
condizione degli intersessuali, giacché questa concernerebbe essenzialmente «il quadro clinico di bambini,
per i quali può risultare difficile, alla nascita, riconoscere il sesso biologico, o per i quali possono emergere,
nel corso dello sviluppo, degli elementi di disarmonia delle varie componenti del sesso biologico».
Immotivata sarebbe poi la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8
CEDU, giacché la Corte europea dei diritti dell’uomo non avrebbe mai statuito «che la tutela della
percezione di genere richieda l’inserimento nei registri di stato civile di un terzo sesso, come vorrebbe il
giudice a quo».
2.2.– La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile per difetto di
rilevanza, in quanto dagli atti del giudizio principale «non emerge che alla parte ricorrente sia stata negata
l’esecuzione di un intervento chirurgico non autorizzato giudizialmente e che la stessa abbia
successivamente investito il giudice della questione relativa alla legittimità di tale diniego»; poiché «è la
stessa parte ricorrente ad aver applicato la norma in questione nel promuovere il giudizio da cui è scaturito
l’incidente di costituzionalità, rivolgendosi al giudice prima che al medico», essa «non può dolersi ex post
dell’asserita illegittimità di quella stessa norma, che non viene in rilievo nella soluzione della controversia
sub iudice».
L’inammissibilità della censura sarebbe resa evidente dalla constatazione che il suo accoglimento
negherebbe la potestas iudicandi del medesimo giudice adito dalla parte.
2.3.– Le questioni relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sarebbero comunque non fondate, poiché
«l’identità di genere, per sua natura mutevole, anche giornalmente se del caso – si pensi al caso dei
“genderfluid” – non è un dato che si presta a essere fatto oggetto di attestazioni di stato civile».
Il riferimento legislativo all’identità sessuale, anziché all’identità di genere, sarebbe razionale in
funzione della certezza dei rapporti giuridici e della stabilità dello stato civile, nonostante la differente
evoluzione del diritto dell’Unione europea, la cui competenza «si arresta alla definizione di un perimetro
normativo orientato ad escludere opzioni normative lesive della piena esplicazione del diritto all’identità di
genere non già a conformare positivamente in un senso o nell’altro le scelte del legislatore nazionale, ove il
rispetto dei diritti fondamentali della persona sia soddisfatto».
2.4.– Non fondate sarebbero anche le questioni relative all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011,
essendo «del tutto ragionevole affidare al giudice il vaglio ultimo sull’effettiva appropriatezza
dell’intervento chirurgico», nell’ambito di una valutazione complessiva, «che non si limita al solo aspetto
medico, ma determina rilevanti conseguenze sociali».
Non sarebbe quindi prospettabile una disparità di trattamento rispetto ad altri trattamenti sanitari
irreversibili, ma ininfluenti sullo stato civile della persona, i quali, proprio per questa ininfluenza, non
esigerebbero un vaglio ulteriore a quello medico.
In ogni caso, l’art. 6 della legge n. 164 del 1982 «consente all’interessato di operarsi con costi a proprio
carico anche al di fuori del sistema sanitario nazionale, se ha urgenza tale da non poter attendere il vaglio
giudiziario richiesto dall’ordinamento, senza compromettere la possibilità di rettificazione anagrafica».
3.– Si è costituita in giudizio L. N., che ha chiesto l’accoglimento delle censure.
3.1.– Riguardo a quella sull’art. 1 della legge n. 164 del 1982, osservato che gli approdi scientifici
sull’esistenza dell’identità di genere non binaria hanno ormai trovato accoglimento in numerosi ordinamenti
europei, e nello stesso diritto dell’Unione – si cita il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e
del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti
per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n.
1024/2012 –, L. N. deduce che il mancato riconoscimento di tale identità da parte della norma censurata
lederebbe un diritto fondamentale della persona nella sua dimensione sociale, e quindi violerebbe l’art. 2
Cost.
Sarebbe violato anche l’art. 3 Cost., essendo contrario al principio di uguaglianza applicare alla persona
con identità non binaria «una disciplina che, invece, è confezionata per i diversi casi in cui chi chiede la
riattribuzione afferma una identità o maschile o femminile».
D’altro canto, la negazione dell’identità di genere non binaria violerebbe l’art. 32 Cost., in quanto
comprometterebbe il benessere psicofisico della persona, esponendola, soprattutto nella fase vulnerabile
dell’adolescenza, «ai rischi di autolesionismo, alle spinte suicidarie, alle situazioni di emarginazione e di
anoressia che troppo spesso rappresentano le narrazioni che giungono nelle aule dei tribunali d’Italia».
Emergerebbe infine un europeo sufficiente a ricondurre la tutela delle consensus persone non binarie
nell’alveo dell’art. 8 CEDU, richiamato dall’art. 117, primo comma, Cost.
3.2.– Subordinando all’autorizzazione giudiziale l’effettuazione dell’intervento chirurgico avvertito
come necessario dalla persona transessuale, l’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 ne lederebbe il
diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica, violando così l’art. 2 Cost., anche per i tempi e i
costi del processo.
Ricorrerebbe inoltre la violazione dell’art. 3 Cost., poiché esigere l’autorizzazione del tribunale per un
intervento chirurgico sorretto dall’alleanza tra medico e paziente sarebbe per un verso irragionevole,
trattandosi di un intervento lecito in sé, e per altro verso discriminatorio: «[q]uanto ad analoghi interventi di
natura terapeutica riconducibili non alla disforia di genere, ma a patologie oncologiche, infatti,
l’orchiectomia o l’isterectomia sono rimesse esclusivamente al giudizio medico e al consenso del paziente».
La discriminazione sarebbe «aggravata dallo stigma che rappresenta l’autorizzazione giudiziale riservata
specificamente alle persone trans adulte», sostanzialmente parificate all’incapace, che necessita
dell’autorizzazione del giudice tutelare, in spregio ai principi di autonomia del paziente consacrati dalla
legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di
trattamento).
Lo stigma indotto dal regime autorizzatorio sarebbe «profondamente lesivo della dignità delle persone
trans, tanto più in un contesto in cui la scienza medica internazionale ha depatologizzato la loro condizione».
La violazione più macroscopica sarebbe tuttavia inferta all’art. 32 Cost., in quanto il ritardo o il diniego
dell’autorizzazione giudiziale impedirebbero al medico di eseguire e al paziente di ricevere un trattamento
che essi reputano necessario.
Ad avviso della parte, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011
sarebbe riferibile anche a parametri non evocati dal rimettente: l’art. 13, primo comma, Cost., sotto il profilo
dell’inviolabilità della libertà personale del transessuale; l’art. 97, secondo comma, Cost., per l’aggravio
sull’amministrazione giudiziaria di un compito improprio; l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia
all’art. 8 CEDU, sia agli artt. 3 e 4 della direttiva 2004/113/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, che
attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi
e la loro fornitura, parametri, questi ultimi, violati rispettivamente dall’ingerenza pubblica nella vita privata
e familiare della persona transessuale e dall’ostacolo ad essa frapposto nell’accesso alla prestazione
sanitaria.
4.– Hanno presentato opinioni quali l’Osservatorio nazionale sull’identità amici curiae di genere
(ONIG), la Rete Lenford-Avvocatura per i diritti LGBTI+ e il Centro Studi “Rosario Livatino”, le prime due
associazioni di promozione dei diritti delle persone transgender, la terza ispirata ai valori e ai principi del
diritto naturale.
Le tre opinioni sono state ammesse con decreto presidenziale del 12 aprile 2024.
4.1.– L’ONIG cita letteratura scientifica e raccomandazioni sovranazionali orientate al riconoscimento
dell’identità di genere delle persone non binarie.
Quanto all’autorizzazione giudiziale ex art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, l’associazione
enfatizza il «primato della scienza sul diritto».
4.2.– La Rete Lenford illustra gli esiti di un’indagine nazionale condotta tra le persone non binarie, circa
la percezione negativa del binarismo di genere proprio dell’ordinamento italiano.
L’associazione deduce che la tutela antidiscriminatoria di queste persone non richiede necessariamente
l’introduzione di un «terzo genere» di stato civile, essendo sufficiente garantire la cancellazione
dell’attribuzione di un sesso nel quale l’individuo non si identifica.
L’opinione considera il regime autorizzatorio ex art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 gravemente
lesivo del diritto della persona all’autodeterminazione terapeutica, in quanto il vaglio del tribunale si
risolverebbe in una «superfetazione decisionale» sul corpo altrui.
4.3.– Per il Centro Studi “Rosario Livatino”, l’accoglimento delle questioni sollevate dal Tribunale di
Bolzano sovvertirebbe il bilanciamento legislativo tra il diritto all’identità delle persone con disforia di
genere e l’interesse pubblico all’attribuzione del sesso su base biologica: «[a]i fini della rettificazione
anagrafica sarebbe di fatto decisivo il solo dato puramente soggettivo della percezione di sé come persona
neutra».
D’altronde, non esisterebbe un’obbligazione positiva di fonte convenzionale quanto all’impostazione
non binaria dei registri di stato civile (si menziona Corte EDU, sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro
Francia).
Infine, la previsione dell’autorizzazione giudiziale al trattamento chirurgico di modificazione dei
caratteri sessuali sarebbe ragionevole perché diretta a «tutelare il soggetto interessato, il quale, trovandosi in
una situazione di particolare fragilità esistenziale proprio a causa della patologia dalla quale è affetto,
potrebbe assumere decisioni estremamente gravi ed irreversibili senza la necessaria consapevolezza ed
informazione che possono darsi solo in un rapporto autentico di cura».
4.4.– Una quarta opinione è stata presentata fuori termine da Transgender Europe (TGEU) e dal ramo
europeo della International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (ILGA-Europe).
5.– In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della parte ha depositato memoria, insistendo per
l’accoglimento di tutte le sollevate questioni.
5.1.– Riguardo al binarismo di genere, premesso che «[l]a comunità scientifica internazionale […] ha
accertato l’esistenza delle identità non binarie», la parte assume che le relative questioni di legittimità
costituzionale siano «a rime obbligate»: «considerato l’attuale assetto dello stato civile», infatti, si
tratterebbe di ammettere che la persona non sia attribuita né al sesso maschile, né al femminile, dovendosi
viceversa accogliere la «soluzione “altro” o “diverso” già adottata in altri ordinamenti».
La parte ritiene che la citata sentenza della Corte EDU, Y. contro Francia, la quale ha negato l’esistenza
di un’obbligazione statale di registrazione alternativa, non abbia carattere ostativo, trattandosi di un ambito
giuridico «in forte evoluzione», nel quale «proprio in questi anni si registra l’emergere di un consenso»
orientato alla tutela delle persone non binarie.
5.2.– Circa la previsione dell’autorizzazione giudiziale per l’intervento chirurgico di adeguamento dei
caratteri sessuali, la memoria ne assume l’irragionevolezza e l’obsolescenza.
Essa non potrebbe essere accostata alla prescrizione legale del vaglio giudiziario per la donazione di
rene tra viventi, giacché, a differenza della persona transessuale, «il donatore non tutela la propria salute e
non è un paziente nel momento in cui l’autorizzazione è data».
Mentre comprimerebbe il diritto individuale all’autodeterminazione terapeutica, il censurato regime
autorizzatorio risulterebbe ormai privo di qualunque giustificazione, specie alla luce della legge n. 219 del
2017 sul consenso informato e della sentenza di questa Corte n. 242 del 2019, con le quali persino «[l]a
dignità del fine vita è stata garantita senza la necessaria intermediazione dell’autorità giudiziaria».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bolzano ha sollevato due serie di questioni di
legittimità costituzionale, tra loro indipendenti.
Innanzitutto, è censurato l’art. 1 della legge n. 164 del 1982, poiché violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nella parte in cui non prevede che quello
assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso possa essere un «altro sesso», diverso
dal maschile e dal femminile.
È altresì censurato l’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, che violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost.,
nella parte in cui subordina all’autorizzazione del tribunale la realizzazione del trattamento
medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, eventualmente necessario ai fini della
rettificazione.
1.1.– Il giudice riferisce di essere stato adito da una persona di sesso anagrafico a quo femminile, che,
non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, bensì in un genere non binario, si è rivolta alle
strutture sanitarie pubbliche, dalle quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per
identificazione non binaria, con inclinazione al polo maschile.
Al Tribunale di Bolzano la persona ha chiesto la rettificazione di attribuzione del sesso da femminile ad
“altro”, il cambiamento del prenome (dal femminile L. al maschile I.) e il riconoscimento del diritto di
sottoporsi ad ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (principalmente, una mastectomia).
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente assume che quelle relative all’art. 1 della legge
n. 164 del 1982 non possano essere superate in via interpretativa, poiché, «[s]ebbene tale disposizione non
faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in termini strettamente binari»,
dovrebbe ritenersi «che l’ordinamento dello stato civile vigente sia informato implicitamente sulla
bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che pertanto non sia configurabile una rettificazione
anagrafica con attribuzione di un genere terzo».
Dal canto loro, le questioni riferite all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbero rilevanti
poiché, ove esse fossero accolte, l’interessato potrebbe accedere agli interventi medico-chirurgici di
adeguamento dei caratteri sessuali su base esclusivamente sanitaria e, dunque, il procedimento giudiziale si
chiuderebbe in parte qua «con una sentenza in rito di difetto assoluto di giurisdizione».
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente assume che l’impossibilità di attribuire in
rettificazione il genere non binario leda l’identità sociale della persona, la sua salute come benessere
psicofisico e il rispetto della sua vita privata e familiare; sarebbe inoltre violato il principio di uguaglianza,
poiché la rettificazione sarebbe consentita solo ai portatori di un’identità binaria, con immotivata esclusione
di coloro che viceversa sentano di appartenere a un genere non binario.
Per altro verso, il regime autorizzatorio del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri
sessuali, prescrivendo un vaglio giudiziale su una scelta terapeutica di un adulto, ne comprimerebbe
ingiustificatamente i diritti all’autodeterminazione e alla salute, discriminandolo rispetto a chi debba
sottoporsi a un intervento chirurgico parimenti irreversibile ma ad un fine diverso da quello dell’attribuzione
di sesso.
2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o non fondate.
2.1.– L’inammissibilità delle questioni sul binarismo di genere è eccepita in ragione della creatività del
petitum, ad esse peraltro imputandosi di dare per scontata l’esistenza di un sesso diverso dal maschile e
femminile, di sovrapporre i pur distinti concetti di transessualità e intersessualità, nonché di lasciare
immotivato il riferimento al parametro convenzionale.
La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile per difetto di
rilevanza, non risultando che vi sia stato nella specie un diniego di autorizzazione all’intervento chirurgico.
2.2.– Nel merito – secondo l’Avvocatura generale – tutte le questioni sarebbero non fondate.
L’identità di genere, «per sua natura mutevole», non si presterebbe a formare oggetto delle attestazioni
di stato civile, che quindi ragionevolmente il legislatore baserebbe sull’identità sessuale, quale dato
provvisto di stabilità.
D’altro canto, il peculiare impatto sociale della rettificazione anagrafica di sesso giustificherebbe la
prescrizione dell’autorizzazione giudiziale circa l’appropriatezza dell’intervento chirurgico, fermo che, alla
luce dell’art. 6 della legge n. 164 del 1982, l’interessato potrebbe pur sempre «operarsi con costi a proprio
carico anche al di fuori del sistema sanitario nazionale, se ha urgenza tale da non poter attendere il vaglio
giudiziario richiesto dall’ordinamento».
3.– Costituitasi in giudizio, la parte ha aderito agli argomenti del rimettente, peraltro evocando, quanto
alla censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, parametri ulteriori (artt. 13, primo comma, 97,
secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU, 3 e 4 della direttiva
2004/113/CE).
4.– Come anticipato, le due serie di questioni proposte dal Tribunale di Bolzano sono autonome l’una
dall’altra.
Invero, la prima concerne la dimensione – relativamente nuova per il diritto – della rivendicazione di
un’identità di genere non binaria, mentre la seconda rileva anche per la condizione, ormai ben nota
all’ordinamento, della persona che transiti dal genere femminile al maschile, o viceversa.
È opportuno premettere all’esame di entrambi i gruppi di censure una sintetica ricostruzione del quadro
normativo e giurisprudenziale, come evoluto in materia.
4.1.– La legge n. 164 del 1982 è stata emanata per affrontare la problematica della transessualità, vale a
dire il disallineamento e la ricomposizione tra il sesso biologico, attribuito alla nascita su base
