TUN: ALLA CASSAZIONE L’ARDUO COMPITO (EX ART. 363-BIS C.P.C.) DI RISOLVERE IL CONFLITTO SULL’APPLICAZIONE DELLA TUN O DELLE TABELLE MILANESI E SULLA CONNESSA RETROATTIVITÀ

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TUN

La Cassazione è chiamata a chiarire se la Tabella Unica Nazionale per il risarcimento del danno non patrimoniale si applichi anche ai sinistri anteriori al 5 marzo 2025. Analisi dell’ordinanza del Tribunale di Milano e delle implicazioni giuridiche.

Introduzione

Con l’ordinanza del 18 luglio 2025, la sezione X civile del Tribunale di Milano (estensore Spera) ha sollevato una questione interpretativa di rilievo sistematico, disponendo un rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c., introdotto dalla riforma Cartabia. Oggetto del rinvio è l’ambito di applicazione temporale della Tabella Unica Nazionale (TUN) per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesioni gravi derivanti da sinistri stradali e responsabilità sanitaria, come prevista dal D.P.R. 12/2025 e dall’art. 138 Codice delle Assicurazioni Private (CAP).

L’interrogativo centrale è se tale tabella possa applicarsi anche ai sinistri verificatisi anteriormente al 5 marzo 2025, data di sua entrata in vigore. Il nodo interpretativo ha generato ampio dibattito dottrinale e un significativo contrasto giurisprudenziale.

Il quadro normativo: tra certezza e interpretazione estensiva

L’art. 5 del D.P.R. 12/2025 stabilisce espressamente l’efficacia della Tabella Unica a partire dal 5 marzo 2025, mentre l’art. 138 CAP ne definisce l’ambito oggettivo, limitandolo a danni da responsabilità civile auto e sanitaria.

Tuttavia, la Cassazione (sent. n. 11319/2025) ha già affermato in via incidentale che la TUN esprime valori equitativi di fonte superiore, in quanto provenienti dal legislatore, e che quindi potrebbe essere utilizzata in via analogica o sussidiaria anche per fatti anteriori, come parametro equitativo conforme all’art. 1226 c.c.

In tale prospettiva, la Tabella di legge diventerebbe un riferimento unificante per la giurisprudenza di merito, in un’ottica di maggiore uniformità valutativa tra casi analoghi.

L’importanza del rinvio pregiudiziale e la funzione della riforma Cartabia

Il Tribunale di Milano si avvale dello strumento innovativo del rinvio pregiudiziale introdotto dalla riforma Cartabia, che consente ai giudici di merito di sottoporre alla Suprema Corte una questione di diritto:

di difficile interpretazione; rilevante per la decisione del caso concreto; priva di precedenti risolutivi da parte della Cassazione.

L’obiettivo è favorire un dialogo ermeneutico preventivo tra giudici di merito e di legittimità, volto a scongiurare incertezze applicative in una materia che ha ricadute significative sul piano economico e sociale.

Il caso concreto: la discrepanza tra TUN e Tabelle milanesi

Il caso all’esame del Tribunale di Milano riguarda un incidente stradale del 2021, con danno superiore al 9%. L’applicazione della TUN comporterebbe una riduzione risarcitoria di circa 20.000 euro rispetto a quanto previsto dalle Tabelle milanesi 2024, sia per la componente biologica che per quella temporanea.

In particolare, le differenze liquidative riguardano anche la personalizzazione del danno e la componente morale, rispetto alle quali la TUN prevede parametri più restrittivi. Ciò mette in discussione la tenuta costituzionale del principio di integrale risarcimento, ex art. 32 Cost. e art. 2059 c.c.

I quesiti sottoposti alla Corte di Cassazione

Il Tribunale ha articolato tre quesiti, tutti centrati sul corretto parametro di riferimento che il giudice deve adottare nella liquidazione del danno non patrimoniale.

