Questa è la puntata di “BUONA PAROLA A TUTTI” del giornalista dell’Opinione Ruggiero Capone, in cui oggi il giurista Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno è intervenuto per spiegare ciò che ha scritto nel suo articolo riguardo all’attentato alla Costituzione commesso dal Governo Conte.
Fino all’otto marzo del 2020, quando fu emesso il primo dpcm di Conte, neanche il più fantasioso sceneggiatore cinematografico poteva immaginare che un Presidente del Consiglio avrebbe potuto stravolgere la Costituzione italiana in questi termini e con tanta sfrontatezza, come Conte è riuscito ad attuare e a reiterare.
(Articolo scritto da Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno)
Il modus agendi incostituzionale del Presidente del Consiglio è arrivato al livello surreale di creare in modo autonomo e arbitrario una nuova fonte del diritto, ossia una nuova forma di legge di delega di matrice autoritaria, senza alcun vincolo di tempo e senza alcun limite sostanziale.
Il Presidente del Consiglio ha inventato la Legge di delega governativa al Presidente del Consiglio dei Ministri, una Legge che ha rotto ogni equilibrio ed ogni garanzia costituzionale, surrogando la Legge di delega parlamentare al Governo, prevista, invece, dalla Costituzione, con precisi limiti sostanziali e temporali.
Conte continua imperterrito ed impunitamente a violare la Costituzione, senza che nessuna forza politica ed istituzione intervenga in modo deciso ed efficace, a cominciare dai due organi di garanzia costituzionale, Parlamento e Presidente della Repubblica, più diretti a controllare l’operato del Governo e quindi a tutelare lo Stato democratico e di diritto.
Il capo del Governo sta strumentalizzando l’emergenza, causata dal Covid-19, per esautorare le funzioni legislative del Parlamento, che ormai è ridotto ad una sorta di impotente spettatore.
Il Presidente del Consiglio ignora o finge di ignorare che la nostra Costituzione prevede che lo Stato italiano abbia una struttura democratica di Repubblica parlamentare, in cui il Parlamento ricopre un ruolo fondamentale per l’esercizio del potere legislativo, in quanto rappresentante del popolo, da cui viene eletto con elezioni democratiche.
Quindi è il Parlamento che delega al Governo i compiti e ne definisce sia i poteri e i modi d’esercizio e sia i loro limiti temporali e non il Presidente del Consiglio che in modo autonomo e quindi arbitrario si attribuisce tali poteri straordinari, per giunta senza alcun vincolo sostanziale e di tempo.
Un’ampia giurisprudenza della Corte Costituzionale ha stabilito in che modo possono essere esercitati i poteri di ordinanza per affrontare le contingenze imprevedibili ed urgenti, che richiedono degli interventi immediati.
Il nostro ordinamento giuridico e quindi il nostro Stato di diritto trae la sua origine dalle fonti legislative e la principale è proprio la Costituzione, la quale stabilisce all’art.78 che << Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri assoluti>>.
Quindi la Costituzione prevede una sola ipotesi di stato di emergenza, ossia quella dello stato di guerra ed in seguito a tale decisione si applica il diritto interno di guerra, producendo di conseguenza alcune specifiche deroghe ai principi costituzionali
Il decreto del Presidente del Consiglio del 8 marzo del 2020 era illegittimo anche perché non fissava alcun termine e non specificava i poteri delegati, ma presentava solamente una vaga elencazione di poteri che nella mancanza di definizione della loro modalità di esercizio consentiva l’adozione di indeterminati atti.
Inoltre lo stato di guerra concerne soltanto l’ipotesi di guerra scoppiata fra Stati e non prevede l’ipotesi di guerra civile interna allo Stato, per la quale, invece, la Costituzione dispone la proclamazione dello stadio di assedio.
La questione più rilevante riguarda non solo Il fatto che la Costituzione italiana prevede un’unica ipotesi di stato di emergenza (lo Stato di Guerra) e dispone che siano le Assemblee rappresentative a deciderlo, ma anche che, una volta decretato e poi dichiarato dal Presidente della Repubblica, è sempre il Parlamento a conferire al Governo i necessari poteri e ad estenderne le competenze in funzione della gestione dello stato di guerra.
Il Parlamento anche durante l’ipotetica emergenza bellica continuerà comunque ad esercitare il suo controllo costituzionale sul Governo, in particolare controllando le modalità con le quali il Governo attua i poteri che ad esso sono stati conferiti.
Inoltre, tutti quegli atti emanati per affrontare l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia, secondo la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, erano di competenza del ministro della Salute e non del Presidente del Consiglio, il quale così facendo ne ha usurpato i poteri, accentrandoli “contra legem” nelle sue funzioni.
Inoltre, trovo alquanto sconcertante questa complicità della maggior parte degli organi di informazione e di comunicazione nel reiterare il messaggio di compilare il modulo di autodichiarazione qualora si decidesse di circolare, come se la sua redazione fosse imposta dalla legge.
Quando nessuna legge, neanche i dpcm di Conte (infatti nessuno lo dispone, neanche l’ultimo dpcm emesso il 10 aprile) possono obbligare ad autocertificare alcunché, perché l’utilizzo dell’autodichiarazione, secondo la legge n. 445 del 28 dicembre 2000, risponde ad un diritto soggettivo e quindi non ad un obbligo, tanto più che l’art. 49 della stessa legge dispone che << I certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti non possono essere sostituiti da altro documento, salvo diverse disposizioni della normativa di settore >>, escludendo la possibilità di ricorrere in questi casi all’autodichiarazione e qualora venisse chiesto dalle forze dell’ordine la sua compilazione, per certificare il motivo della circolazione del cittadino che è sottoposto a controllo, sarebbe un atto doppiamente illegale.
Questo forzato messaggio subliminale di far compilare l’autodichiarazione forse nasconde l’intento da parte del Governo di indurre i cittadini, nell’elemento soggettivo di opinio legis ac necessitatis, che essa sia disposta dalla legge, con la conseguenza che il cittadino osservando la sua compilazione la renda una consuetudine e quindi una fonte del diritto, affinché il Governo risulti estraneo a qualsiasi responsabilità di aver imposto l’autodichiarazione.
