Sebbene l’art. 111 della Costituzione (“[…] La legge ne assicura la ragionevole durata”) imponga il rispetto dei termini per il giusto processo, anche in alcune cause affrontate dallo studio legale Bonanni Saraceno emerge quanto questo principio costituzionale venga disatteso.
In ordine a quanto suesposto, si riporta di seguito la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione.
L’indicazione numerica di «massima durata ragionevole […] pari a due anni, sei mesi e 5 giorni» va interpretata in modo specifico nel contesto del giudizio di equa riparazione. In particolare, i «sei mesi e cinque giorni» non fanno parte del termine di durata ragionevole del processo che lo Stato deve rispettare. Essi costituiscono una sorta di “franchigia” o tolleranza per lo Stato-amministratore nei confronti della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e quindi non incidono sulla responsabilità dello Stato nei confronti della CEDU.
Tuttavia, quando si tratta di calcolare la durata non ragionevole del processo, questi «sei mesi e cinque giorni» vanno scomputati dal totale della durata del procedimento giudiziario che eccede i limiti della ragionevolezza. Solo il periodo eccedente viene considerato per determinare se lo Stato-giudice debba riconoscere un risarcimento ai sensi della legge n. 89/2001 (legge Pinto), che disciplina l’equa riparazione per irragionevole durata del processo.
In altre parole, quei sei mesi e cinque giorni rappresentano una soglia di tolleranza entro cui non scatta automaticamente l’obbligo di riparazione, ma non si considerano parte del termine ragionevole che viene indennizzato se superato.
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Digitare la scritta “Download” sottostante per la lettura integrale in formato PDF della Sent. n. 25739/2024 della Suprema Corte di Cassazione:
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