1. Obbligatorietà delle Tabelle milanesi :

se, per evitare la violazione di legge, il giudice debba continuare ad applicare le Tabelle dell’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano (Ed. 2024), considerate parametro di conformità ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c. dalla Cassazione (sent. n. 12408/2011 e n. 10579/2021).;

2. Obbligatorietà della TUN:

se, dopo l’emanazione del D.P.R. 12/2025, debba invece considerarsi la TUN il nuovo parametro legale, prevalente anche per fatti anteriori, in forza del principio di uniformità e legalità risarcitoria;

3. Libertà di scelta motivata del giudice:

se il giudice possa optare, con adeguata motivazione, tra TUN e Tabelle milanesi, in funzione delle peculiarità del caso concreto, conservando un margine di discrezionalità valutativa;

Considerazioni conclusive e scenari futuri

Il rinvio pregiudiziale sollecita un intervento chiarificatore e sistematico della Cassazione. L’auspicio è che la Suprema Corte possa fornire una soluzione netta, capace di bilanciare l’esigenza di uniformità risarcitoria con quella di tutela effettiva del diritto alla salute e del principio di personalizzazione del danno.

La questione tocca anche aspetti costituzionali e sovranazionali, implicando un confronto con il principio di tutela integrale e personalizzata del danno alla persona, riconosciuto anche dalla Corte EDU.

Una decisione troppo rigida potrebbe mettere a rischio il principio di equità sostanziale, mentre un’eccessiva apertura all’autonomia del giudice potrebbe vanificare gli sforzi di standardizzazione legislativa. È dunque su questo crinale che si gioca il futuro equilibrio tra certezza del diritto e giustizia del caso concreto.

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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO
Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
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“LE RESPONSABILITÀ SANITARIE”, DUEPUNTOZERO EDIZIONI

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Negli ultimi decenni, la responsabilità medico-sanitaria si è progressivamente affermata come un settore autonomo della responsabilità civile, distaccandosi dalla tradizionale configurazione incentrata esclusivamente sulla figura del medico. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha portato a una rielaborazione complessiva dell’intero sistema della responsabilità in ambito sanitario, culminata nella disciplina organica introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco). Tale intervento legislativo ha segnato il superamento del classico binomio medico-paziente, introducendo un approccio sistemico che coinvolge tutte le professioni sanitarie, nella consapevolezza dell’indispensabile apporto di figure quali il personale infermieristico, gli assistenti sanitari e i tecnici delle diverse branche della medicina.

La legge Gelli-Bianco ha ridefinito i confini della responsabilità sanitaria nei suoi molteplici aspetti – civile, penale ed erariale – disegnando specifici statuti di responsabilità per le strutture e per gli esercenti la professione sanitaria. A partire dal cd. decalogo di San Martino del 2018, la giurisprudenza ha cercato di sistematizzare i principi applicabili, contribuendo a chiarire – pur tra luci e ombre – il quadro normativo e interpretativo.

Il presente lavoro si propone, in primo luogo, di ripercorrere l’evoluzione storica del concetto di responsabilità sanitaria, evidenziandone la progressiva estensione a tutti i soggetti coinvolti nella relazione di cura. In secondo luogo, si intendono analizzare i distinti regimi di responsabilità che trovano applicazione nei confronti delle strutture sanitarie e degli esercenti la professione, valorizzando l’apporto della giurisprudenza e della dottrina nella loro definizione.

Ampio spazio sarà dedicato, inoltre, all’esame del nuovo obbligo assicurativo introdotto dalla legge Gelli-Bianco, la cui attuazione è stata demandata a fonti regolamentari di secondo livello, tra cui il decreto ministeriale 232/2023, destinato a entrare pienamente in vigore entro dicembre 2025. In tale contesto verranno evidenziate le principali criticità e le potenzialità di un sistema assicurativo ancora in fase di consolidamento.

Infine, l’analisi non potrà prescindere dal confronto con i più recenti progetti di riforma, che, pur nel tentativo di razionalizzare e semplificare la materia, rischiano di mettere in discussione alcuni delicati equilibri faticosamente raggiunti con la legge Gelli-Bianco.