morfologico-genotipica, e l’identità sessuale, percepita dall’individuo nello sviluppo della sua personalità
(l’art. 2 della legge, poi abrogato, parlava, al quarto comma, di «condizioni psico-sessuali»).
Le questioni non riguardano dunque il tema – contiguo, ma diverso – dell’intersessualità, la quale
concerne le ipotesi in cui, per ermafroditismo o alterazioni cromosomiche, lo stesso sesso biologico risulti
incerto alla nascita.
Allo scopo di permettere il riallineamento tra le condizioni somatiche e quelle
psicologico-comportamentali, l’art. 1 della legge n. 164 del 1982 ha consentito la rettificazione di stato
civile «in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da
quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
4.2.– Nella sentenza n. 161 del 1985, questa Corte ha sottolineato come la legge allora da poco varata si
collocasse «nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità,
della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie».
La stessa sentenza ha rimarcato che l’allineamento somatico all’identità sessuale è funzionale a
ripristinare lo stato di benessere della persona e che è dovere di solidarietà per gli altri membri della
collettività riconoscere l’identità oggetto di transizione, senza che quest’ultima possa essere considerata
fattore di perturbamento dei rapporti sociali e giuridici, atteso che «il far coincidere l’identificazione
anagrafica del sesso alle apparenze esterne del soggetto interessato o, se si vuole, al suo orientamento
psicologico e comportamentale, favorisce anche la chiarezza dei rapporti sociali e, così, la certezza dei
rapporti giuridici».
4.3.– Con la sentenza n. 221 del 2015, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sul requisito normativo
delle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali», quale condizione della pronuncia di
rettificazione, ha escluso che le stesse includano necessariamente un trattamento chirurgico, in quanto le
modalità dell’adeguamento dei caratteri sessuali devono adattarsi all’«irriducibile varietà delle singole
situazioni soggettive».
«L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica» –
si è precisato – «appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali
– rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di
altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici,
comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere».
Posto che quest’ultima è «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo
nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)», il trattamento
chirurgico è stato quindi riconfigurato «non quale prerequisito per accedere al procedimento di
rettificazione», bensì «come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere
psicofisico».
4.4.– Successivamente, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, sebbene «l’interpretazione
costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento
chirurgico di normoconformazione», «ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un
accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva
transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che
corrobora e rafforza l’intento così manifestato», sicché «va escluso che il solo elemento volontaristico possa
rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione» (sentenza n. 180 del 2017;
poi, nel medesimo senso, ordinanza n. 185 del 2017).
4.5.– L’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011 è intervenuto sugli aspetti procedurali della legge n. 164 del
1982.
I primi tre commi della norma stabiliscono che le controversie in materia di rettificazione di attribuzione
di sesso, ove non diversamente disposto, sono regolate dal rito ordinario di cognizione (comma 1); la
competenza spetta al tribunale, in composizione collegiale, del luogo di residenza dell’attore (comma 2);
l’atto di citazione è notificato al coniuge e ai figli dell’attore e al giudizio partecipa il pubblico ministero
(comma 3).
Il comma 4 dell’art. 31 – qui oggetto di censura – dispone che «[q]uando risulta necessario un
adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo
autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3».
Si tratta di un adattamento processuale di quanto già prevedeva l’art. 3 della legge n. 164 del 1982
(contestualmente abrogato dall’art. 34, comma 39, lettera , dello stesso d.lgs. n. 150 c del 2011), il quale
infatti stabiliva che «[i]l tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da
realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza» (primo comma) e che «[i]n tal
caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di
consiglio» (secondo comma).
Nel passaggio dalla legge n. 164 del 1982 al d.lgs. n. 150 del 2011 non è, quindi, mutata la struttura
unitaria ed eventualmente bifasica del procedimento di rettificazione e, anzi, pur nell’ambito di una
legislazione delegata alla semplificazione dei riti, quella struttura è stata assoggettata al modello del giudizio
ordinario di cognizione, in luogo della precedente forma camerale.
Un ritorno a forme procedimentali più snelle deriverebbe dall’attrazione delle controversie di
rettificazione nell’ambito di applicazione del rito unificato in materia di persone, minorenni e famiglie,
attrazione delineatasi nel quadro dell’elaborazione delle disposizioni integrative e correttive al decreto
legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al
Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione
alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti
delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata).
5.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982
sono inammissibili.
Pur evidenziando un problema di tono costituzionale, esse, per le ricadute sistematiche che implicano,
eccedono il perimetro del sindacato di questa Corte.
5.1.– La diagnosi rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica in funzione del giudizio a quo conferma
nella specie la realtà clinica dell’identificazione non binaria e invero essa, come trascritta nell’ordinanza di
rimessione, sottolinea che «[i] termini disforia di genere (DSM-5) e incongruenza di genere (ICD-11)
includono sia le denominazioni di genere binarie (maschile/femminile) sia tutte le altre forme di definizione
di genere (riassunte nel termine non-binario)».
Per il DSM-5 (quinta revisione del «Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders»), la
disforia di genere, oltre che al maschile e al femminile, può attenere a «some alternative gender»; lo stesso
per l’incongruenza di genere, classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)
nell’ICD-11 (undicesima revisione dell’«International Classification of Diseases»).
5.2.– Non pochi ordinamenti europei – da ultimo quello tedesco, con la recente legge
sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso («Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug
auf den Geschlechtseintrag SBGG») – hanno riconosciuto e disciplinato l’identità non binaria, seppure in
forme diversificate.
La Corte costituzionale belga ha censurato la delimitazione binaria della disciplina legislativa della
transizione di genere, stigmatizzando l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al
sesso maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n° 99/2019 del
19 giugno 2019).
Lo stesso diritto dell’Unione europea da tempo va evolvendo in tal senso, e infatti, per favorire la
circolazione dei documenti pubblici tra gli Stati membri, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i
requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il
regolamento (UE) n. 1024/2012, presenta moduli standard recanti alla voce «sesso» non due diciture, ma tre,
«femminile», «maschile» e «indeterminato».
5.3.– Le indicazioni che provengono dagli ordinamenti degli Stati europei e dalle Corti sovranazionali
non sono tuttavia univoche.
Mentre è ormai ferma nell’accordare tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario (fin
dalla sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, Christine Goodwin contro Regno unito), la Corte EDU
ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non
binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio
2023, Y. contro Francia).
In senso analogo si era già espressa la Corte suprema del Regno unito, a proposito dell’identificazione
non binaria tramite marcatore “X” sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).
5.4.– La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da
cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio
significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2
Cost.).
Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della
persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della
salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.
In vari ambiti della comunità nazionale si manifesta una sempre più avvertita sensibilità nei confronti di
questa realtà pur minoritaria, come dimostra, tra l’altro, la pratica delle “carriere alias”, tramite le quali
diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai
fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito.
Tali considerazioni, unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la
condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale.
5.5.– D’altronde, l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale,
che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i
numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria.
Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia
(così per il matrimonio e l’unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello
stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per
la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i “luoghi di contatto”, quali carceri,
ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile).
L’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a
norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), dopo aver sancito il principio della parità di
trattamento e di opportunità «tra donne e uomini», da assicurare in tutti i campi (comma 2), precisa che esso
non osta al mantenimento o all’adozione di misure in favore del «sesso sottorappresentato» (comma 3).
La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto
per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona.
Infatti, l’art. 35, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe
superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell’onomastica
italiana i nomi ambigenere sono rarissimi (lo conferma proprio il caso di specie, nel quale la persona chiede
il riconoscimento dell’identità non binaria e vuole pertanto abbandonare il nome femminile imposto alla
nascita, e tuttavia opta, in sostituzione, per un nome maschile).
5.6.– Tutto ciò considerato, in accoglimento della pertinente eccezione della difesa statale, le questioni
di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164
del 1982 vanno dichiarate inammissibili.
6.– La censura dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 è invece fondata, nei limiti di cui
appresso.
6.1.– All’esame di merito di tali ulteriori questioni non ostano ragioni di inammissibilità.
6.1.1.– L’eccezione di difetto di rilevanza sollevata al riguardo dalla difesa statale è priva di
fondamento.
Invero, la deduzione dell’Avvocatura per cui «è la stessa parte ricorrente ad aver applicato la norma in
questione nel promuovere il giudizio da cui è scaturito l’incidente di costituzionalità, rivolgendosi al giudice
prima che al medico», non è pertinente, in quanto è proprio la disposizione oggetto di censura, nella
formulazione vigente, a prescrivere tale sequenza.
6.1.2.– Neppure è persuasivo l’argomento della facoltatività dell’autorizzazione giudiziale all’intervento
chirurgico, speso dall’Avvocatura generale nella trattazione di merito e che tuttavia – ove fosse fondato –
inciderebbe proprio sulla rilevanza delle questioni.
Per sostenere tale argomento la difesa statale richiama l’art. 6 della legge n. 164 del 1982, che tuttavia
riguarda una fattispecie di diritto transitorio, i cui effetti sono ormai da tempo esauriti (la disposizione fissa
un termine annuale per la domanda di rettificazione «[n]el caso che alla data di entrata in vigore della
presente legge l’attore si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso»).
Verosimilmente, l’Avvocatura intende piuttosto riferirsi all’orientamento della giurisprudenza di
legittimità secondo il quale la persona transessuale che si sia sottoposta all’intervento chirurgico di
adeguamento dei caratteri sessuali senza l’autorizzazione giudiziale non per questo perde il diritto alla
rettificazione anagrafica (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 14 dicembre 2017, n. 30125).
È evidente tuttavia che trattasi di due piani differenti, giacché le conseguenze dell’eventuale mancata
autorizzazione non possono riflettersi sulla relativa prescrizione, che è tuttora nella legge.
6.1.3.– Occorre interrogarsi d’ufficio riguardo all’incidenza che sulla rilevanza delle questioni ora in
scrutinio potrebbe spiegare la constatata inammissibilità di quelle relative al binarismo di genere.
Neppure questo profilo si rivela però ostativo all’esame di merito della censura dell’art. 31, comma 4,
del d.lgs. n. 150 del 2011, poiché, a conferma della più volte segnalata autonomia delle due serie di
questioni, l’attore del giudizio chiede di sottoporsi a interventi chirurgici di adeguamento a quo in senso
gino-androide, funzionali ad una transizione che, non potendo essere allo stato non binaria, sarà dal genere
femminile al maschile.
6.1.4.– Le questioni relative all’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 devono essere, pertanto,
vagliate nel merito.
I parametri sono unicamente quelli evocati dal rimettente – artt. 2, 3 e 32 Cost. –, non potendosi
considerare gli ulteriori dedotti dalla parte costituita, la quale, per giurisprudenza costante di questa Corte,
non ha il potere di ampliare il thema decidendum del giudizio incidentale di legittimità costituzionale (tra
molte, sentenze n. 112 e n. 50 del 2024, n. 215, n. 184 e n. 161 del 2023).
6.2.– La previsione dell’autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento
dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla legge n. 164 del 1982 nel momento in cui
l’ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell’attribuzione di sesso.
Pur non avendo eguali nel panorama comparatistico, che evidenzia semmai una progressiva
focalizzazione sull’autodeterminazione individuale, e pur non essendo priva di tratti paternalistici, rispetto a
persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi, questa prescrizione normativa non può dirsi in sé
manifestamente irragionevole, e quindi esorbitante dalla sfera della discrezionalità legislativa, considerata
l’entità e la irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici.
6.2.1.– Il regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina
con l’incidenza sul quadro normativo della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20
luglio 2015, n. 15138, e successivamente della sentenza di questa Corte n. 221 del 2015.
Come più sopra ricordato, tale evoluzione giurisprudenziale ha escluso che le modificazioni dei caratteri
sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un
trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un «possibile mezzo, funzionale al
conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (sentenza n. 221 del 2015).
La sentenza n. 180 del 2017 ha quindi ribadito – come già visto – che agli effetti della rettificazione è
necessario e sufficiente l’accertamento dell’«intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa
nel percorso seguito dalla persona interessata».
Potendo questo percorso compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno
psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, la prescrizione
indistinta dell’autorizzazione giudiziale denuncia una palese irragionevolezza: in tal caso, infatti, un
eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione.
6.2.2.– Tale mutato quadro normativo e giurisprudenziale, in cui l’autorizzazione prevista dalla
disposizione oggi censurata mostra di aver perduto ogni ragion d’essere al cospetto di un percorso di
transizione già sufficientemente avanzato, è alla base dell’orientamento diffusosi presso la giurisprudenza di
merito, che sovente autorizza l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non
prima e in funzione della rettificazione stessa (tra molte, da ultimo, Tribunale ordinario di Padova, sezione
prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, sentenza 27
marzo 2024).
6.2.3.– Nella fattispecie concreta di cui al giudizio principale si verte appunto in un caso di questo tipo,
poiché l’ordinanza di rimessione sottolinea come l’attore per rettificazione abbia «sufficientemente
dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici
effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione».
Anche in tal caso, quindi, pur potendo seguire la pronuncia della sentenza di rettificazione, in funzione
di un maggior benessere psicofisico della persona, l’intervento chirurgico di adeguamento dei residui
caratteri del sesso anagrafico non è necessario alla pronuncia medesima, sicché la prescritta autorizzazione
giudiziale non corrisponde più alla ratio legis.
6.2.4.– Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n.
150 del 2011 – per irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui prescrive l’autorizzazione
del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già
intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione
di attribuzione di sesso.
Restano assorbite le altre censure.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011,
n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte
in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le
modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per
l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982,
n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32
e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione seconda civile, in composizione collegiale, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28
dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell’art. 29 delle
Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.