Questa condotta governativa determina delle gravi conseguenze giuridiche, prima fra tutte la possibile imputazione di attentato alla Costituzione a carico di Conte, un grave reato penale che a sua volta genera degli effetti giuridici di natura civilistica.
Secondo l’art. 283 del codice penale << Chiunque, con atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di Governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni >>.
La norma presa in considerazione configura l’potesi del tentativo, disciplinando e sanzionando la commissione di atti violenti diretti ed idonei a mutare la Costituzione formale o la forma di Governo.
Quindi la norma non prevede un’ipotesi di reato in senso naturalistico, prevedendo la punibilità di atti che solamente siano idonei al raggiungimento dello scopo.
Riguardo all’altro elemento costitutivo del reato, ossia la violenza, va suddivisa in quella propria e in quella impropria.
La violenza propria si riferisce all’impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, esercitata direttamente o per mezzo di uno strumento.
Mentre la violenza impropria va considerata quando si utilizza un qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione e la condotta di Conte potrebbe configurare proprio questa fattispecie di reato.
Ad ogni modo, il requisito dell’idoneità postula un necessario accertamento da parte del giudice circa il pericolo concreto che la condotta ha causato nei confronti del bene giuridico, sicché il requisito dell’idoneità va valutato secondo il procedimento della prognosi postuma ex ante a base totale o parziale (ex art. 56 c.p,)
Detto ciò, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale determina la sanzione risarcitoria per i fatti in sé della lesione, il così detto “danno evento”, indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (“danno conseguenza”).
Ciò perché l’art. 2043 c.c., riguardante la responsabilità extra contrattuale per il risarcimento per fatto illecito, risalente alla Lex Aquilia del Corpus Iuris Civilis Romanus, se viene correlato agli articoli 2 e seguenti della Costituzione, ricomprende nella sua estensione non solo i danni patrimoniali, come il danno derivante dalla riduzione della libertà economica ( ex art. 41 Cost.) che a sua volta causa ingenti perdite alle finanze dei lavoratori (primi fra tutti i lavoratori autonomi) e come il danno emergente ed il lucro cessante (ex art. 1223 c.c.), ma ricomprende anche tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, come il danno morale derivante dalla riduzione delle libertà individuali di circolare (ex art. 16 Cost.) e dal disagio psicologico e quindi esistenziale che tale stato di polizia, instaurato con i dpcm di Conte, ha causato a danno dei cittadini ( ex art. 2059 c.c.).
Riguardo al diritto costituzionale della libertà di circolazione, l’art. 16 Cost. dispone che << ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. >>.
Dal primo comma si evince che soltanto per motivi di sanità e sicurezza si può limitare la libertà di circolazione di un cittadino, ma questa limitazione deve rispettare i seguenti principi:
la riserva di legge, anche se questa riserva è relativa e non assoluta, visto che le limitazioni possono essere disposte in via generale per motivi di sanità e sicurezza, spetta comunque alla legislazione ordinaria (ossia al Parlamento) e non agli atti aventi forza di legge, l’esclusiva competenza di disciplinare le modalità di restrizione della libertà di circolazione; quindi la suddetta competenza non appartiene al Presidente del Consiglio, il quale, oltre tutto, ha disciplinato le attuali limitazioni con un atto avente forza di legge decisamente incostituzionale, perché non delegato dal Parlamento, ma delegato dal suo stesso Governo;
la riserva di giurisdizione, ossia che soltanto l’autorità giudiziaria può emanare provvedimenti restrittivi (habeas corpus ad subjiciendum);
l’obbligo di motivazione, ossia che ci deve essere sempre un valido motivo che giustifichi ogni provvedimento restrittivo di tale libertà.
Per chi replica a tali mie considerazioni, basate su dati giuridici oggettivi, che questo abuso di potere da parte di Conte, trae origine e giustificazione dalla presunta lacuna della Carta Costituzionale che non prevede uno stato di emergenza sanitaria, ignora che la Costituzione ha volutamente preso in considerazione l’eventualità di porre dei limiti per i soli casi di urgenza e di pericolo riferiti a ciascuna singola libertà, al fine di non avallare nessuna deriva arbitraria e di cessione di autorità in cui si troverebbe l’Italia se avesse nella sua Costituzione gli articoli 48-49-50-51-52-53-54 della legislazione speciale della Costituzione Ungherese, che disciplinando i casi di eccezione e d’emergenza consegnano il potere assoluto al Presidente del Consiglio…..
In finale, sarebbe stato costituzionalmente corretto che fosse il Presidente della Repubblica ad emettere dei decreti presidenziali per prendere le decisioni più urgenti e più importanti per affrontare quest’emergenza, invece di consentire l’abuso di dpcm, peraltro incostituzionali.
È dal 1994, cioè da un quarto di secolo, che la politica italiana, sentendosi delegittimata – ed essendolo, sia per la sua intrinseca fragilità, sia per non essere in grado di produrre sussulti di dignità – tenta disperatamente di recuperare credibilità agli occhi degli italiani cercando di dismettere i panni della Casta e facendo proprie le parole d’ordine che certificano il suo discredito. In una parola, cavalcando l’anti-politica. Non capendo che così facendo non avrebbe mai potuto recuperare la popolarità perduta – cosa che avrebbe richiesto una maschia rivendicazione delle proprie prerogative, accompagnata da un uso oculato e votato alla cura dell’interesse generale delle medesime – ma avrebbe firmato la sua condanna a morte. Così è stato, nel corso della Seconda Repubblica, con il qualunquismo e il leaderismo dell’epopea berlusconiana e con il giustizialismo, o quantomeno l’assuefazione ad esso, della sinistra unificata dal collante (l’unico) dell’anti-berlusconismo. Così è stato con il populismo renziano, seppur mascherato da modernità riformista, che ha avuto il suo apice con il referendum costituzionale che doveva cancellare il Senato e di conseguenza mandare a casa un po’ di parlamentari per conseguire l’obiettivo di risparmiare denari dei contribuenti e rifilare sonori calci nel sedere ai collezionisti di poltrone e privilegi. Persino la montiana Scelta Civica, che pure avrebbe dovuto essere immune dalle semplificazioni populiste, si presentò con un programma in cui si diceva che un Parlamento più snello sarebbe costato meno e avrebbe reso di più.
