
La Cassazione, con l’ordinanza n. 8130/25, ha fornito due precisazioni sull’onere probatorio in tema di IVA.
Il primo chiarimento
La Corte ha ricordato il funzionamento dell’onere probatorio. In particolare, in materia di IVA, se l’amministrazione finanziaria contesta che la fatturazione riguardi operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare non solo l’inesistenza oggettiva del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta.
Questa prova può essere fornita anche tramite presunzioni basate su elementi oggettivi e specifici, dimostrando che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della propria qualifica professionale, della sostanziale inesistenza del contraente.
Se l’Amministrazione, come nel caso concreto, assolve a questo onere istruttorio, spetta al contribuente fornire la prova contraria. Deve dimostrare di aver adottato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, per evitare il coinvolgimento in un’operazione volta a evadere l’imposta.
Il secondo chiarimento
Affrontando il secondo chiarimento, la Cassazione ha precisato che, in base agli articoli 19 del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, e 17 della Direttiva UE 17 maggio 1977, n. 388, il diritto alla detrazione IVA non può essere riconosciuto non solo in caso di prova del coinvolgimento del cessionario nella frode fiscale, ma anche quando risulti la sua mera conoscibilità dell’inserimento dell’operazione in un fenomeno criminoso volto all’evasione fiscale.
Ciò significa che il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, avrebbe potuto acquisire consapevolezza della frode mediante l’impiego della specifica diligenza professionale richiesta a un operatore economico attento e prudente.
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