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SVOLTA DELLA COMPOSIZIONE NEGOZIATA: maggiore impulso con il correttivo della crisi

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Il recente decreto correttivo al Codice della crisi d’impresa, approvato lunedì dal Consiglio dei Ministri, mira a dare maggiore impulso alla composizione negoziata come strumento per facilitare una gestione soft della crisi d’impresa. L’intervento del decreto si estende su diversi fronti.

In primo luogo, per quanto riguarda le condizioni di accesso, il decreto chiarisce che la composizione negoziata è accessibile non solo quando l’impresa è in crisi o insolvente, ma anche, diversamente dagli altri strumenti di regolazione della crisi, quando si trova semplicemente in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario.

Un punto cruciale del decreto è il miglioramento delle trattative con gli istituti di credito. A un richiamo generico alla partecipazione attiva e informata degli istituti si affianca una soluzione più specifica: il flusso di credito verso l’impresa. L’obiettivo è bilanciare la necessità dell’impresa di continuare a disporre di liquidità con l’esigenza degli istituti di credito di non subire danni patrimoniali a causa dell’obbligo di continuare a erogare finanziamenti.

Il Ministero della Giustizia ha osservato che spesso l’accesso alla composizione negoziata porta gli istituti di credito a sospendere o interrompere le linee di credito, invocando la disciplina prudenziale, con il rischio di compromettere il processo di risanamento dell’impresa. Per affrontare queste criticità, il decreto precisa il rapporto tra accesso alle trattative e normativa prudenziale bancaria, stabilendo che l’accesso alla composizione negoziata non comporta automaticamente una diversa classificazione del credito.

In questo modo, si enfatizza la necessità che gli istituti bancari valutino caso per caso se l’impresa che apre le trattative si trovi effettivamente in una situazione di difficoltà tale da giustificare l’applicazione della normativa prudenziale, considerando le condizioni dell’impresa e il progetto di piano presentato, nonché le concrete prospettive di risanamento.

Inoltre, la composizione negoziata è uno strumento utilizzabile anche in una situazione di pre-crisi, come evidenziato dalla precisazione sulle condizioni di accesso, e solo nei casi in cui sia possibile il pieno recupero dell’equilibrio economico-patrimoniale dell’attività imprenditoriale.

Infine, il decreto introduce una previsione secondo cui la prosecuzione dei rapporti non è causa di responsabilità per gli istituti bancari, proteggendoli da possibili future azioni di abusiva concessione del credito. Questo dovrebbe indirettamente incoraggiare la concessione di liquidità all’impresa.

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“APPREZZAMENTO PROVE TESTIMONIALI RISERVATO AL GIUDICE” – Cass. Sent. n. 19519/2024

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COMMENTO

.La sentenza della Cassazione n. 19519 del 2024 riafferma che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come pure la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, rientrano negli apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito. Il giudice, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, ha come unico limite quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive. Si devono infatti ritenere implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

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“MOTIVAZIONE APPARENTE” – SENTENZA CASSAZIONE N. 19305/2024:

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Afferma la sussistenza della “MOTIVAZIONE APPARENTE”

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COMMENTO

L’ordinanza afferma che si ha una “motivazione apparente” quando, nonostante la motivazione sia presente graficamente e materialmente nel documento che costituisce il provvedimento giudiziale, non riesce a rendere comprensibili le ragioni della decisione. Questo accade perché le argomentazioni riportate sono obiettivamente incapaci di chiarire il percorso logico seguito per giungere alla conclusione. In tal modo, la motivazione non permette alcun effettivo controllo sulla correttezza e sulla coerenza del ragionamento del giudice, poiché non si può lasciare all’interprete il compito di integrare la motivazione con congetture varie e ipotetiche.

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SENTENZA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:
Oggetto:
TRIBUTI ALTRI Ud.23/05/2024 C
ANDREINA GIUDICEPIETRO GIAN PAOLO MACAGNO
PAOLO DI MARZIO
MARCELLO MARIA FRACANZANI FEDERICO LUME
Presidente
Consigliere-Rel. Consigliere Consigliere Consigliere
ha pronunciato la seguente ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28607/2017 R.G. proposto da: elettivamente domiciliata in ROMA
presso lo studio dell’avvocato
chel orappresentae difendeunitamente
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE domiciliata ex lege in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso lA’ VVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende
e contro EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA
-resistente-
-intimata-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LAZIO n. 2596/2017 depositata li 10/05/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/05/2024 dal Consigliere Gian Paolo Macagno.
1.
FATTI DI CAUSA
ricorre, con due motivi, avverso al
sentenza della CTR del Lazio di cui in epigrafe, che, ni accoglimento dell’appello erariale, ha rigettato li ricorsop r o p o s t o dalla

Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48
Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024 Numero di raccolta generale 1930512024 contribuente avverso al cartella di pagamento notificatale pal pubblazione 12/07/2024
2006, e di cui aveva lamentato l’illegittimità per difetto di notifica del presupposto avviso di accertamento.

  1. L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione per l’eventuale discussione in udienza pubblica e l’Agenzia delle entrate – Riscossione è rimasta intimata.
    RAGIONI DELLA DECISIONE
  2. Con il primo motivo di ricorso la contribuente lamenta il
    vizio di motivazione della sentenza impugnata, per errata
    valutazione delle istanze istruttorie.
    La censura, pur
    non richiamando espressamente il riferimento normativo, deve ritenersi formulata in relazione al vizio di cui all’art. 360, n. 4 cod. proc. civ.
    1.1. Lamenta in particolare la ricorrente che i giudici di
    appello non abbiano preso in considerazione le difese della
    contribuente e, che, ni particolare, non abbiano dato conto: i) della incompletezza della relata di notificazione dell’avviso di accertamento, per essere la stessa carente del numero della
    raccomandata informativa inviata; ii) del fatto che, in pari data, siano stati notificati alla contribuente tre diversi avvisi di
    accertamento; iii) del fatto che, conseguentemente, la raccomandata prodotta in giudizio dall’Amministrazione non fosse riferibile con certezza all’atto in contestazione.
  3. Il motivo è fondato.
    La violazione denunciata si configura quando la motivazione
    «manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue
    l’enunciazione della decisione
    senza alcuna argomentazione –
    ovvero … essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente
    contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Tale anomalia si
    esaurisce nella “mancanza assoluta di 2 di 5
    motivi sotto l’aspetto Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024
    materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, Numero pi raccolta geperale 19305/2024 , nel contrasto
    Jata pubblicazione 12/0/12024
    irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
    perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione,
    sempre che li vizio emerga immediatamente e direttamente dal
    testo della sentenza impugnata» (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n.
    8053; successivamente tra le tante Cass. 01/03/2022, n. 6626; Cass. 25/09/2018, n. 22598).
    2.1. In particolare, si è in presenza di una «motivazione apparente» allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicita del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete li compito di integrarla con le più varie ed ipotetiche congetture. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella «perplessa e incomprensibile»; in entrambi i casi, invero – e purché li vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error ni procedendo e, ni quanto tale, comporta al nullità della sentenza impugnata per cassazione (Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. 22232 e le sentenze ivi citate).
    2.2. Occorre ancora premettere che la parte rimasta totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre
    appello incidentale per chiedere il riesame delle domande e delle eccezioni respinte, ritenute assorbite o comunque non esaminate con la sentenza impugnata dalla parte soccombente, essendo sufficiente la riproposizione di tali domande od eccezioni in una
    3 di 5
    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48 Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024
    delle difese del giudizio di secondo grado (cfr. Cass. 10966/200478 15012024 Data pubblicazione 12/07/2024
    Cass. 9606/2004; Cass. 14085/2014)
    2.3. Si rileva inoltre che la ricorrente, in ossequio al principio
    di autosufficienza ha riprodotto le articolate contestazioni in merito
    alla non riconducibilità della relata di notifica prodotta
    dall’Amministrazione all’avviso di accertamento, riproposti nelle
    controdeduzioni ni appello, e ha integralmente trascritto al relata di notifica di cui contesta l’attribuibilità all’avviso di accertamento
    controverso.
    2.4. La CTR ha accolto l’appello dell’ufficio argomentando che
    «Dalla documentazione versata in atti risulta che nel caso di specie l’amministrazione finanziaria ha provveduto alle relative
    incombenze con invio anche di questa ulteriore raccomandata di conferma dell’avvenuto deposito dell’atto notificato in data 06/12/2012. Tale raccomandata è risultata non ritirata dal
    destinatario e conseguentemente si considera notificata per
    compiuta giacenza. Quindi, l’assunto della decisione appellata secondo il quale nel caso di specie sarebbe stata incompleta il
    rituale la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento a fondamento della cartella di pagamento direttamente impugnata in primo grado risulta smentita in punto di fatto».
    2.5. Nel caso di specie, benché la motivazione della sentenza impugnata sia graficamente presente, di fatto essa si traduce nella formulazione di conclusioni meramente assertive, avendo al CTR omesso del tutto ogni motivazione in merito alle censure della ricorrente.
  4. In conclusione, assorbito li secondo motivo, li ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di
    giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nel rispetto dei principi sopra illustrati, nonché provveda alle spese del giudizio di
    legittimità.
    4 di 5
    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Serial#: 67e 9946e6eb55 48 Numero registro generale 28607/2017 Numero sezionale 2839/2024 Numero di raccolta generale 19305/2024 P.Q.M.
    Data pubblicazione 12/07/2024 La Corte accoglie li ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia
    alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché,
    ni diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
    Così deciso in Roma, il 23/05/2024.
    La Presidente
    Andreina Giudicepietro
    5 di 5
    Firmato Da: ISABELLA PANACCHIA Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1Seria #: 6f941cfb5657095 • Fimato Da: ANDREINA GIUDICEPIETRO Emesso Da

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LA CONTINUITÀ AZIENDALE PREVALE SULLA TUTELA DEI CREDITI FISCALI

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Correttivi al Dlgs 14/2019 

Il Consiglio dei ministri, svoltosi il 10 giugno 2024, ha approvato in prima lettura il decreto correttivo del Codice della Crisi, che sarà oggetto di esame da parte delle commissioni competenti, il quale affronta il problema che sussiste nel concordato preventivo in continuità aziendale tra la regola della priorità relativa e il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contrbutivi., ricolvendolo a favore della priorità relativa che sarà applicabile anche al fisco.

CAUSA DEL CONFLITTO

Dal secondo e terzo periodo del comma 1 dell’art. 88 del Codice della Crisi si evicne che i suddetti crediti non possono subire un trattamento peggiore di quello che sarebbe riservato a crediti omogenei o di rango inferiore e di conseguenza avviene una deroga alla regola della priorità relativa (ex art. 84, comma 6 – art. 112, comma 2, lettera b).

Pertanto, quando a causa di incapienza i crediti privilegiati di grado superiore a quelli fiscali o contributivi sono degradati per incapienza, il trattamento della quota chirografaria del creditore insoddisfatto a cui è oferrto il soddisfacimento più alto condiziona il trattamento di tutti gli altri crediti degradati, salvo quanto stabilito dalle disposizioni degli artt. 84 e 112, i quali stabiliscono che ai crediti degradati, compresi quelli fiscali, siano oggetto di un trattamento peggiore di quello riservato ai crediti privilegiati degradati di rango superiore.

Nello specifico, a titolo esemplificativo, si prenda il caso dei crediti privilegiati detenuti da Sace, INPS, Agenzia delle Entrate (ritenute e IVA) e Agenzia delle Dogane per i tributi (articolo 2783-ter c.c.), tutti declassati a chirografario per mancanza di capacità. :

Oppure in base agli articoli 84 e 112 il loro trattamento dovrebbe essere graduato per la quota chirografaria (ad esempio: 16% per Sace, 14% per l’INPS, 12% per l’Agenzia delle Entrate in relazione alle ritenute e, infine, 10% per l’Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane rispettivamente per IVA e dazi);

O in base all’articolo 88, comma 1, ultimo periodo, il credito verso l’Erario non potrebbe tuttavia ricevere un trattamento diverso rispetto a quello attribuito a tutti gli altri crediti chirografari (anche per degrado), con la conseguenza che Sace, Inps e le tasse dovrebbero essere trattate allo stesso modo (ad esempio con un pagamento del 14% o del 13%).

Il conflitto tra le predette norme potrebbe ritenersi superato attribuendo alle disposizioni dell’articolo 88 un effetto derogatorio rispetto a quelle previste dagli articoli 84 e 112 con riferimento al solo patto di continuità aziendale. Tuttavia, l’incipit dell’articolo 88, comma 1 (“Fermo salvo…”) può essere inteso come un richiamo alle norme sostanziali del patto di continuità aziendale e ciò lascia ritenere che il conflitto tra le predette disposizioni devono essere risolte rendendo prevalenti quelle che risultino in contrasto con l’articolo 88.