Tutto questo ha riabilitato la classe politica, i partiti e le istituzioni? Niente affatto. Al contrario, ha aperto la strada all’affermazione del populismo esplicito, declinato sia in termini di demonizzazione della democrazia rappresentativa sia in termini di nazionalismo sovranista. Ed ecco che a completamento di questo percorso suicida è arrivato ora l’ultimo atto di espiazione della politica che si giudica, o che accetta di essere giudicata, infetta: il taglio del numero dei parlamentari. Via 230 seggi alla Camera e 115 al Senato, che così si risparmiano soldi altrimenti sprecati – circa 80 milioni l’anno, che se anche fossero i cento sbandierati dai 5stelle sarebbero una goccia nel mare della spesa pubblica nazionale (lo 0,007% secondo l’Osservatorio dell’università Cattolica) – e si rende più celere l’attività legislativa, come se la qualità della produzione normativa fosse inversamente proporzionale al numero di coloro che se ne occupano (con questo principio l’azzeramento del Parlamento dovrebbe corrispondere al massimo rendimento legislativo).
Il risultato è che il Parlamento eletto con il nuovo tetto si ritroverebbe un enorme problema di rappresentanza, senza eguali in Europa. Nel 1948, i padri costituenti avevano stabilito che il numero dei parlamentari fosse correlato alla popolazione: un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila. Un principio poi abbandonato con la revisione costituzionale del 1963, che ha stabilito che gli eletti siano in totale 945, più i senatori a vita. Rispetto alla popolazione di oggi in Italia, un deputato ogni 96mila abitanti e un senatore ogni oltre 188mila. Adesso si passerebbe a un deputato ogni 151.210 abitanti, cioè 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, e a un senatore ogni 302.420. E siccome ogni altro paese europeo ha il rapporto “abitanti/eletti” più alto, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché andiamo cercando questo primato se non per vellicare le pulsioni qualunquiste che si presumono essere maggioritarie tra gli italiani, a nostro giudizio sbagliando.
Lo dimostra il fatto che questo provvedimento, voluto da sempre dai grillini ma mestamente votato anche dal Pd che finora l’aveva avversato, si accompagna con il proposito di concedere il voto a chi ha compiuto 16 anni e di equiparare l’età di accesso a Camera e Senato. Apparentemente si tratta di questioni diverse, ma in realtà c’è un filo rosso che le lega. È l’idea della “piramide rovesciata”, cioè dell’allargamento della base elettorale – senza porsi il problema se chi ha accesso al voto abbia le cognizioni minime per esercitare quel diritto cum grano salis – e nello stesso tempo del restringimento del vertice dirigente, al quale viene negato lo status di élite e viene riservata non la responsabilità di guidare il paese ma il ruolo di mera cassa di risonanza delle istanze del popolo. Il tutto condito con la proposta – ideale degli ideali – di una democrazia diretta dove l’eletto è semplicemente un tramite per rappresentare l’elettore e dunque non si distingue per le idee politiche che propone ma per la più o meno alta capacità di dare eco alle idee – e pazienza se sono emissioni gastriche – dei rappresentati. Va da sé che una democrazia di tal fatta assume fatalmente caratteri plebiscitari e nello stesso tempo diventa, per la sua debolezza, vittima di altri poteri (vedi il dominio indiscusso, dal 1992 in poi, della magistratura).
Ora diteci voi se in una democrazia malata e in un paese in declino, dove i doveri sono stati ampiamente soverchiati dai diritti e in cui scuola e università sono i capisaldi di una crescente e pericolosa ignoranza civica, si sentiva il bisogno di dover decidere se concedere il voto ai sedicenni. E fa specie che a dare la stura a questa surreale discussione sia uno degli uomini migliori della classe politica più recente, Enrico Letta. Forse gli è sfuggita la ragione per cui praticamente in nessun paese occidentale ragazzi cui è vietato guidare un’auto o acquistare alcolici venga concesso il diritto di contribuire a formare la classe dirigente, ma soprattutto il fatto che così facendo si contribuisce ad indebolire la nostra già precaria democrazia. Il bello è che – lo ha scritto persino un intellettuale di sinistra di solito attestato sul politicamente corretto come Maurizio Maggiani – oggi non c’è un sedicenne o un diciasettenne che senta l’ansia di poter accedere in anticipo alla cabina elettorale, non fosse altro perché conosce e frequenta i ragazzi più grandi che quel diritto l’hanno già avuto e che, ammesso che l’abbiano usato, non ne hanno ricavato alcun motivo di soddisfazione e maturazione.
Vabbè, nella speranza che si tratti della solita bolla comunicativa destinata a durare lo spazio di un mattino, torniamo al taglio dei parlamentari che invece è già stato approvato in via definitiva, anche se diventerà legge tra tre mesi salvo che nel frattempo non venga chiesto un referendum confermativo. Una consultazione di cui, al contrario di quanto pensa il nostro amico Michele Ainis, non sentiamo la necessità. Se ci fosse voteremmo e suggeriremmo di votare per il ripristino degli attuali parlamentari – ben sapendo che per qualità e consistenza politica, ce ne sarebbero da salvare poche decine ad esser generosi – ma se nessuno lo chiamerà, questo referendum, non ci stracceremo di certo le vesti. Per un semplice motivo: che da un male potrebbe nascere un bene. Ci riferiamo alla necessità – che è assoluta e inderogabile una volta resa esecutiva la norma costituzionale – di rivedere la legge elettorale. È infatti chiaro a tutti che non solo la riduzione degli eletti comporta giocoforza un ridisegno dei collegi elettorali per evitare che intere zone d’Italia rimangano prive di rappresentanza, ma che è anche il dosaggio tra parte proporzionale (due terzi) e quota maggioritaria (un terzo) dell’attuale meccanismo elettorale che va messo in discussione perché con meno parlamentari da eleggere produce distorsioni evidenti. Dunque, o la riduzione del numero degli eletti viene bloccata – e a questo punto può farlo solo una consultazione referendaria – oppure occorre mettere mano alla legge elettorale.