MODIFICA PREVISTA

Per la risoluzione di tale conflitto, il decreto correttivo introduce al comma 1 dell’articolo 88 una disposizione che, fatto comunque salvo il rispetto del comma 6 (e comma 7) dell’articolo 84, stabilisce la prevalenza della regola di priorità relativa rispetto a quella che vieta il trattamento inferiore dei crediti fiscali e previdenziali.

A tale conclusione si potrebbe infatti pervenire già sulla base della normativa vigente, con la conseguenza che è possibile delineare tre ipotesi:

1 – nel patto di continuità, le disposizioni dell’articolo 84, comma 6, e della lettera b) del comma 2 dell’articolo 112 prevalgono sul divieto di peggior trattamento dei crediti tributari e previdenziali stabilito dal comma 1 dell’articolo 88, in relazione a crediti tributari e contributivi agli enti assistiti da privilegio generale;

2 – la regola della priorità relativa dovrebbe essere in ogni caso limitata ai soli creditori che godono di privilegio generale mobiliare e, quindi, con riferimento ai debiti di impresa, ai crediti di lavoro (diversi da quelli di lavoro subordinato a termini dell’articolo 84, comma 7 del Codice della crisi) e a quelli contributivi e tributari, trovando essa applicazione soltanto nel concordato in continuità aziendale e in favore esclusivamente di quei crediti (di lavoro, contributivi e tributari) che nel concordato liquidatorio o nella liquidazione verrebbero equiparati ai creditori chirografari;

3 – l’ultimo periodo del predetto comma 1 si applica invece alla quota degradata di contribuzione e di crediti d’imposta assistiti da privilegio speciale.

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Corte Costituzionale|Sentenza|19 luglio 2024| n. 137

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Data udienza 3 luglio 2024

Ncc, la Consulta: incostituzionale il divieto di rilasciare nuove licenze |  Sky TG24

Trasporto pubblico – Servizio di noleggio con conducente (ncc) – Divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento del servizio fino alla piena operatività dell’archivio informatico pubblico nazionale delle imprese di cui al c. 3 dell’art. 10 – Bis del decreto – Legge n. 135 del 2018, come convertito. – Questione di legittimità costituzionale: art. 10 bis, c. 6°, del decreto – Legge 14/12/2018, n. 135, convertito, con modificazioni, in legge 11/02/2019, n. 12. – Illegittimità costituzionale.

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SPIEGAZIONE


Il grave disagio che l’attuale sistema di regole di matrice protezionistica, che determina per molti cittadini e che limita la libera concorrenza, nonchè la crescita economica, è la ragione principale che ha indotto la Consulta a emettere questo pronuncia.

La posizione di privilegio degli operatori del settore trasporti, nascente dal generale blocco di assegnazione delle licenze per nuovi candidati al servizio di noleggio con conducente, ha penalizzato la domanda degli utenti che si è dimostrata molto maggiore dell’offerta del servizio taxi, peraltro causando un grave pregiudizio all’interesse dell’intera cittadinanza.

Il giudizio trae origine dalla decisone prese dalla Regione Calabria, che prendendo atto delle gravi penalizzazioni subite dal truirsmo a causa di carenza di un servizio di trasporto taxi nelle stazioni ferroviarie e presso gli aeroporti, non aveva rispettato il blocco nazionale, concedendo nuove licenze NCC.

All’impugnazione promossa dal Governo riguardo a questa decisione della Regione Calabria la Corte costituzionale ha risposto sacendone la bocciatura.

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LA SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis, comma 6, del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12, promosso dalla Corte costituzionale con ordinanza del 7 marzo 2024, iscritta al n. 49 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti gli atti di costituzione della Regione Calabria e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2024 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Domenico Gullo per la Regione Calabria e l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 3 luglio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 23 giugno 2023 e depositato il 27 giugno 2023 (reg. ric. n. 20 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Calabria 20 aprile 2023, n. 16, recante «Autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente (NCC)».

2.– Nel corso del giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 35 del 2024 (iscritta al n. 49 reg. ord. 2024), ha sollevato, disponendone la trattazione innanzi a sé, questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 41, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), dell’art. 10-bis, comma 6, del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12.

La suddetta disposizione prevede che: «[a] decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla piena operatività dell’archivio informatico pubblico nazionale delle imprese di cui al comma 3, non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento del servizio di noleggio con conducente con autovettura, motocarrozzetta e natante».

2.1.– Questa Corte ha premesso che nel giudizio principale la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione alla materia «tutela della concorrenza», è stata prospettata dal ricorrente in quanto la disposizione regionale impugnata – prevedendo il rilascio di duecento autorizzazioni ai fini dello svolgimento del servizio di noleggio con conducente (da ora, anche: NCC) e individuando direttamente il loro destinatario – confliggerebbe, da un lato, con gli artt. 5, comma 1, e 8, comma 1, della legge 15 gennaio 1992, n. 21 (Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea).

Dall’altro, con l’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, che preclude la concessione di nuove autorizzazioni allo svolgimento dell’attività di NCC fino alla «piena operatività» del menzionato registro informatico.

Questa Corte ha quindi invertito l’ordine dei profili di censura, dal momento che i citati artt. 5, comma 1, e 8, comma 1, disciplinando le modalità di affidamento delle autorizzazioni, si pongono a valle del divieto di rilascio delle medesime posto dall’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, per cui l’esame della doglianza inerente al contrasto con quest’ultima disposizione risulta logicamente preliminare.

Di qui la rilevanza delle questioni rimesse dinanzi a sé, atteso l’«evidente rapporto di necessaria pregiudizialità […] tra la questione promossa dal ricorrente in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e quelle derivanti dai dubbi di legittimità costituzionale che suscita la disciplina recata dall’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito».

2.2.– In punto di non manifesta infondatezza, l’ordinanza di rimessione ha rilevato che il comma 3 del medesimo art. 10-bis prevede l’istituzione di «un registro informatico pubblico nazionale delle imprese titolari di licenza per il servizio taxi […] e di quelle di autorizzazione per il servizio» di NCC, demandando poi a un decreto «del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» l’individuazione delle «specifiche tecniche di attuazione e [del]le modalità con le quali le predette imprese dovranno registrarsi».

Tuttavia, l’efficacia di tale decreto ministeriale, che è stato adottato il 19 febbraio 2020 e ha stabilito anche la piena operatività del registro informatico a decorrere dal 2 marzo 2020 (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, decreto del Capo dipartimento per i trasporti, la navigazione, gli affari generali ed il personale, del 19 febbraio 2020, n. 4), è stata, il giorno seguente, sospesa e differita (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, decreto del Capo dipartimento per i trasporti, la navigazione, gli affari generali ed il personale, del 20 febbraio 2020, n. 86) sino all’adozione dell’ulteriore decreto previsto dal comma 2 dello stesso art. 10-bis, diretto alla determinazione delle specifiche tecniche del foglio di servizio in formato elettronico, che non è stato più emanato.

L’ordinanza di rimessione ha quindi ricordato che questa Corte ha escluso, con la sentenza n. 56 del 2020, che il divieto stabilito dalla disposizione censurata comportasse «un’irragionevole restrizione della concorrenza a vantaggio dei titolari di licenze per taxi, per le quali il divieto temporaneo di rilascio non opera», ma ciò «solo nella misura in cui “il numero delle imprese operanti nel settore” veniva bloccato “per il tempo tecnico strettamente necessario ad adottare in concreto il nuovo registro”».

Questo «tempo tecnico» – ha poi precisato l’ordinanza – si sarebbe, tuttavia, potuto «protrarre in modo del tutto ingiustificato» in conseguenza «della modalità con cui il suddetto art. 10-bis, comma 6, ha stabilito il divieto di cui si discute».

Sarebbero, infatti, la «“stessa struttura” (sentenza n. 132 del 2018) del “meccanismo normativo” previsto dalla disposizione in oggetto e [la] “sua combinazione” (sentenza n. 166 del 2022) con le previste modalità dirette a dare “piena operatività [a]ll’archivio informatico pubblico nazionale”» a consentire «la possibilità di bloccare per un tempo indefinito il rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento del servizio di NCC».

Ciò che, ha rilevato questa Corte, si è difatti verificato in virtù della perdurante inoperatività, dopo più di cinque anni dall’entrata in vigore del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, del registro informatico nazionale.

Tanto chiarito, questa Corte, in primo luogo, ha dubitato della conformità dell’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, all’art. 3 Cost., in riferimento ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, sia con riguardo alla sua intrinseca razionalità, alla luce di «un “apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la ‘causa’ normativa che la deve assistere”», sia in relazione alla «esistenza di una connessione razionale tra il mezzo predisposto dal legislatore e il fine che questi intende perseguire».

In secondo luogo, ha dubitato della sua conformità all’art. 41, primo e secondo comma, Cost.

La disposizione sospettata, infatti, «per come strutturata», potrebbe dar luogo a «blocchi o sospensioni delle autorizzazioni funzionali all’esercizio di attività economiche» suscettibili di «tradursi in “una indebita barriera all’ingresso nel mercato”, ponendosi “in contrasto, altresì, con la libertà formale di accesso al mercato garantita dal primo comma dell’art. 41 Cost.” (sentenza n. 7 del 2021)».

Inoltre, il divieto da essa recato non sarebbe nemmeno «riconducibile a un motivo di utilità sociale o a un interesse della collettività, apparendo piuttosto rispondere a un’istanza protezionistica», peraltro riferita al mercato del trasporto pubblico non di linea, già caratterizzato da una inadeguata apertura all’ingresso di nuovi soggetti.

Ha, infine, dubitato della conformità della disposizione censurata all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49 TFUE, poiché, proprio in riferimento allo specifico settore del trasporto di persone mediante il servizio di NCC, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, sezione prima, 8 giugno 2023, in causa C-50/21, Prestige and Limousine SL, ha precisato che restrizioni alla libertà di stabilimento possono essere ammesse solo a condizione, «in primo luogo, di essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e, in secondo luogo, di rispettare il principio di proporzionalità, il che implica che esse siano idonee a garantire, in modo coerente e sistematico, la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non eccedano quanto necessario per conseguirlo».

2.3.– Di conseguenza, questa Corte ha disposto la sospensione del giudizio promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso iscritto al n. 20 reg. ric. 2023.

3.– Nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 49 reg. ord. 2024, si è costituita la Regione Calabria, nella persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, che, dopo aver riepilogato le questioni di legittimità costituzionale sollevate da questa Corte, ne ha chiesto l’accoglimento.

4.– Si è costituito in giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale.

4.1.– In ordine alle censure di violazione degli artt. 3 e 41, primo e secondo comma, Cost., la difesa statale osserva che l’istituzione del registro informatico sarebbe funzionale ad avere «un quadro chiaro degli assetti» del mercato del NCC, in modo da consentirne una «efficiente regolazione». Si tratterebbe, in altre parole, di uno strumento preordinato a una corretta «programmazione delle autorizzazioni» rilasciabili.

In questa prospettiva, la disposizione sospettata non sarebbe «stata ispirata da istanze protezionistiche», né avrebbe «inteso […] introdurre un “blocco a regime”» del mercato, mirando «semplicemente [ad] assicurare al sistema un adeguato mezzo di ricognizione generale»: obiettivo, questo, che costituirebbe un motivo di utilità sociale idoneo a giustificare una temporanea sospensione del rilascio di nuove autorizzazioni.

D’altra parte, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti avrebbe dato impulso, nel mese di febbraio 2024, al confronto con le categorie di settore onde procedere «tempestivamente alla pubblicazione», tra l’altro, di un nuovo «decreto sul registro informatico».

In definitiva, dunque, conclude la difesa statale, il vincolo derivante dalla inoperatività del registro de quo sarebbe il frutto di un ragionevole e proporzionato bilanciamento fra lo svolgimento dell’iniziativa economica privata, e quindi l’apertura al mercato, da un lato, e l’utilità sociale, dall’altro.

4.2.– Secondo l’Avvocatura generale, non sarebbe ravvisabile neanche il dedotto contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49 TFUE.

In considerazione della finalità sopra evidenziata, infatti, la preclusione all’ingresso nel mercato di nuovi operatori soddisferebbe l’interesse a una «corretta gestione del trasporto» e tale interesse potrebbe «certamente costituire motivo imperativo di interesse generale» idoneo, secondo la Corte di giustizia UE, a giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento garantita dell’evocato parametro interposto.

5.– In qualità di amicus curiae, ha depositato un’opinione scritta – ammessa con decreto del Presidente di questa Corte del 21 maggio 2024 – l’Associazione nazionale imprese trasporto viaggiatori (ANITRAV), argomentando a sostegno dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e rimarcando la situazione italiana di carenza dell’offerta di autoservizi pubblici di trasporto non di linea.

L’opinione precisa, fra l’altro, che non avrebbero «effetti sul presente giudizio» né la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza, 27 marzo 2024, n. 6068, che ha annullato il già citato decreto di sospensione n. 86 del 2020, né l’eventuale pubblicazione medio tempore del “nuovo” decreto ministeriale richiamato dalla difesa statale.

Non la prima, perché l’annullamento del decreto di sospensione non comporterebbe la «reviviscenza» di quello (istitutivo del registro informatico) sospeso e, pertanto, comunque non consentirebbe ai comuni di rilasciare nuove autorizzazioni.

Non la seconda, perché dalla mera istituzione del “nuovo” registro informatico non discenderebbe di per sé anche la sua «piena operatività», cui la disposizione indubbiata subordina il rilascio di nuove autorizzazioni.

6.– Hanno depositato opinio – ammessa con decreto presidenziale del 21 maggio 2024 – anche la Sistema trasporti confederazione di imprese, la MuoverSì federazione noleggio con conducente e l’Associazione NCC Italia.

Esse rimarcano, per un verso, il difetto di ragionevolezza e di proporzionalità della previsione normativa censurata, che ha prodotto «conseguenze paralizzanti sulla concessione di nuove autorizzazioni».

Per altro verso, che la sentenza del TAR Lazio n. 6068 del 2024 non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni sollevate da questa Corte, considerato che la disposizione sospettata sarebbe in ogni caso «idonea a consentire eventuali successive sospensioni o deroghe dei decreti MIT in materia di registro elettronico con conseguente paralisi del potere di rilasciare nuove autorizzazioni all’esercizio dell’attività di NCC».

7.– In prossimità dell’udienza, ha depositato memoria illustrativa la Regione Calabria, che ha insistito nelle conclusioni già rassegnate, sostenendo, in particolare, che le esigenze ricognitive, dedotte dall’Avvocatura generale, non potrebbero giustificare il protrarsi del blocco al rilascio di nuove autorizzazioni, derivante invece dalla «struttura normativa» della disposizione in esame.

8.– Il giorno antecedente l’udienza del 3 luglio 2024, l’Avvocatura generale ha depositato copia del decreto 2 luglio 2024, n. 203, poi pubblicato il successivo 4 luglio, del Capo dipartimento per i trasporti e la navigazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che ha definito «le modalità di attivazione» del più volte menzionato registro informatico.

Considerato in diritto

1.– Nel corso del giudizio iscritto al n. 20 del reg. ric. 2023, questa Corte, con ordinanza n. 35 del 2024 (reg. ord. n. 49 del 2024), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 41, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49 TFUE, disponendone la trattazione innanzi a sé, in forza dell’«evidente rapporto di necessaria pregiudizialità» rispetto alla decisione del ricorso sull’art. 1 della legge reg. Calabria n. 16 del 2023, impugnato dal Governo, fra l’altro, per violazione della competenza statale in materia di tutela della concorrenza.

2.– La disposizione censurata prevede che: «[a] decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla piena operatività dell’archivio informatico pubblico nazionale delle imprese di cui al comma 3, non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento del servizio di noleggio con conducente con autovettura, motocarrozzetta e natante».

Segnatamente, sarebbe la stessa struttura di tale disposizione, nella combinazione tra la durata del divieto di rilascio e le modalità dirette a dare piena operatività all’archivio informatico pubblico nazionale, a consentire «la possibilità di bloccare per un tempo indefinito il rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento del servizio di NCC», come del resto si è verificato in virtù della perdurante inoperatività, dopo più di cinque anni dall’entrata in vigore del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, del suddetto archivio informatico.

L’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, si porrebbe quindi in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., in riferimento ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, potendosi dubitare sia della sua intrinseca razionalità sia dell’esistenza di una connessione razionale tra il mezzo apprestato e l’obiettivo perseguito; b) con l’art. 41, primo e secondo comma, Cost., potendo tradursi in un’istanza protezionistica che determina un’indebita barriera all’ingresso nel mercato, senza peraltro essere riconducibile a un motivo di utilità sociale o a un interesse della collettività; c) con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49 TFUE, in quanto si risolverebbe in una restrizione della libertà di stabilimento garantita da quest’ultimo, né proporzionata, né giustificata da un motivo imperativo di interesse generale.

3.– Dopo l’instaurazione di questo giudizio di costituzionalità è stato adottato il decreto n. 203 del 2024 del Capo dipartimento per i trasporti e la navigazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il quale, da un lato, «definisce le modalità di attivazione» dell’anzidetto registro informatico e ne stabilisce la “piena operatività” a decorrere da centottanta giorni dalla pubblicazione del decreto medesimo; dall’altro dispone che i decreti ministeriali n. 4 del 2020, istitutivo del registro stesso, e n. 86 del 2020, che ne ha sospeso l’efficacia (quest’ultimo peraltro già annullato dalla sentenza del TAR Lazio n. 6068 del 2024), «sono abrogati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto».

4.– In via preliminare, occorre chiarire che l’adozione del suddetto decreto n. 203 del 2024 non ha alcuna incidenza sul presente giudizio, dal momento che le censure sono state prospettate sulla disposizione legislativa in ragione della sua «struttura», a prescindere dalle evenienze «di fatto» e dalle «circostanze contingenti» attinenti alla sua concreta applicazione.

E ciò in quanto è proprio la configurazione della disposizione censurata a consentire all’autorità amministrativa di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori nel mercato del NCC semplicemente bloccando, con il succedersi dei decreti (ovvero con la loro emanazione e la loro successiva sospensione), la piena operatività del registro informatico.

La vicenda storica lo ha concretamente dimostrato, perché la disposizione in esame ha consentito per oltre cinque anni dalla sua entrata in vigore (e potrebbe consentirlo in futuro) di mantenere in vita un divieto, vincolante per regioni ed enti locali, che ha gravemente compromesso la possibilità di incrementare la già carente offerta degli autoservizi pubblici non di linea.

5.– Tale carenza, tuttavia, è stata oggetto, sin dal 1995 (Segnalazione 1° agosto 1995, n. 053), di ripetute segnalazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), in quanto «dovuta principalmente a un numero insufficiente di licenze per il servizio [di taxi] emesse dai comuni interessati». Anche quando poi alcuni comuni hanno provveduto a rilasciare nuove licenze per l’esercizio del servizio di taxi, questi interventi «sono risultati insufficienti anche a fronte di una domanda di mobilità non di linea in forte crescita» e di un’offerta «di servizi di NCC» che, parimenti, «non è stata sufficiente a soddisfare la domanda di mobilità» (Segnalazione 10 marzo 2017, n. 1354).

Eppure, nonostante «la diversa configurazione dei servizi pubblici non di linea», la «domanda di mobilità non di linea considera ormai in larga parte fungibili i servizi di taxi e di NCC, come hanno segnalato l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Segnalazione del 15 ottobre 2019), l’Autorità di regolazione dei trasporti pubblici (Segnalazioni al Parlamento e al Governo del 21 maggio 2015 e del 10 marzo 2017), la Commissione europea (Comunicazione della Commissione europea concernente un trasporto locale di passeggeri su richiesta, taxi e veicoli a noleggio con conducente, ben funzionante e sostenibile, 2022/C 62/01)» (sentenza n. 36 del 2024).

È quindi rimasta del tutto inascoltata da parte del legislatore la preoccupazione dell’AGCM volta a evidenziare che «l’ampliamento dell’offerta dei servizi pubblici non di linea risponde all’esigenza di far fronte ad una domanda elevata e ampiamente insoddisfatta, soprattutto nelle aree metropolitane, di regola caratterizzate da maggiore densità di traffico e dall’incapacità del trasporto pubblico di linea e del servizio taxi a coprire interamente i bisogni di mobilità della popolazione» (ancora, Segnalazione n. 1354 del 2017).

A breve distanza da tale segnalazione, infatti, è intervenuta la disposizione censurata, che, introducendo il descritto meccanismo normativo, ha consentito all’autorità amministrativa di bloccare sino ad ora la possibilità di rilascio di nuove autorizzazioni per l’espletamento dell’attività di NCC.

6.– La questione sollevata con riguardo all’art. 3 Cost., in riferimento ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, è fondata.

6.1.– Come è stato affermato da questa Corte nella sentenza n. 56 del 2020, l’art. 10-bis, comma 6, dovrebbe avere «il fine di bloccare il numero delle imprese operanti nel settore [soltanto] per il tempo tecnico strettamente necessario ad adottare in concreto il nuovo registro».

Nella suddetta pronuncia tale previsione è stata quindi ritenuta non irragionevole in quanto valutata secondo una logica “statica”.

Dal punto di vista “dinamico” in cui, dopo diversi anni, la considera nuovamente l’ordinanza di questa Corte iscritta al n. 49 reg. ord. 2024, si evidenzia, invece, una netta «contraddittorietà intrinseca» tra la regola introdotta, che permette di precludere a tempo indeterminato il rilascio di nuove autorizzazioni, e «la ‘causa’ normativa che la deve assistere» (ex plurimis, sentenza n. 195 del 2022), che dovrebbe essere quella, invece, di realizzare in breve tempo una mappatura delle imprese titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e di quelle titolari (a mercato fermo) di autorizzazione per l’esercizio del servizio di NCC.

6.2.– Altresì evidente è il difetto di proporzionalità.

Con riferimento al settore del NCC, di recente questa Corte ha affermato che «i divieti e gli obblighi posti in capo alle imprese autorizzate al servizio di NCC, per essere legittimi, devono essere […] adeguati e proporzionati rispetto allo scopo da perseguire» (sentenza n. 36 del 2024) e ha parimenti rimarcato l’esigenza di una «connessione razionale tra il mezzo predisposto dal legislatore […] e il fine che questi intende perseguire» (sentenza n. 8 del 2024).

Tale connessione manca, con chiara evidenza, nella norma censurata, che consente in concreto all’autorità amministrativa di bloccare a tempo indefinito il rilascio di nuove autorizzazioni per l’esercizio del servizio di NCC, con effetti protezionistici consistenti nell’elevare un’indebita barriera alla libertà di accesso al mercato, che non solo si è tradotta un’ulteriore posizione di privilegio degli operatori in questo già presenti – che agiscono in una situazione in cui la domanda è ampiamente superiore all’offerta – ma che, soprattutto, ha causato, in modo sproporzionato, un grave pregiudizio all’interesse della cittadinanza e dell’intera collettività.

6.2.1.– I servizi di autotrasporto non di linea, infatti, concorrono a dare «effettività» alla libertà di circolazione, «che è la condizione per l’esercizio di altri diritti» (sentenza n. 36 del 2024), per cui la forte carenza dell’offerta – che colloca l’Italia fra i Paesi europei meno attrezzati al riguardo, come risulta dai dati segnalati nell’opinio presentata dall’ANITRAV tanto nel presente giudizio quanto nel giudizio a quo – generata dal potere conformativo pubblico si è risolta in un grave disagio arrecato a intere fasce della popolazione e alle possibilità di sviluppo economico.

Essa ha infatti innanzitutto danneggiato la popolazione anziana e fragile, che, soprattutto nelle metropoli, non è in grado di utilizzare (o anche semplicemente raggiungere) gli altri servizi di trasporto di linea, ma che ha stringenti necessità di mobilità che, in particolare, si manifestano in riferimento alle esigenze di cura. Ha compromesso le esigenze di accesso a una mobilità veloce, spesso indispensabile a chi viaggia per ragioni di lavoro. Ha recato danno al turismo e all’immagine internazionale dell’Italia, dal momento che l’insufficiente offerta di mobilità ha pregiudicato la possibilità di raggiungere agevolmente i luoghi di villeggiatura, come documentato dalla Regione Calabria nel giudizio a quo.

Insomma, tali esempi dimostrano che, nella pur circoscritta distorsione della concorrenza che si è verificata per effetto della normativa censurata, sono stati indebitamente compromessi, non solo il benessere del consumatore, ma qualcosa di più ampio, che attiene all’effettività nel godimento di alcuni diritti costituzionali, oltre che all’interesse allo sviluppo economico del Paese.

7.– Parimente fondata è la questione riferita all’art. 41, primo e secondo comma, Cost.

La norma censurata, come si è detto, ha consentito e consente all’autorità amministrativa di erigere una indebita barriera all’entrata: il che preclude la concorrenza per il mercato, in contrasto con la libertà garantita dal primo comma dell’art. 41 Cost. (sentenze n. 8 del 2024, n. 171 e n. 117 del 2022 e n. 7 del 2021), in un settore già da tempo «caratterizzato, come più volte ha rimarcato l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (da ultimo, mediante segnalazione del 3 novembre 2023, rif. n. S4778), da una inadeguata apertura all’ingresso di nuovi soggetti» (sentenza n. 8 del 2024).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, inoltre, è possibile una compressione della libertà d’iniziativa economica privata solo «allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda, oltre che alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, come sancito dall’art. 41, comma secondo, Cost., all’utilità sociale» (sentenza n. 150 del 2022; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 151 e n. 47 del 2018, n. 16 del 2017 e n. 56 del 2015).

Quanto in precedenza evidenziato (punti 6.2. e 6.2.1.) porta invece palesemente a escludere che la disposizione censurata, rinviando a una piena operatività del registro suscettibile di essere procrastinata sine die, sia riconducibile a un qualche motivo di utilità sociale o a un interesse della collettività, rispondendo, al contrario, a un’istanza protezionistica che ha, non marginalmente, inciso sul benessere sociale e sugli interessi della collettività.

8.– Fondata, infine, è anche la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 49 del TFUE.

La Corte di giustizia UE, in riferimento all’applicazione del suddetto art. 49, ha chiarito che questo garantisce la libertà di stabilimento anche nei rapporti tra imprese che forniscono il servizio di taxi e imprese autorizzate per il servizio di NCC.

Pronunciandosi con riguardo al più esiguo numero di licenze che una normativa spagnola attribuiva a chi esercita il servizio di NCC (un trentesimo di quelle riservate ai taxi), la Corte di giustizia UE ha ritenuto di esaminare in modo rigoroso le preminenti finalità d’interesse generale che sono poste a presidio della disciplina limitativa – come gli obiettivi di corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico dell’agglomerato urbano, nonché di protezione dell’ambiente –, precisando anche che le misure adottate devono risultare adeguate e non in grado di travalicare quanto si dimostri indispensabile per conseguire gli obiettivi fissati dalla legge (Corte di giustizia UE, sentenza 8 giugno 2023, Prestige and Limousine SL).

Come già rammentato nella sentenza n. 36 del 2024, la pronuncia, peraltro, «ha posto in risalto il ruolo cruciale che i servizi di NCC sono deputati a svolgere, proprio in virtù dell’impiego dell’innovazione tecnologica, per “contribuire a conseguire l’obiettivo di una mobilità efficiente e inclusiva, grazie al loro livello di digitalizzazione e alla flessibilità nella fornitura di servizi, come una piattaforma tecnologica accessibile ai non vedenti” (paragrafo 96)».

Alla luce di tale giurisprudenza, la disposizione censurata incide sulla libertà di stabilimento senza che sia ravvisabile, per quanto già esposto, un proporzionato motivo di interesse generale a sua giustificazione.