Chi ci segue sa che quella con cui abbiamo votato l’anno scorso, il cosiddetto “rosatellum”, non ci piace, ancorché sia meglio (meno peggio) del precedente “porcellum”. Dunque, toglierla di mezzo potrebbe essere un vantaggio. L’unico che una scelta altrimenti scellerata è destinata a produrre. Naturalmente, un vantaggio a patto che la riscrittura della normativa che riguarda il voto migliori e non peggiori le cose. Il dibattito che si è già aperto ci induce alla cautela, specie quando si pretende di ibridare le esperienze altrui che sono più che sperimentate. Il nostro cuore, lo sapete, pulsa da sempre per il sistema tedesco: proporzionale con sbarramento e sfiducia costruttiva in caso di caduta di un governo. A maggior ragione lo riteniamo il più adatto a rendere migliore la rappresentanza nel momento in cui si è scelto di fare dell’Italia il paese europeo con il minor numero di eletti in una camera bassa. Possiamo, nel discutere della riforma elettorale, partire da questo dato?
Articolo scritto da Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Storicamente le emergenze e le crisi hanno agevolato l’anomia e di conseguenza l’autoritarismo.
Quando subentrano le emergenze mondiali, come quella che stiamo vivendo a causa del Covid-19, emergono tutte le fragilità dei sistemi democratici, emerge anche in Italia quella atavica tendenza, insita nell’istintuale natura dell’uomo, verso modelli di controllo e di stato di polizia, tipici dei regimi totalitari, come sta accadendo in Ungheria.
La democrazia alla deriva già con la crisi finanziaria del 2008
La giustificazione della situazione straordinaria di necessità ed urgenza crea le condizioni politiche per limitare se non sospendere le garanzie costituzionali, in modo tale da assopire e paralizzare qualsiasi reazione democratica da parte dell’opinione pubblica che, inerte, sembra accettare tutto come una “condicio sine qua non”.
Già con la crisi finanziaria del 2008 si manifestarono i prodromi di questa deriva invasiva e totalitaria, con la creazione di strumenti declinati sia a livello nazionale e sia a livello internazionale, come ad esempio l’abolizione del segreto bancario, lo scambio di dati finanziari, ma soprattutto con la creazione di una normativa antiriciclaggio invasiva ai limiti dell’assurdo, senza per altro ottenere rilevanti risultati nella lotta all’evasione e alla corruzione, ma ottenendo solamente il pessimo risultato di danneggiare e rallentare l’economia reale, soprattutto quella delle piccole e medie imprese.
In Italia sono stati sviluppati ed ampliati ulteriormente i poteri dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, eliminando quasi tutte le garanzie costituzionali a favore dei contribuenti, che grazie a questa normativa restrittiva si sono ritrovati ad essere considerati tutti dei potenziali evasori fino a prova contraria.
Leggi che hanno generato giustizialismo e ridimensionato il Parlamento
I vari governi hanno escogitato le forme più abiette per penalizzare la libertà economica dei contribuenti, arrivando ad incrementare l’utilizzo del sequestro preventivo.
Grazie a questa escalation si è passati ad esercitare il più bieco giustizialismo generando leggi che di fatto hanno abolito la prescrizione e hanno ridimensionato il ruolo del Parlamento, limitandolo alla mera ratifica dell’attività del governo.
La grave crisi sanitaria generata dal Covid-19 ha dato il via all’applicazione di un modello sostanzialmente autoritario, che con l’emissione di una raffica di decreti del presidente del consiglio e di ordinanze del ministero della sanità ha di fatto sancito la fine dei nostri diritti costituzionali ed il controllo assoluto di ogni libertà di movimento e la chiusura di ogni attività professionale, reprimendo così la libertà economica.
Volente o nolente, il sistema politico, economico e sociale, a cui eravamo abituati fino a quando non è iniziata la diffusione della pandemia del Covid-19, non lo vivremo più.
Il nostro futuro modello di vita si avvicinerà per molti aspetti operativi e quindi sostanziali, sempre in nome dell’emergenza sanitaria, ad un modello simile a quello ungherese, in cui la democrazia sarà sospesa per ragioni di ordine pubblico e per garantire la salute e l’incolumità della collettività.
Questa pandemia non sta uccidendo solamente un gran numero di vite umane, colpendo le nostre relazioni umane, ma sta uccidendo anche le nostre istituzioni, sta mettendo in una duratura quarantena anche la nostra stessa democrazia, addormentando in uno stato comatoso, potenzialmente irreversibile, la nostra Costituzione.
I cittadini italiani sono spauriti in un limbo di incertezze psicologiche ed economiche mai vissute, forse neanche dai loro nonni durante la seconda guerra mondiale.
Stato di necessità che esautora il Parlamento e porta all’autoritarismo
Il Parlamento è latitante nelle sue prerogative costituzionali, ossia le attività legislative, il Governo esercita le sue funzioni dopo il “tramonto”, utilizzando come mezzi di comunicazione i social media.
Conte, sempre in nome della sua emergenza, esercita le sue funzioni esautorando il Parlamento e limitando i nostri diritti costituzionali a forza di decreti emessi, dopo laceranti discussioni.
Un aspetto ancor più preoccupante è l’aumento di conflittualità che emerge nei rapporti tra Governo, Regioni ed Enti Locali, una conflittualità mai vista in questi termini nella storia della Repubblica italiana.
Lo stesso Capo dello Stato si è ritrovato a dover assistere sgomento e senza poter intervenire per limitare in modo incisivo questo modus operandi dell’attività governativa.
Per quanto lo stato di emergenza dovuta alla pandemia del Covid-19 imponga ogni importante decisione in tempi rapidi su quali interventi compiere per fronteggiare la grave situazione sanitaria, non si possono comunque mortificare e depotenziare le funzioni attribuite dalla Carta Costituzionale al Presidente della Repubblica italiana ed al Parlamento, fondamentale organo costituzionale per il controllo dell’attività governativa e per l’esercizio di quella legislativa.
Per questi motivi è essenziale che il Governo abbia un confronto reale con il Parlamento e anche con l’opposizione e questo potrà accadere solamente quando il Parlamento tornerà a riunirsi regolarmente per esercitare le funzioni che gli attribuisce la Costituzione italiana, fonte primaria e fondamentale del nostro sistema democratico.
Anche perché, se siamo in presenza di un’emergenza che ricorda le emergenze belliche e quindi di portata storica, ciò postulerebbe la formazione di un governo di unità nazionale e in mancanza, sarebbe almeno opportuna una costruttiva e solidale collaborazione tra Governo e opposizione.
Tornare a far funzionare il Parlamento e confronto con l’opposizione
Il numero di volte in cui Conte si è concesso all’ascolto dell’opposizione, solo due volte e solo perché suggerito dal Presidente della Repubblica, denota una qualche superbia a danno degli interessi nazionali, visto che certi errori commessi all’inizio della diffusione della pandemia potevano essere evitati o se non altro limitati nei loro effetti.
Il modus operandi dell’azione governativa ha compromesso e minato lo stato di diritto della nostra Nazione, comprovato dal fatto che la riduzione delle libertà personali e delle libertà economiche disposta tramite il dpcm, ha impedito un controllo parlamentare, solo tardivamente recuperato nei successivi decreti legge.
Intervista al prof. Sabino Cassese pubblicata su Il Dubbio
Colloquio con piacere con il professor Sabino Cassese. Ma più che una intervista è un dialogo su tematiche molto delicate che l’emergenza Coronavirus ha evidenziato. Cominciamo così.
Caro Sabino, se siamo in guerra, sia pure anomala, allora vale quanto meno per analogia l’articolo 78 della Costituzione: le Camere conferiscono al governo i poteri necessari. E non, si badi, i pieni poteri. E’ così?
Nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato ( art. 117, II comma, lettera q).
Lo Stato agisce con leggi, che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza «contingibile e urgente», cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà.
Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza.
Bene. Il Parlamento ha conferito quei poteri al governo con un decreto legge. Ma è sufficiente quel tipo di provvedimento? Senza contare che quel decreto legge è andato oltre. Ha consentito che le predette autorità possano adottare misure ulteriori rispetto a quelle dell’articolo 1. Ma, in punto di diritto, è legittimo tutto questo? Non si tratta di una sorta di delega in bianco?
Il primo decreto legge era illegittimo: non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri.
A palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo. Poi si è rimediato. Ma continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento, tutto imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa.
Andiamo avanti. Sui Dpcm il capo dello Stato non ha voce in capitolo. A suo avviso, quell’oggetto misterioso che è il Consiglio supremo di difesa potrebbe avere una qualche voce in capitolo? O questo vale solo per il caso di guerra?
Mi chiedo: perché evocare il Consiglio supremo di difesa, se non c’è un evento bellico, e specialmente se c’è lo strumento per far intervenire uno dei tre organi di garanzia, il presidente della repubblica?
Bastava, invece di abusare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ricorrere, almeno per quelli più importanti, a decreti presidenziali.
Aggiungo che, per la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente a emanare più della metà di quegli atti era il ministro della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è avvicinati.
Sabino, si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura rappresentano un correttivo della forma di governo parlamentare per i poteri che acquista il presidente del Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non parlare del presidente della Repubblica e, soprattutto, del Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo e di controllo è andata a farsi benedire.
Gli organi di garanzia più diretti sono il presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. Quest’ultima, salvo casi eccezionali, interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente della Repubblica, invece, collaborano nella funzione normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie preferenziali o di emergenza.
Tu non sei pregiudizialmente contrario a che per qualche tempo limitato il Parlamento lavori da remoto. Ma ci sono attività informali che solo a Montecitorio e a Palazzo Madama funzionano a dovere. Come i contatti tra leader di partito, tra capigruppo, tra parlamentari dei vari partiti eccetera.
Senza dubbio. Tanto che ho ritenuto errata l’espressione votazione telematica. Infatti, il lavoro a distanza è possibile a due condizioni. La prima che le Camere siano attrezzate ( e pare che non lo fossero). La seconda che in via telematica si possa ascoltare, intervenire, discutere, dibattere, replicare, e solo alla fine votare.
Perdonami. Con qualche esagerazione, premesso che da noi non c’è nulla di più definitivo del transitorio, ho personalmente sottolineato il rischio che le sedi istituzionali delle Camere cambino destinazione e diventino musei per la gioia dei visitatori. E’ solo una battuta?
Quando si parlò dello SDO, Sistema direzione orientale, l’idea venne presa in considerazione. Sollevarla in questo momento mi pare sbagliato. Poi, c’è da valutare l’interesse storico artistico rispetto alla funzionalità materiale dei luoghi.
Per finire. Si può capire che i Costituenti ebbero orrore a parlare di stato di emergenza. Ma con il senno di poi, alla luce della guerra contro il virus, non fu un errore questa omissione? E come colmare, a tuo avviso, questa lacuna?
Non la ritengo una lacuna. E chi abbia letto gli articoli 48 e seguenti della Costituzione ungherese sa quali pericoli si annidino in norme costituzionali di quel tipo. C’è poi l’esperienza negativa della Costituzione di Weimar. L’unica positiva mi pare quella dell’articolo 16 della Costituzione della V Repubblica francese. La Costituzione non ha peraltro ignorato la questione, solo che ha considerato la possibilità di disporre limiti dettati dalla urgenza e dal pericolo caso per caso, per singole libertà.
Articolo scritto da Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
La crisi economica causata dall’emergenza pandemica del covid-19 impone tempi rapidi nel concretizzare l’accordo dell’Eurogruppo, affinché l’Unione Europea non entri una esiziale depressione macroeconomica.
Dopo 16 ore di negoziato nella notte tra il 5 e il 6 aprile, in cui l’Olanda aveva manifestato tutta la propria contrarietà a ratificare un’intesa, cui invece avevano aderito tutti gli altri ministri delle Finanze dei Paesi membri, ieri 9 aprile, è proseguita la riunione che era stata interrotta, con la speranza che l’Olanda rivedesse la sua rigida posizione.