9.– Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3, 41, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49 TFUE – dell’art. 10-bis, comma 6, del d.l. n. 135 del 2018, come convertito.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10-bis, comma 6, del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Valeria EMMA, Cancelliere

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IL DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE DI RIFORMA DELLA MAGISTRATURA

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Sommario: 1. Premessa – 2. Articoli riformati – 2.1. Creazione di due CSM e divisione delle carriere, modifica art. 87 Cost. – 2.2. Divisione della funzione giurisdizionale, modifica art. 102 Cost. – 2.3. Introduzione del sistema elettivo dei magistrati tramite sorteggio, per il Csm giudicante e per il Csm requirente, modifica art. 104 Cost. – 2.4. Creazione dell’Alta Corte per l’esercizio della giurisdizione disciplinare dei magistrati, modifica art. 105 Cost. – 2.5. Regolamentazione della nomina dei magistrati sulla base di un sistema binario, modifica art. 106 Cost. – 2.6. Sospensione dal servizio del magistrato in seguito a decisione del rispettivo Csm, modifica art. 107 Cost. – 3. Conclusioni

  1. Premessa

Ab illo tempore da parte dell’opinione pubblica in generale e della politica in particolare si è sempre sentito disquisire e discutere riguardo a come risolvere l’annosa questione della riforma dell’ordine costituzionale della Magistratura senza alcuna soluzione di continuità, perché in realtà nessun esecutivo è mai riuscito fattivamente a risolvere l’annoso problema.

In questa situazione rimasta finora stagnante l’attuale governo con il suo ministro della Giustizia Carlo Nordio sembrerebbe voler affrontare la questione concretamente, presentando un disegno di legge (nel prosieguo, anche dl) in cui, senza mezzi termini, si propone una modifica dell’assetto dell’ordine costituzionale più garantito dai padri costituenti.

Invero, a causa dell’esperienza storica, alquanto deleteria, del ventennio fascista[1], la Magistratura nella stesura della Carta costituzionale fu particolarmente tutelata e resa volutamente autonoma nelle definizioni costituzionali dei poteri alla stessa attribuiti.

Fintanto che la politica ricopriva un ruolo operativo fondamentale nell’esercizio delle sue funzioni la sproporzionalità dei poteri e dell’autonomia della Magistratura nell’esercizio del suo potere giudiziario in rapporto al potere legislativo del Parlamento e del potere esecutivo del Governo non emerse.

Quando però il fenomeno di “tangentopoli” ridimensionò la politica e i partiti che la rappresentavano, a quel punto la magistratura ricoprì inevitabilmente quel vuoto di potere che il penta-partito (Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi) aveva lasciato con tutti i processi giudiziari che portarono a svariati arresti dei componenti della classe dirigente politica.

I diversi governi succedutisi nel tempo hanno sempre provato a compiere un’epocale riforma costituzionale della magistratura, ma per motivi di timori e di riverenza nei confronti della Magistratura e di contrasti interni alla propria maggioranza nessuno è mai riuscito a realizzarla.

  • Articoli riformati

Il disegno di legge del governo Meloni presentato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio presenta dei cambiamenti radicali da un punto di vista costituzionale e che di seguito cercherò di riassumere in modo efficace evidenziando in grassetto le diverse modifiche semantiche dei vari articoli della Carta costituzionale.

Pertanto, sono sette gli articoli oggetto della riforma prevista dal disegno di legge costituzionale.

2.1. Creazione di due CSM e divisione delle carriere, modifica art. 87 Cost.

La prima modifica riguarda l’art. 87 della Costituzione, il quale stabilisce le attribuzioni del Presidente della Repubblica e che secondo quanto stabilito all’art. 1 del disegno di legge costituzionale in oggetto cambierebbe nel modo di seguito riportato:

<< Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Può inviare messaggi alle Camere.

Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione.

Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.

Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti.

Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione.

Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere.

Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.

Presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente.

Può concedere grazia e commutare le pene.

Conferisce le onorificenze della Repubblica>>.

Come si evince palesemente dalle modifiche evidenziate, con tale riforma ci sarebbe la tanto agognata divisione delle carriere in magistratura giudicante e magistratura requirente, con due rispettivi Consigli superiori della magistratura, ovviamente entrambi sempre presieduti dal Presidente della Repubblica.[2]

2.2 Divisione della funzione giurisdizionale, modifica art. 102 Cost.

L’altra modifica è prevista all’art. 2 dello stesso dl e riguarda l’art 102 della Costituzione, che regolamenta la funzione giurisdizionale:

<<La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti

Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.

La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia>>.

Anche in questo caso si precisa ulteriormente la divisione binaria delle carriere dei magistrati.[3]

2.3 Introduzione del sistema elettivo dei magistrati tramite sorteggio, per il Csm giudicante e per il Csm requirente, modifica art. 104 Cost.

Per quanto concerne l’art. 104 Cost., il quale regolamenta la magistratura, l’attuale testo è il seguente:

<<La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.

Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.

Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della corte di cassazione.

Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.

Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento.

I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.

Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale>>.[4]

Mentre all’art. 3 del disegno di legge in oggetto si prevede una radicale modificariportata nel seguente testo:

<<La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente.

Il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente sono presieduti dal presidente della Repubblica.

Ne fanno parte di diritto, rispettivamente, il primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione.

Gli altri componenti sono estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge.

Ciascun Consiglio elegge il proprio vicepresidente fra i componenti sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento.

I membri designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva.

Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale>>.

Da questo nuovo testo dell’art. 104 Cost. si evince la creazione del nuovo metodo elettivo dei magistrati componenti i due nuovi Consigli superiori della magistratura (quello giudicante e quello requirente), ossia il metodo del sorteggio.

Il suddetto metodo è proposto nell’intento da parte del legislatore di far garantire la massima imparzialità nell’elezione dei magistrati dei due nuovi futuri Csm.

2.4  Creazione dell’Alta Corte per l’esercizio della giurisdizione disciplinare dei magistrati, modifica art. 105 Cost.

Invero, la modifica più “rivoluzionaria” di questa riforma riguarda quella presente nell’art. 105 Cost., che stabilisce le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura, in cui, secondo quanto previsto dall’art. 4 del dl costituzionale, verrebbe creato un nuovo organo per esercitare la giurisdizione disciplinare riguardante tutti i magistrati e la relativa procedura elettiva dei rispettivi componenti.

L’attuale art. 105 Cost. stabilisce:

<<Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati>>.[5]

Invece, il testo dell’art. 105 Cost. sarebbe modificato nel seguente modo:

<<Spettano a ciascun Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati.

La giurisdizione disciplinare dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è attribuita all’Alta Corte disciplinare.

L’Alta Corte è composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità.

L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica e quelli sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento.

I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni. L’incarico non può essere rinnovato.

L’ufficio di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un consiglio regionale o del Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge.

Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata.

La legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte; e assicura che i maggiori giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio>>.

In realtà, il passaggio semantico “Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnatadel suesposto articolo modificato appare decisamente nebuloso e troppo generico, in quanto non si comprende chi e come sarebbero nominati coloro che dovrebbero sostituire i componenti  che hanno emesso il giudizio disciplinare impugnato.

2.5  Regolamentazione della nomina dei magistrati sulla base di un sistema binario, modifica art. 106 Cost.

Altre modifiche stabilite dall’art. 5 del dl costituzionale, in cui si ribadisce la divisione binaria delle carriere dei magistrati, riguardano l’art. 106 Cost., il quale regolamenta la nomina dei magistrati.

Il testo attuale è il seguente:

<<Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.

La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.

Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori>>.

Invece, il suddetto articolo costituzionale modificato si declinerebbe in questo modo:

<<Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.

La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.

Su designazione del Consiglio superiore della magistratura giudicante possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche, magistrati appartenenti alla magistratura requirente con almeno quindici anni di esercizio delle funzioni nonché avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori>>.[6]

2.6  Sospensione dal servizio del magistrato in seguito a decisione del rispettivo Csm, modifica art. 107 Cost.

L’art. 107 Cost., che sancisce l’inamovibilità dei magistrati, viene modificato dall’art. 6 del dl costituzionale nel seguente testo:

<<I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del rispettivo Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso.

Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare.

I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.

Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario>>.[7]

Inoltre, l’art. 7 del dl costituzionale prevede che l’art. 110 Cost., il quale stabilisce le funzioni del Ministro della Giustizia, cambierebbe nel seguente modo:

<<Ferme le competenze di ciascun Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia>>.[8]

Al postutto, all’art. 8 del succitato dl sono stabilite le disposizioni transitorie per il passaggio dagli attuali testi a quelli nuovi:

<<1. Le leggi sul Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare sono adeguate alle disposizioni della presente legge costituzionale entro un anno dalla sua entrata in vigore.

2. Fino all’entrata in vigore delle leggi di cui al comma 1 continuano a osservarsi le norme vigenti>>.

  • Conclusioni

Secondo quanto finora esposto, la suddetta riforma appare tanto complessa per i cambiamenti previsti quanto complicata nella sua legiferazione, non solo per l’iter legislativo che il suo rango di legge costituzionale impone, visto che le leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione, ma anche e soprattutto per le ostilità che incontrerà all’interno dello stesso Parlamento.

<<Durum hoc est sed ita lex scripta est>>  (dal Digesto, Ulpiano)


[1] Durante il regime fascista il ministro di Grazia e giustizia esercitava un potere sullo stato giuridico dei magistrati (ingresso in carriera,assegnazione delle sedi e delle funzioni, trasferimenti, promozioni, iniziative disciplinari) imponendo un rafforzamento dei vincoli gerarchici verso i capi degli uffici che prevedevano dei doveri che andavano ben oltre l’esercizio delle funzioni, ossia la declinazione dei principi del fascismo.

Invero, i magistrati “inferiori” erano sottoposti alle incessanti pressioni delle circolari ministeriali sull’interpretazione delle leggi che dovevano rappresentare maggiormente l’interesse del regime.

[2] Il Costituente  ha previsto che il Presidente della Repubblica nel rispetto della ripartizione dei poteri e del sistema di democrazia parlamentare, che debba essere il garante della Costituzione e debba rappresentare l’unità nazionale.

In sostanza, il Presidente della Repubblica facilita i collegamenti tra tutti i soggetti rilevanti nella vita dello Stato (organi costituzionali, cittadini, autonomie locali ecc.).

Al Presidente della Repubblica spettano competenze che incidono su ognuno dei poteri statali, affinché venga salvaguardata tanto la separazione dei poteri quanto il loro equilibrio.

Pertanto, al  Capo dello Stato sono attribuiti degli strumenti per indurre gli altri poteri costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni.

Secondo ZEGREBELSKY, il Presidente della Repubblica deve essere definito come persuasore supremo della Repubblica.

Per la Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica è al centro dell’ordinamento costituzionale con funzioni di raccordo ed equilibrio fra i poteri dello Stato ed è per questo che sussiste l’intangibilità delle comunicazioni presidenziali.

Sul punto è opportuno riportare la sentenza n. 1/2013 della Corte costituzionale, che in riferimento al conflitto fra il Presidente della Repubblica e Procura di Palermo in merito alla possibilità di intercettare le conversazioni i del Cap del Stato ha ribadito che <<lo stesso è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche>>.

Inoltre, per la Consulta, il Presidente della Repubblica <<per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di magistratura di influenza [….] deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche, indicare ai vari titolari di organi costituzionali i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il più possibile condiviso dei diversi problemi che via via si pongono>>.

[3] Il primo comma statuisce un principio che trova la sua ratio nella necessità di garantire l’indipendenza della magistratura (v. 101 Cost.) anche dagli altri poteri dello Stato.

Il divieto di istituire giudici straordinari o speciali è una componente fondamentale del principio del giudice naturale (art. 25 Cost.).

La partecipazione del popolo, invece, deriva dal precedente art. 101 comma 1 della Costituzione.

La legge sull’ordinamento giudiziario fu istituito nel periodo fascista (R.D. 30.01.1941 n. 12) e per quanto la Costituzione preveda una nuova legge sull’ordinamento giudiziario nella IV disposizione transitoria, in realtà non è stata ancora emanata.

Tramite la L. 25.07.2005, n. 150 c’è stata l’emanazione di diversi decreti legislativi inerenti ad alcuni aspetti del sistema giudiziario, come l’accesso alla magistratura, la formazione dei magistrati, l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, gli illeciti disciplinari dei magistrati, l’organizzazione dei Consigli giudiziari e altro ancora.

[4] Il CSM consiste in un organo di autogoverno della magistratura perché si occupa di ogni questione che concerne la carriera dei singoli componenti di essa (promozioni, procedimenti disciplinari ecc.). Inoltre, esso svolge la funzione di tutelare l’indipendenza dagli altri poteri, con i quali si rapporta.

il Capo dello Stato presiede il suddetto organo e regola queste relazioni.

La magistratura costituisce un ordine e non un potere, perché è rappresentato da un apparato centralizzato che si manifesta con una sola voce.

Questo perché ciascun organo giudicante rappresenta un potere dello Stato, definito diffuso, che può essere parte attiva o passiva riguardo ai conflitti di attribuzione con altri poteri dello Stato.

Il Costituente ha attribuito al Presidente della Repubblica la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura (nel prosieguo anche C.S.M.), allo scopo di collegare in modo diretto lo stesso all’organo istituzionale super partes, garante del rispetto della Costituzione.

Secondo la dottrina, in particolare FERRI, il Presidente della Repubblica può svolgere sia la funzione del difensore degli interessi del C.S.M. che quella del moderatore affinché venga garantita l’autonomia dell’ordinamento giudiziario.

Comunque, sempre secondo FERRI, nella prassi, la funzione del Presidente della Repubblica come presidente del C-S.M. ha un significato prevalentemente simbolico, visto che è impossibilitato ad essere presenti a tutte le riunioni a causa dei suoi numerosi impegni istituzionali.

Per il succitato motivo, il Capo dello Stato delega a svolgere i compiti relativi alla sua presidenza  il Vicepresidente eletto all’interno del C.S.M., che nella sua figura ibrida si relaziona tanto al Presidente della Repubblica quanto al C.S.M.

Sentenza n. 22 del 1959 della Consulta: Invero l’art. 101 (“ il giudice è soggetto soltanto alla legge “), enunciando il principio della indipendenza del singolo giudice, ha inteso indicare che il magistrato nell’esercizio della sua funzione non ha altro vincolo che quello della legge.

L’art. 104, infine, (“ la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere “) pone il principio della indipendenza della organizzazione giudiziaria nel suo complesso, nel senso che, come risulta dai lavori preparatori della Costituzione, l’ordine della magistratura non deve dipendere da altro potere e deve esso disporre per ciò che riguarda il suo stato, come personale ecc. Pertanto è da escludere che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura possano essere menomate dall’autorizzazione a procedere prescritta dall’art. 313, terzo comma, del Codice penale in quanto l’autorizzazione stessa non opera, come si è visto, sul modo in cui il giudice deve esercitare la propria funzione.