Le proposte al vaglio dell’Eurogruppo
L’ordine del giorno si è basato su 4 misure da decidere: la prima riguarda l’applicazione del Meccanismo europeo di Stabilità, che permetterebbe l’erogazione di prestiti ai Paesi membri; la seconda misura riguarda se fruire della Bei, la Banca europea degli investimenti; un’altra questione riguarda l’utilizzo del Sure, il nuovo fondo proposto dalla Commissione europea per permettere ai governi dei rispettivi Paesi membri di finanziare la cassa integrazione; l’ultima misura si riferisce alla proposta francese di creare un nuovo fondo finanziato con obbligazioni congiunte di tutti i Paesi membri.
Il ministro dell’economia francese, Bruno La Maire ha sostenuto che questo nuovo fondo, che non è alternativo alle altre tre misure in esame, possa attivare la ripresa economica dell’Unione Europea, con un’operatività di 5/10 anni.
Il suddetto Fondo permetterebbe la creazione di bond con diverse garanzie condivise di tutti gli Stati dell’Unione europea.
La gestione spetterebbe alla Commissione europea, la quale in questo modo potrebbe finanziare programmi ben definiti per rilanciare l’economia reale, rispettando il Green Deal e la strategia industriale prevista dalla Commissione europea lo scorso 10 marzo.
Ciò sarebbe fondamentale per attivare la ricollocazione delle catene di valore strategiche nella zona euro.
Ogni Paese membro contribuirebbe al finanziamento di questo Fondo attraverso dei contributi o in alternativa con una tassa di solidarietà.
Ogni Paese membro riceverebbe beneficio in rapporto ai danni economici subiti a causa del Covid-19.
La solita demagogia propagandistica italiana ha portato ad affrontare il dibattito interno su tali misure riducendo il confronto ad una grottesca e squallida discussione da bar, partendo dal fatto che l’accettazione dell’utilizzo del Mes fosse o non fosse un tradimento nazionale.
In realtà, come sempre, la questione è molto più complessa di quanto certe forze politiche intrise di populismo cerchino di raccontarci, perché il ricorso al Mes non è obbligatorio, ma l’aspetto importante è che qualora l’Italia decidesse di ricorrere al Mes, lo potrebbe fare a condizioni diverse e più vantaggiose di quelle che ci sarebbero state se l’Olanda non avesse accettato il compromesso di limitare l’utilizzo del Mes solo per affrontare l’emergenza sanitaria attuale.
Da questo accordo, tutte le forze politiche italiane dovrebbero ricavare un motivo di gioia per l’approvazione unanime da parte di tutti i Paesi membri riguardo alla misura del nuovo Fondo, proposto dalla Francia, che permetterà la creazione di nuovi Bond, i quali porteranno liquidità nell’economia reale dell’Italia.
Ormai il dibattito politico e la qualità e la competenza dei protagonisti della politica italiana hanno raggiunto un così basso livello, che pensare o pretendere che ci sia un livello adeguato per dibattere su queste 4 misure prese dall’Eurogruppo, è del tutto utopistico….
Tornando all’accordo preso dall’Eurogruppo, in realtà l’unica misura che ha alimentato lo scontro tra l’Olanda e gli altri Paesi membri ha riguardato le modalità di applicazione del Mes.
La rigidità dell’Olanda nasce dalla propaganda nazionale
In quanto l’Olanda ha preteso che ci fossero precise condizioni economiche per l’utilizzo del prestito, al contrario dell’Italia che si è opposta con decisione, anche se poi l’Italia ha dato la sua disponibilità ad accettare un compromesso che però l’Olanda in modo irriducibile ha rifiutato fino a cedere durante quest’ultima riunione, dopo che aveva esercitato anche il potere di veto sull’accordo.
Se prima le parti del contendere erano diverse, nel finale si era delineata una surreale situazione in cui l’Olanda era sola nella sua inamovibile posizione contro tutti gli altri Paesi, altresì concilianti ad aderire ad un accordo.
L’accordo raggiunto da tutti i Paesi membri verte sul fatto che il Mes vada utilizzato per affrontare l’emergenza sanitaria, per poi essere utilizzato in funzione della crescita macroeconomica.
La rigidità della posizione olandese anche se sembrava incomprensibile, in realtà nasceva dalle solite esigenze di propaganda nazionale, visto che si stanno avvicinando le elezioni elettorali olandesi.
Infatti, in Olanda è in atto uno scontro elettorale tra il ministro delle Finanze Wopke Hoekstra del partito democristiano Cda ed il premier Mark Rutte, appartenente al partito liberale Vvd e per evitare di perdere, il premier olandese cerca di fare concorrenza al rivale giocando la sua stessa carta di rigidità.
Dopo che un vertice europeo a 27 e due riunioni dell’Eurogruppo si erano rivelati fallimentari, finalmente si è giunti ad un accordo tra tutti i Paesi membri, compresa, l’irriducibile e rigida Olanda.
L’intesa portata avanti da Berlino e Parigi ha permesso di accedere al Meccanismo europeo di Stabilità e all’istituzione di un nuovo Fondo possibilmente finanziato da titoli in comuni, che ammontano al valore di 500 miliardi di euro.
Si tratta di un pacchetto da 1.000 miliardi di euro e al riguardo il commissario agli affari economici Paolo Gentiloni ha tenuto a sottolineare che si tratta di «un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese» ed impedire che sorgesse una divergenza tra le diverse economie dei Paesi membri. L’accordo raggiunto si basa sull’utilizzo in modo flessibile del Mes per «sostenere il finanziamento dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta così come i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi provocata dal COVID 19». Quando finirà l’emergenza i Paesi si impegneranno a rafforzare i loro fondamentali economici e a rispettare il quadro di bilancio.
Il prestito erogato potrà arrivare al 2% del Pil del paese debitore e ne potranno fruire tutti gli stati membri.
L’accordo raggiunto si riferisce ad un fondo legato al bilancio europeo, finanziato con “strumenti finanziari innovativi”, in linea con i Trattati (pari a 500 miliardi di euro, secondo Parigi). Lo strumento dovrebbe essere temporaneo, proprio per fronteggiare i costi straordinari causati dalla pandemia del Covid-19.
Nonostante che l’Olanda avesse opposto ad oltranza tutta la sua resistenza sia ad accettare che fossero ammorbidite le condizioni di utilizzo del Mes e sia che venisse creato un nuovo Fondo finanziato da titoli congiunti, come proposto dalla Francia, alla fine sono state accettate entrambe le misure da tutti.
La proposta francese è stata accettata sia dall’Olanda che dalla Germania, la quale in queste settimane sorprendentemente si è rivelata disponibile ad accettare queste “rivoluzionarie” decisioni sul fronte della spesa pubblica, forse anche perché l’ultimo sondaggio Politbarometer della rete televisiva pubblica ZDF di ieri riportava che il 68% dei tedeschi sarebbe favorevole ad «aiuti europei a favore di Italia e Spagna sulla scia della pandemia influenzale».
L’accordo si è raggiunto grazie al facile compromesso sul Bei e sul Sure e ad una difficile e lacerante discussione dell’Eurogruppo sulle condizioni del Mes e sulla creazione del nuovo Fondo.
Comunque è necessario ribadire che per quanto riguarda le due ultime misure ci dovranno essere ancora degli incontri per ulteriori negoziazioni. Quello di ieri non è che un primo passo di un lungo negoziato che scatterà dopo che i capi di Stato e di governo avranno approvato l’accordo raggiunto.
Ovviamente il debito con il Mes avrà una scadenza da rispettare, infatti è previsto che venga estinto entro massimo 10 anni, .
Le possibili condizioni dell’accordo
L’estinzione del debito con il Mes imporrà sicuramente un ferreo programma di politche economiche che ciascun Paese membro, che fruirà di tale fondo, dovrà applicare in modo intransigente.
L’utilizzo del fondo intergovernativo del Meccanismo europeo di stabilità potrebbe determinare queste conseguenze:
aumento delle tasse sulle società di spedizione;
tutta l’IVA al 23%, anche su servizi come ristorazione e catering;
eliminazione della pensione di solidarietà;
taglio di 300 milioni di euro della spesa militare;
privatizzazione dei porti e vendita della partecipazione della società di telecomunicazione OTE.
Secondo il Trattato dell’Unione europea, la Commissione e i rappresentanti dei governi membri saranno i responsabili del controllo post-programma dei Paesi che riceveranno tali aiuti.
Infatti il Mes dispone che “se un Paese dovesse mancare un pagamento programmato, potrebbe mettere in discussione la capacità del Mes di agire in una crisi futura influenzando la capacità finanziaria e l’affidabilità creditizia”.
Il Mes monitorerà tutte le scadenze di interessi, commissioni e rimborsi principali, con almeno 12 mesi di anticipo.
Inoltre controllerà, con un anno di anticipo, il bilancio dello Stato e anche le relative prospettive di crescita economica, in base alle analisi compiute dalla Commissione UE.
Se la Commissione incaricata di valutare i rischi interni al Mes dovesse avere dei seri dubbi sulla capacità di ripagare il debito da parte del Paese membro che lo ha ricevuto, il Meccanismo sarebbe costretto a consultare la Commissione UE e la BCE per valutare la situazione e le sue potenziali conseguenze in modo più analitico e sarebbe anche costretto ad informare i suoi membri, tramite il consiglio di amministrazione, del pericoloso rischio.
Da questa lacerante discussione che si è svolta prima di arrivare a questa ufficiosa intesa è emerso ulteriormente quanto gli interessi personali e di partito e di propaganda elettorale prevalgano sugli interessi dell’Unione europea e quindi anche sugli interessi degli stessi Stati membri, recando danni importanti a tutti i cittadini dell’Unione Europea.
La condotta tenuta dall’Olanda è esecrabile non solo per la sua non costruttiva intransigenza, ma anche e soprattutto perché questa intransigenza non nasceva dall’esigenza di tutelare gli interessi dei cittadini olandesi, ma da quella di cercare di ottenere un consenso elettorale da parte dell’attuale premier liberale Mark Rutte , che invece di contrastare il ministro delle Finanze su temi e posizioni da vero statista, ha abbassato il suo livello politico assecondando le solite derive populiste e demagogiche che ahimè stanno caratterizzando la campagna elettorale del partito democristiano di cui fa parte il ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra.
Se esiste un comun denominatore nell’Unione europea tra tutti i Paesi membri sono proprio le deleterie tendenze populiste che non desistono ad alimentano l’irrazionale rabbia, fondando le loro tesi su una demagogica incompetenza e basando la loro politica sempre su una sterile e superficiale protesta, senza proporre alcuna valida e fattibile proposta.
Da questa emergenza sanitaria e di conseguenza economica in cui l’Unione europea, come del resto tutto il mondo, si trova, i Paese membri potrebbero trarre una valido insegnamento su quanto siano inutili e dannosi tutti quei politici che aizzano i cittadini contro misure che sono state proposte e accettate per risolvere la crisi o almeno per provare a farlo, perché ogni ritardo nel decidere determina un grave danno economico e sociale per tutta la collettività europea.
Infatti in questo frangente storico si è creata una sorta di livella che ha ridotto la distanza tra i Paesi europei più ricchi e virtuosi e i Paesi europei più deboli con un alto debito pubblico, in quanto sia la severa Germania e ora forse anche l’Olanda, hanno alla fine compreso che ogni economia è vincolata a quella degli altri Paesi membri, al punto che la Merkel, prima che iniziasse l’incontro dell’Eurogruppo, ha proferito testuali parole: “il benessere della Germania dipende dal benessere dell’Europa […]“.
L’Olanda vero paradiso fiscale per le multinazionali
Inoltre è importante sottolineare che tutti quei Paesi membri che, come l’Olanda, si dimostrano intransigenti e rigorosi nell’accettare dei compromessi, per quanto risultino apparentemente virtuosi, in realtà hanno molto da farsi perdonare.
In particolare, l’Olanda, che possiede un surplus di bilancio in crescita da 4 anni consecutivi, secondo quanto si evince anche da un’analisi della Tax Justice Network, ogni anno sottrae imposte del valore di 10 miliardi di dollari agli altri partner europei.
La commissione di esperti fiscali della Tax Justice Network ha redatto la classifica annuale delle maggiori giurisdizioni segrete nel mondo, in cui proprio la sedicente virtuosa Olanda risulta un sorta di paradiso fiscale che alla stessa Italia reca una danno di oltre 1,5 miliardi di dollari di mancati introiti fiscali e alla Francia di 2,7 miliardi di dollari, invece alla Spagna determina la perdita di quasi 1 miliardo di dollari e alla locomotiva europea Germania oltre 1,5 miliardi di dollari come per l’Italia.