Sentenza n. 142 del 1973 della Consulta: Ma i termini della questione, così come viene ora prospettata, sono più complessi.

Da un lato, infatti, il principio del primo comma dell’art. 104, specie se sistematicamente inquadrato nel contesto delle altre disposizioni della sezione I del titolo IV, alle quali non per nulla globalmente si richiamano le ordinanze, non si esaurisce in una mera ripetizione del principio dell’indipendenza dei giudici di cui all’art. 101, secondo comma (pur comprendente anche questo aspetto); d’altro lato, se ben si guarda, l’impostazione comune a tutte le ordinanze si basa sulla premessa di una identità di ratio tra il caso del vilipendio della Corte costituzionale, deciso con la sentenza n. 15 del 1969, ed il caso dell’autorizzazione per vilipendio dell’ordine giudiziario

[5] Prima l’avanzamento di carriera dei magistrati si basava sul tempo trascorso, ossia sull’anzianità di servizio del magistrato.

Tale sistema era indipendente dal merito dei singoli, potendo determinare la promozione anche di soggetti non aggiornati e pronti per le giurisdizioni superiori.

Attualmente, il CSM svolge la funzione di valutare la professionalità dei singoli magistrati nella propria attività in base alle relazioni dei consigli giudiziari di ogni Corte d’appello ed ai risultati delle ispezioni predisposte.

Il risultato di questa valutazione incide su vari aspetti, come l’aumento della retribuzione e la possibilità di accedere a ruoli direttivi.

In sede disciplinare il Consiglio Superiore della Magistratura decide e infligge le eventuali sanzioni di comportamenti contrari ai loro doveri d’ufficio o, comunque, non consoni all’appartenenza all’ordine giudiziario.

In particolare, è stata istituita una specifica Sezione disciplinare, la quale esercita le sue funzioni secondo un procedimento simile al processo penale, dove la Pubblica accusa è svolta dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, mentre la difesa è attribuita ad un altro magistrato.

In seguito, la decisione della Sezione disciplinare è sottoposta all’intero plenum del C.S.M., mentre i provvedimenti disciplinari sono impugnabili davanti alle Sezioni Unite della Cassazione.

[6] La disposizione regola l’accesso alla magistratura per merito, al scopo di rispettare il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

L’accesso alla magistratura, la progressione economica e le funzioni dei magistrati sono regolamentati dal D.L.gs 05.04.2006, n. 160.

Il concorso nella magistratura ordinaria consiste in una prova scritta su tre materie e su una prova orale (Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto penale), su un gruppo di materie considerate fondamentali per l’esercizio delle funzioni da svolgere e su un colloquio riguardo ad una lingua straniera.

L’art. 4 del R.D. 30.01.1941, n. 12 individua tra i magistrati onorari, giudici di pace, giudici onorari di Tribunale, vice procuratore, esperti del tribunale ordinario e della sezione di Corte di Appello per i minorenni e giudici popolari della Corte d’Assise e della Corte d’Assise di appello.

Sentenza n. 1 del 1967 della Consulta: La regola che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso non è di per sé una norma di garanzia d’indipendenza del titolare di un ufficio, sebbene d’idoneità a ricoprire l’ufficio.

Può ritenersi, tuttavia, che nell’ambito di un sistema, quale quello delineato dalle norme contenute nel titolo IV sezione I della Carta costituzionale, la nomina per concorso, che pur in quest’ambito patisce eccezioni, concorra a rafforzare e a integrare l’indipendenza dei magistrati. Senonché, codesto sistema riguarda soltanto la Magistratura ordinaria, come risulta evidente dalle norme contenute nell’invocato art. 106 e negli articoli, che lo precedono e lo seguono, 104, 105, 107, 109, 111, che definiscono la magistratura ordinaria un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e istituiscono e regolano, a garanzia di codesta autonomia e indipendenza, il Consiglio superiore della Magistratura. Né vale richiamare il fatto che in questo medesimo titolo si trovi l’art. 103, il secondo comma del quale dichiara che la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge, perché questa disposizione, che trova giustamente il suo posto dove si definisce e regola tutto “ l’ordinamento giurisdizionale”, non è sufficiente a ricondurre la Corte dei conti nell’ambito della magistratura ordinaria e delle norme di garanzia che questa riguardano. 3. – La difesa del resistente ha sostenuto che, nel presente giudizio, non viene in considerazione nemmeno la norma dell’art. 108, secondo comma, che affida alla legge (riserva di legge assoluta) di assicurare l’ indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, per il motivo che la Corte dei conti non può essere annoverata tra questa. Ora, è vero che la Costituzione definisce la Corte dei conti un organo ausiliario del Governo nel senso, deve ritenersi, che essa contribuisce ad assicurare il rispetto del principio di legalità nell’amministrazione, ma è vero altresì che la stessa Costituzione affida alla Corte dei conti la tutela giurisdizionale di diritti soggettivi e di interessi legittimi, configurandola, cosi, anche come un organo di giurisdizione..

Quale delle funzioni attribuite alla Corte sia prevalente e debba caratterizzare l’Istituto è questione che non occorre risolvere in questa sede, essendo sufficiente constatare che anche la Carta costituzionale parla di giurisdizione della Corte dei conti, considerandola, tuttavia, a parte tra le giurisdizioni speciali, come si ricava dalla VI disposizione transitoria, la quale, disponendo la revisione degli organi speciali di giurisdizione, ne esclude “le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari”.

Non occorre, peraltro, affrontare questa questione direttamente nel presente giudizio, giacché la disposizione generale del secondo comma dell’art. 108 compare, come disposizione particolare per la Corte dei conti e con una speciale accentuazione, nell’ultimo comma dell’art. 100, secondo il quale “la legge assicura l’ indipendenza dei due Istituti (Consiglio di Stato e Corte dei conti) e dei loro componenti di fronte al Governo”. Si può ritenere, perciò, che la questione sollevata nei confronti dell’art. 108 sia assorbita dall’altra proposta nei confronti del l’art. 100 o che faccia tutt’uno con questa.

Nemmeno in questi termini la questione è fondata. Una volta escluso, infatti, che la nomina per concorso debba necessariamente intervenire per assicurare l’ indipendenza dei magistrati delle giurisdizioni speciali, per le quali, anzi, la provvista dell’ufficio in modi diversi e con procedimenti diversi da quelli del concorso può essere necessaria, o quanto meno opportuna, per il raggiungimento delle finalità loro assegnate (com’è evidente nel caso della Corte dei conti, non potendosi negare l’opportunità di acquisire all’Istituto esperienze maturate nell’ambito dell’amministrazione attiva), resta da vedere se le disposizioni impugnate siano tali da minare l’ indipendenza dei consiglieri della Corte dei conti. Ma ciò non può dirsi, e per quel che si è osservato di sopra e sarà osservato più avanti, e soprattutto perché la norma dell’art. 8 del T. U. citato stabilisce una valida garanzia di indipendenza, disponendo che i consiglieri della Corte dei conti non possano essere revocati, né collocati a riposo di ufficio, né allontanati in qualsiasi altro modo senza il parere conforme di una commissione composta dai Presidenti e dai vice Presidenti dei due rami del Parlamento. 4. – Del resto, la medesima ordinanza e la difesa dei ricorrenti non sembrano insistere su questo punto dell’indipendenza dei consiglieri, ma piuttosto sull’altro dell’indipendenza dell’Istituto, che la nomina di una parte dei suoi componenti da parte del Governo comprometterebbe. La questione non è fondata nemmeno sotto questo profilo. Anche a non voler accogliere la tesi del resistente, che può apparire semplicistica, giusta la quale l’ indipendenza del “corpo” sia una sola cosa con l’indipendenza dei suoi membri, è evidente che l’ indipendenza dell’Istituto deve ricercarsi nei modi in cui esso svolge le sue funzioni, non già in quelli coi quali si provvede a regolare la nomina dei suoi membri. Basta richiamare in questa sede le norme che regolano lo svolgimento dell’attività di controllo e di quella giurisdizionale della Corte dei conti, perché risulti evidente come l’attività dell’Istituto si svolga libera da ogni intervento estraneo, in piena indipendenza, e senza possibilità di ingerenza da parte del Governo. Né può obiettarsi, come fa l’ordinanza, che la mancanza di una precisa normativa delle nomine governative invalidi la garanzia disposta dal citato art. 8 del T. U. I modi nei quali la nomina avviene riguardano l’atto di nomina ed esauriscono in questo ogni loro effetto. Una volta che la nomina sia avvenuta, cessa ogni vincolo che eventualmente sussista tra il Governo che nomina e la persona che viene nominata, a null’altro tenuta se non all’obbedienza alla legge: e subentra la garanzia dell’art. 8 che non si può davvero affermare perda di efficacia per le particolarità dell’atto di nomina che necessariamente la precede.

[7] La disposizione prevede una serie di garanzie a favore dei magistrati per consentire il rispetto del principio di separazione dei poteri e la loro indipendenza (v. 101 comma 2 e 104 Cost.).

L’inamovibilità opera in due direzioni: sia verso l’esterno affinché il magistrato non possa essere sollevato dalla funzione se non per specifiche cause, quale l’incapacità sopravvenuta (inamovibilità funzionale), sia verso l’interno in quanto il singolo non può essere trasferito in una sede diversa da quella in cui opera se non nei casi ed alle condizioni di legge (inamovibilità della sede).

Sentenza n. 1 del 1978 della Consulta: è da rilevare che l’indipendenza di un organo giurisdizionale si realizza, indubbiamente anche mediante l’eliminazione delle interferenze interne, con l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico.

[8]  La separazione delle competenze del CSM e del Guardasigilli è necessaria affinché il primo sia l’organo indipendente e deputato a garantire l’indipendenza dei magistrati (v. 104 Cost.) mentre il secondo svolga funzioni politiche, appartenendo al Governo (v. 92 Cost.).

Il tema della delimitazione delle sfere di attribuzioni tra C.s.m. e Ministro della giustizia è questione sulla quale la Corte costituzionale ben presto è stata chiamata ad intervenire.

La sentenza n. 22 del 1959 aveva in un primo tempo offerto al tema un’interpretazione estremamente estensiva, basata sull’osservazione secondo cui l’art.104 Cost., «pone il principio della indipendenza della organizzazione giudiziaria nel suo complesso, nel senso che, come risulta dai lavori preparatori della Costituzione, l’ordine della magistratura non deve dipendere da altro potere e deve esso disporre per ciò che riguarda il suo stato, come personale ecc.».

Siffatta conformazione avrebbe potuto indurre ad ipotizzare che, anche nella materia dell’organizzazione giudiziaria, tali principi avessero un più ampio contenuto di quello successivamente riconosciuto.

Successivamente, tuttavia, una simile prospettiva risultò smentita attraverso il rifiuto di una interpretazione restrittiva dell’art. 110 Cost., escludendo che si fosse autorizzati a ritenere che i servizi e l’organizzazione, il cui funzionamento spetta al Ministro, fossero soltanto quelli inerenti al personale delle cancellerie e segreterie, agli ufficiali giudiziari, alle circoscrizioni giudiziarie, ai locali, all’arredamento dei medesimi, ed, in genere, a tutti i mezzi necessari per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. L’autonomia riconosciuta al Consiglio superiore, nelle materie indicate nell’art. 105 Cost., dunque, non determinava una netta separazione di compiti fra il Ministro ed il C.S.M. «come si verificherebbe se, a quest’ultimo, fosse riconosciuta (il che non é, come risulta chiaro dai lavori preparatori) un’autonomia integrale, compresa quella finanziaria, riguardante l’ordine giudiziario». In questo senso, i giudici delle leggi precisavano che l’autonomia in tale contesto vuole dire che il potere esecutivo non può intervenire nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, ma non esclude che, «fra i due organi, nel rispetto delle competenze a ciascuno attribuite, possa sussistere un rapporto di collaborazione: il quale importa che i servizi, affidati al guardasigilli dall’art. 110 della Costituzione, non sono limitati a quelli sopra accennati, ma, vi si comprendono, altresì, sia l’organizzazione degli uffici nella loro efficienza numerica, con l’assegnazione dei magistrati in base alle piante organiche, sia il funzionamento dei medesimi in relazione all’attività e al comportamento dei magistrati che vi sono addetti».

Siffatta ricostruzione era sorretta sia dalla riconosciuta titolarità dell’azione disciplinare in capo al Ministro (art. 107, secondo comma, Cost.), sia dalla considerazione che le attribuzioni e gli oneri finanziari che vi si ricollegano impegnano la responsabilità politica.

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IL DANNO MORALE NELLA SUA NATURA GIURIDICA DI DANNO NON PATRIMONIALE

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Sommario: 1. Introduzione e definizione – 2. Risarcibilità del danno morale in presenza del danno contrattuale e in presenza del danno extra-contrattuale 6. Conclusioni.

1. Introduzione e definizione

Il danno morale soggettivo si determina nella perturbatio dell’animo della vittima e rientra nell’ampia categoria del danno non patrimoniale, in cui rientrano anche il danno biologico, ossia inteso come danno all’integrità fisica e psichica, tutelato dalla garanzia dell’art. 32 Cost., e il danno dinamico-relazionale (ex danno esistenziale), che consiste in quel danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali, ma considerati di rango costituzionale, in sostanza rientrano tutte quelle lesioni di valori riguardanti la persona.

Invero, risulta necessario palesare il criterio di distinzione tra danno morale e danno psichico, in quanto, rispettivamente, il primo consiste in una mera sofferenza psichica, invece il danno psichico consiste nella devianza patologica dell’ordinario decorso psichico che ha subito il danneggiato e di conseguenza è un vero e proprio danno biologico.

Per i motivi suesposti appare inappropriata la tesi secondo la quale sia il danno morale che il danno psichico debbano essere valutati come due stadi dello stesso nocumento, considerando più intenso il primo e di minore intensità il secondo.

Quindi, il danno morale, inteso come sofferenza soggettiva, rappresenta una voce dell’ampia categoria del danno non patrimoniale e ben può derivare da un inadempimento contrattuale che pregiudica un diritto inviolabile della persona.

Nello specifico, il danno morale deve manifestarsi come danno da stress o da patema d’animo, la cui risarcibilità postula la sussistenza di un pregiudizio sofferto dal titolare dell’interesse leso.

Sul medesimo titolare grava l’onere della prova del danno morale subito, anche attraverso presunzioni semplici.