Questo calcolo, sopra riportato, riguarda ovviamente solo le perdite provocate dallo spostamento di utili delle multinazionali americane verso l’Olanda, in cui l’aliquota effettiva sulle società può arrivare fino ad un minimo del 4,6% e quindi non considera le multinazionali delle altre nazioni.
La bipolarità olandese, che da un lato rivendica il rigore all’interno dell’Unione europea e poi applica una politica fiscale a dir poco “non ortodossa”, manifestando tutta la sua tolleranza su operazioni fiscali oscure, evidenzia una malafede di fondo che deteriora e rischia di compromettere definitivamente le fondamenta dell’Unione europea.
La verità è che il virtuosismo del bilancio olandese è falsato dalle occulte operazioni fiscali che vengono compiute all’interno del palazzo di vetro, al numero civico 200 della famosa piazza di Amsterdam, Prins Bernhardplein, dove si concretizza il paradiso fiscale, tramite le 2.499 società che all’interno di questo palazzo hanno la propria sede, ma che in realtà esistono solamente sulla carta, permettendo così all’Olanda di sfoggiare i suoi virtuosi numeri da prima della classe in Europa.
Da questo modus operandi dell’Olanda si generano i grandi successi economici nazionali, come ad esempio la diminuzione del debito pubblico che nel 2019 è sceso fino al 48,6% del Pil ed il bilancio nazionale che è arrivato ad un surplus di 14,1 miliardi di euro, ossia di 1,7% del Pil, raggiungendo i 3,5 miliardi in più del 2018.
Questa iniqua bipolarità olandese ha permesso all’Olanda di incassare più di quanto spende, raggiungendo i 34 miliardi di euro nell’avanzo di bilancio cumulato negli ultimi quattro anni.
Il numero più eclatante in tutta questa storia è quello che emerge dalle operazioni compiute dalle 15 mila società fantasma che hanno la sede all’interno del suddetto palazzo, le quali hanno spostato una ricchezze per 4.500 miliardi di euro, corrispondente a quasi sei volte il Pil olandese e due volte e mezzo quello italiano.
Le 15 mila società fantasma, insieme alle 25 mila multinazionali presenti in Olanda, generano un gigantesco giro d’affari, come la presenza di migliaia di studi legali con 17.500 avvocati e 2.800 praticanti, 170 società fiduciarie, 786 banche, 1.238 società assicurative e 92 di riassicurazioni, 850 fusioni e acquisizioni del valore di 80 miliardi di euro nel 2019, oltre al fatto che hanno incrementato il turismo e i movimenti degli uomini di affari in Olanda, che hanno portato nelle casse degli Olandesi un’entrata di 17 miliardi di euro e si sono sviluppate società di consulenza e di gestione, università.
La ricchezza dell’Olanda si basa proprio sulle multinazionali che generano il 40% dell’occupazione e l’80% del commercio verso l’estero, i 2/3 del fatturato privato e il 40% della produzione economica totale.
La Banca centrale dell’Olanda ha valutato che solo nel 2019 sono entrati circa 4.554 miliardi di capitali e sono usciti 5.561 miliardi di euro di investimenti di società domiciliate in Olanda verso altri Paesi, questi dati evidenziano quanto siano elevati i numeri di investimenti, soprattutto se li paragoniamo a quelli italiani, che invece hanno raggiunto i 373 miliardi di euro per quanto riguarda i capitali in entrata e i 484 miliardi di euro per quanto riguarda i capitali in uscita.
Quindi l’Olanda è diventato un centro di attrazione di investimenti diretti, tanto da raggiungere un valore che va da 5,4 e 6,6 volte il proprio Pil.
I dati della Banca centrale olandese riportano che gli investimenti, sia il 54,4% di quelli esteri che partono dall’Olanda verso l’estero, del valore di 3.047 miliardi di euro e sia il 60,7% di quelli che provengono dall’estero verso i Paesi Bassi, del valore di 2.767, sono compiuti da determinate società, denominate Spe, acronimo di Dutch Special Purpose Entities, le quali vengono anche chiamate Special Financial Institutions e sono proprio quelle 15 mila società fantasma con la sede ad Amsterdam, presso il palazzo di Prins Bernhardplein, al numero civico 200.
Secondo uno studio realizzato dal Cpb, ossia l’Ufficio per le analisi di politica economica del ministero degli Affari economici dell’Olanda, rivela che l’Olanda non ha imposto finora alcuna ritenuta d’acconto sulle royalties e di conseguenza ciò ha trasformato l’Olanda in un importante centro di passaggio di capitali, alquanto strategico, non a caso il 60% delle royalties che transita per l’Olanda proviene dal paradiso fiscale delle Bermuda….
In conclusione, da questo studio ufficiale si evince che i capitali provenienti dai paradisi fiscali passano per l’Olanda per poi riapprodare in altri paradisi fiscali, come le rinomate isole Cayman, Singapore, Emirati Arabi, Porto Rico ed i veri beneficiari di questi capitali sono quasi sempre le società statunitensi e britanniche.
Finché non si farà chiarezza, facendo emergere la trasparenza sulle politiche fiscali dei Paesi membri, avremo sempre reconditi e loschi interessi che ostacoleranno le riunioni dell’Eurogruppo e di tutte le istituzioni europee, prolungando in modo lacerante il tempo che serve per decidere su misure vitali per la sopravvivenza dell’Unione europea e dei milioni dei suoi cittadini, come avviene attualmente con l’emergenza sanitaria ed economica dovuta alla pandemia del Covid-19.
L’aspetto più vergognoso e ingiustificabile è dovuto proprio al fatto che queste resistenze e questa condotta ostativa dell’Olanda non ha fatto altro che procrastinare l’applicazione di misure da prendere urgentemente, danneggiando ulteriormente soprattutto quei Paesi membri economicamente fragili, i cui cittadini non hanno nessuna colpa se non quella di essere stati invasi dalla diffusione di una pandemia, unica nella storia moderna dell’umanità, a causa della sua portata.