In finale, il danno morale, nel suo positivo riconoscimento e nella sua concreta liquidazione per i pregiudizi causati alla persona danneggiata mantiene la propria autonomia in modo integrale rispetto a qualsiasi altra fattispecie di danno non patrimoniale.

Questo perché il danno suddetto consiste in una sofferenza di natura assolutamente interiore e per niente relazionale e di conseguenza legittima il danneggiato a chiedere un risarcimento come compenso aggiuntivo, a prescindere dalla personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale.[1]

2. Risarcibilità del danno morale in presenza del danno contrattuale e in presenza del danno extra-contrattuale

Qualsiasi illecito per determinare responsabilità civile, con il conseguente risarcimento, deve inconfutabilmente produrre un danno.

A tale proposito è stato rilevato dalla dottrina come <<un modello nel quale il rimedio risarcitorio viene disancorato da qualsiasi considerazione dei riflessi negativi a carico della vittima porta, infatti, ad un inevitabile snaturamento dell’istituto aquiliano; la rinuncia a transitare attraverso una nozione di danno distinta dall’illecito spinge, infatti, verso un allargamento ingovernabile dei confini del danno risarcibile; né tale problema può essere aggirato attraverso l’introduzione di un filtro selettivo, costituito dalla rilevanza costituzionale dell’interesse leso; proprio dalle applicazioni giurisprudenziali emerge, infatti, la tendenza a ravvisare la violazione di un interesse protetto a livello costituzionale qualunque sia il genere di torto in questione; le corti pervengono, cioè, all’individuazione (o meglio, vera e propria creazione) di diritti soggettivi aventi rilevanza costituzionali al solo scopo di assicurare alla vittima il risarcimento di questa nuova voce di danno>>[2]

Pertanto, da quanto finora esposto emerge un sistema risarcitorio che il vigente codice civile declina in modo bipolare, visto che al danno patrimoniale contrappone, con definizione decisamente negativa e con valenza residuale, il danno non patrimoniale.

Nella categoria del danno non patrimoniale sono collocate tutte quelle ipotesi di lesione di valori riguardanti la persona, tipo il danno morale soggettivo e tipo il danno biologico, nonché il danno dinamico- relazionale (danno esistenziale).

Infatti, secondo un’interpretazione giurisprudenziale, il risarcimento di danno biologico è legato alla lesione del diritto costituzionale alla salute sancito dall’art. 32 Cost..

La relativa disciplina ha subito una lunga evoluzione giurisprudenziale, che ha infine condotto la Suprema Corte di Cassazione a definirlo espressamente come danno non patrimoniale.

Per tali motivi, si ritiene risarcibili, oltre al danno morale e al danno non patrimoniale nei casi espressamente previsti dalla legge, anche tutti i danni non patrimoniali che conseguono ad una lesione di diritti costituzionalmente garantiti, ivi compresi il danno biologico e tutti quei pregiudizi di carattere esistenziale subiti dalla vittima.

L’art. 32 della Costituzione che tutela e garantisce il diritto alla salute, oltre ad essere considerato fondamentale, è anche l’unico diritto costituzionale considerato assolutamente inviolabile ed è la fonte normativa del danno biologico, il quale riguarda sia il danno all’integrità fisica che il danno all’integrità psichica e nello specifico, il danno all’integrità psichica è definito danno psichico.

A questo punto diventa fondamentale effettuare un distinguo, sul piano giuridico, tra il danno morale e il danno psichico, proprio per evitare che qualsiasi mutamento dell’umore possa essere considerato un danno alla salute.

Infatti, il danno psichico si fonda su un’alterazione patologica delle funzioni psichiche dell’individuo, la quale deve essere riconosciuta dalla scienza medica in generale e dalla psichiatria in particolare e di conseguenza accertabile da un punto di vista medico-legale, mentre il danno morale non altera in modo patologico le funzioni psichiche del danneggiato, sebbene il medesimo ne subisca delle sofferenze.

Inoltre, non può sussistere alcuna richiesta di risarcimento senza la concretizzazione di un danno e quindi di un fatto illecito.

In effetti, l’altro presupposto per cui possa delinearsi un diritto al risarcimento è proprio il fatto illecito commesso, la cui essenza incide sulle modalità e sulla tipologia del risarcimento dovuto al danneggiato.

Questo perché il fatto illecito rappresenta una violazione del diritto e perciò la causa del danno ingiusto.

Invero, nell’evoluzione del concetto di danno ingiusto, il legislatore si è ispirato al principio informatore della materia di risarcimento del danno nel considerare come danno ingiusto la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, salvo la presenza di un contrapposto interesse prevalente dell’autore della condotta lesiva.

L’illecito civile è normato e previsto sia all’art. 2043 cod.civ. (responsabilità extracontrattuale o aquiliana), che regola il principio generale dell’ingiustizia del danno erga omnes in quanto stabilisce che “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, sia all’art. 1218 cod.civ. (responsabilità contrattuale) quando il danno è ingiusto a causa di un inadempimento inerente a un precedente rapporto obbligatorio (in personam), questo perché “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

In sostanza, per il nostro diritto vigente, l’illecito civile postula sia la responsabilità contrattuale che quella extracontrattuale, di conseguenza il danneggiato è legittimato ad agire per entrambe le tipologie di responsabilità.

Questo perché, nel nostro ordinamento, quando si è in presenza di un illecito civile vige il principio della cumulabilità dei due tipi di responsabilità succitati nel momento in cui uno stesso fatto, che generi in modo autonomo un danno, implichi gli estremi dell’inadempimento contrattuale ex art. 1218 cod.civ. e del torto aquiliano 2043 cod.civ.

Invero, il danno non patrimoniale consiste in  tre sotto-categorie, come il danno biologico, danno morale e danno dinamico-relazionale (danno esistenziale).

6. Conclusioni

La definizione di danno morale come categoria di sofferenza psichica rimane stabile sia presso i giudici di legittimità[3] sia presso i giudici di merito.

Pertanto, il danno morale, quando viene provata la sua esistenza, deve essere riconosciuto anche a ristoro della sofferenza psichica provata da colui che ha subito delle lesioni fisiche, a causa delle quali sia subentrato dopo breve tempo l’exitus.

Inoltre, quando la vittima delle lesioni fisiche suddette vive in uno stato di lucidità l’agonia in cui si trova, con la drammatica consapevolezza di attendere la propria fine, si determina il danno tanatologico, il quale viene ricondotto nella dimensione del danno morale inteso nella sua più elastica accezione.

In sostanza, il danno tanatologico consiste nella sofferenza che la vittima prova assistendo lucidamente alla spegnersi della propria esistenza.

Quindi, il danno morale appartiene decisamente alla categoria dei danni non patrimoniali e la legittimità di ottenere il risarcimento da parte di coloro che lo subiscono si rinviene nel dettame dell’art. 2059 cod.civ.

La liquidazione del danno morale non potrà che essere rigidamente equitativa, poiché anche quando il giudice di merito ricorresse a indici valutativi oggettivi e schematizzati non potrebbe esimersi dall’effettuare una necessaria personalizzazione del risarcimento, al fine di adeguare concretamente il ristoro al fatto lesivo patito[4].
Da quanto finora esposto emerge in modo sempre più inconfutabile quanto sia necessario procedere a una adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, proprio perché è fondamentale prendere in considerazione l’entità della sofferenza morale che prova il danneggiato, anche procedendo secondo un criterio di valutazione presuntiva.

Al postutto, il danno morale soggettivo non può non essere oggetto di un’autonoma valutazione e liquidazione per risarcire integralmente il danno non patrimoniale scaturente da lesione della salute, in cui è annoverato il danno biologico senza, però, che siano escluse altre possibili conseguenze non patrimoniali di un evento dannoso.[5]


[1] Cass., 9 novembre 2021, n. 32935, in www.top24diritto.ilsole24ore.com.

[2] CENDON P.-ZIVIZ P., Il risarcimento del danno esistenziale, Milano, 2003, 63.

[3] Cass., 17 maggio 2022, n. 15733, in www.top24diritto.ilsole24ore.com.

[4] Cass., 24 ottobre 2022, n. 31332, in www.top24diritto.ilsole24ore.com.

[5] Cass., 19 settembre 2022, n. 27380, in www.top24diritto.ilsole24ore.com.

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Avvocati: la guida del CNF per scaricare i certificati ANPR

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Una guida operativa che accompagna ogni passaggio necessario nell’uso della nuova procedura online attiva dall’11 dicembre 2023

di Marina Crisafi

FONTE: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/avvocati-guida-cnf-scaricare-certificati-anpr-AFUgt7vB

Dall’11 dicembre 2023 alle ore 13:00 sarà operativo il servizio che consente agli avvocati di scaricare direttamente i certificati anagrafici dei cittadini iscritti all’ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente). 
Una possibilità concessa, si ricorda, dal decreto del ministero dell’Interno del 6 ottobre scorso (pubblicato in GU il 24 novembre 2023) dopo le numerose sollecitazioni da parte dell’avvocatura compatta che da mesi lamentava l’impossibilità, per gli avvocati, di accedere all’ANPR per ottenere i certificati relativi a soggetti terzi. 

Certificati ANPR Avvocati 
Il decreto consente ai legali iscritti all’albo di accedere, mediante autenticazione forte (CNS, SPID e CIE) per scaricare i certificati anagrafici dei cittadini iscritti nell’ANPR per le finalità connesse all’esecuzione del mandato professionale. 
I certificati sono esenti da bollo, sono validi tre mesi dalla data del rilascio e potranno essere scaricati fino a 30 al giorno in modalità telematica. 

La guida del CNF 
La guida del Consiglio Nazionale Forense, nata al fine di garantire agli avvocati l’assistenza tecnica nell’uso della nuova procedura, è consultabile sul sito istituzionale del CNF e sarà disponibile anche sul portale ANPR. 
Si tratta di una guida operativa che segue passo passo l’avvocato nell’utilizzo della procedura, a partire dal collegamento al portale ANPR, nella sezione “Area tecnica”, “Certificati per avvocati”. 
Da qui, dopo aver preso visione dei possibili controlli a campione cui potrebbe essere sottoposto e selezionato il soggetto intestatario del certificato (tramite i dati anagrafici e/o il codice fiscale, soprattutto nei casi di omocodia), il legale entra nel vivo della procedura che necessita di una serie di passaggi per ottenere il certificato desiderato. 

La procedura 
Passaggi interamente guidati, dal tasto “richiedi certificato” a “seleziona il certificato da richiedere” (anagrafico di nascita, di matrimonio, di cittadinanza, di stato civile, ecc.), sino a “seleziona la data del mandato” (ovvero del mandato professionale ricevuto alla quale è riferita la richiesta del certificato stesso), e “seleziona la finalità d’uso legale” (notifica, stragiudiziale o in giudizio), per giungere infine a “conferma l’uso del certificato” e “seleziona la seconda lingua” in cui il documento potrà essere emesso oltre a quella italiana. 
A questo punto, l’avvocato dovrà selezionare come ricevere il certificato, scegliendo se riceverlo via mail, sul proprio domicilio digitale, o in entrambe le modalità. Quindi, dovrà selezionare “ottieni certificato” e il sistema ANPR produrrà il documento in formato pdf non modificabile. 
Il certificato riporta, oltre ai loghi del ministero dell’Interno e dell’ANPR, anche un QRCode che ne garantisce l’autenticità e il sigillo elettronico qualificato del Viminale che ne garantisce l’integrità ed il non ripudio e, infine, la dicitura: “Il presente certificato è rilasciato all’avvocato che ne ha fatto richiesta per finalità connesse all’esecuzione del mandato professionale”. 

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Autotutela peggiorativa per il contribuente: decidono le Sezioni unite

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Grande attesa per le ricadute non solo pratiche del responso

di Dario Deotto e Luigi Lovecchio

FONTE: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/autotutela-peggiorativa-il-contribuente-decidono-sezioni-unite-AFCUh2uB

Rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa all’ammissibilità dell’esercizio del potere di autotutela in peius per il contribuente, per vizi di carattere sostanziale. Con l’ordinanza n. 33665, depositata ieri, la Cassazione solleva un problema di rilevante interesse sia pratico che teorico.

Il caso all’esame del giudice di legittimità riguarda un accertamento da indagini finanziarie, emesso in un primo momento senza tenere conto di una delle movimentazioni bancarie verificate. Successivamente, l’Ufficio ci ha ripensato e ha prima annullato l’atto di accertamento per riemetterlo subito dopo con un maggior imponibile, rispetto all’atto originario, corrispondente alla medesima movimentazione bancaria.

Il contribuente impugnava il secondo atto di accertamento, eccependo l’illegittimità dello stesso, in quanto avente natura di accertamento integrativo non fondato sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. In proposito, si ricorda che, ai sensi dell’articolo 43 del Dpr 600/1973, l’Ufficio può integrare un atto di rettifica che non sia qualificabile come accertamento parziale, entro gli ordinari termini decadenziali, a condizione che dimostri la sopravvenuta conoscenza di dati o notizie. La vicenda è giunta all’esame della Suprema Corte che ha ravvisato, in proposito, due opposti orientamenti dei giudici di vertice. Secondo il primo di essi, in virtù del «principio di perennità», l’Amministrazione finanziaria può sempre annullare un proprio atto viziato, anche dal lato della fondatezza della pretesa avanzata, per sostituirlo con altro provvedimento peggiorativo per il contribuente. Ciò, in ragione del criterio secondo cui l’autotutela avrebbe la funzione di perseguire l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi ed avrebbe pertanto come unici limiti i termini decadenziali dell’azione di controllo e il rispetto del giudicato.

Secondo un’altra prospettazione, invece, l’autotutela sarebbe funzionale essenzialmente a garantire l’interesse del contribuente e potrebbe essere pertanto esercitata solo nel senso della adozione di un provvedimento di favore per il contribuente, e non a suo danno. In questo senso, si richiama il principio di unicità dell’azione accertativa, e, con esso, il divieto dell’accertamento integrativo. In proposito, si segnala peraltro che il criterio della unitarietà dell’accertamento è sancito nello schema di decreto legislativo di revisione dello Statuto dei diritti dei contribuenti, trasmesso all’esame delle Camere in attuazione della delega di riforma del sistema fiscale (legge 111/2023).

Il responso delle Sezioni Unite dunque avrà una importante ricaduta sotto il profilo sistematico e applicativo.

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