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TRIBUTARIO: LA CONSULTA DICHIARA L’ILLEGITTIMITÀ DI ALCUNI ATTI DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA

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La Corte costituzionale e la giurisdizione sugli atti di recupero dei contributi a fondo perduto: commento alla sentenza n. 124/2025

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 124 del 23 giugno 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale di alcune disposizioni normative che attribuivano alla giurisdizione tributaria le controversie relative al recupero dei contributi a fondo perduto erogati durante l’emergenza da Covid-19. Il presente contributo analizza il contenuto della decisione, soffermandosi sul principio del giudice naturale precostituito per legge, sull’unitarietà della giurisdizione ordinaria in materia di diritti soggettivi e sulla razionalità del sistema di riparto tra le giurisdizioni.

Introduzione

Durante la pandemia da Covid-19, il legislatore ha previsto l’erogazione di contributi a fondo perduto alle imprese e ai professionisti colpiti dalle restrizioni sanitarie. Le norme impugnate (art. 1, comma 10, del d.l. n. 137/2020 e art. 25, comma 12, del d.l. n. 34/2020) stabilivano che le controversie concernenti gli atti di recupero dei contributi non spettanti fossero devolute alla giurisdizione tributaria.

La Corte costituzionale, sollecitata da più ordinanze di rimessione, ha censurato questa scelta legislativa, rilevando un’irragionevole disparità di trattamento e una violazione dell’art. 102, comma 1, Cost., che vieta l’istituzione di giudici speciali.

1. Il quadro normativo: contributi emergenziali e giurisdizione tributaria

Il decreto Ristori (d.l. n. 137/2020) e il decreto Rilancio (d.l. n. 34/2020) hanno introdotto contributi a fondo perduto destinati a soggetti economici penalizzati dalla crisi pandemica. In caso di indebita percezione, l’Agenzia delle entrate era autorizzata al recupero delle somme.

Tuttavia, il legislatore ha previsto che la giurisdizione sulle liti relative agli atti di recupero spettasse alle commissioni tributarie, estendendo di fatto la giurisdizione tributaria a materie di natura non strettamente tributaria.

2. Le censure sollevate: violazione del divieto di giudici speciali e disparità di trattamento

Le ordinanze di rimessione hanno denunciato che le disposizioni censurate:

affidano alla giurisdizione tributaria questioni aventi natura civilistica, come il diritto alla restituzione di somme indebitamente erogate; creano una frattura irrazionale nel sistema, perché la spettanza originaria del contributo è devoluta alla giurisdizione ordinaria, mentre il recupero è affidato alla giurisdizione tributaria; determinano una disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche (richieste e recuperi di contributi) in ragione di una differente qualificazione meramente processuale.

La questione principale è stata dunque la compatibilità con il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1, Cost.) e con il divieto di istituire giudici speciali (art. 102, comma 1, Cost.).

3. La decisione della Corte costituzionale: illegittimità parziale per irragionevolezza

Con la sentenza n. 124/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale delle norme impugnate, nella parte in cui devolvono alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti gli atti di recupero dei contributi a fondo perduto.

3.1. Giurisdizione e natura civilistica della controversia

La Corte ha ribadito che la giurisdizione tributaria può essere estesa solo a controversie connesse all’obbligazione tributaria, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546/1992. Nel caso di specie, il contributo a fondo perduto non ha natura tributaria, ma rappresenta una prestazione patrimoniale di sostegno economico, soggetta alle regole del diritto civile.

3.2. Disparità di trattamento e irrazionalità del riparto

La Corte ha evidenziato che la normativa impugnata produce un effetto distorsivo: la fase di concessione del contributo è sottoposta al giudice ordinario, mentre la fase di recupero è affidata al giudice tributario. Questa duplicazione irragionevole del riparto giurisdizionale mina l’unitarietà del sistema e genera confusione, compromettendo l’effettività della tutela giurisdizionale.

4. Profili sistematici: verso una razionalizzazione del riparto giurisdizionale

La sentenza si colloca nel solco di una giurisprudenza costituzionale attenta a garantire coerenza e razionalità nel riparto tra giurisdizione ordinaria e speciale, come già evidenziato nelle pronunce relative all’ambito previdenziale, sanitario e delle prestazioni economiche pubbliche.

In linea generale, la giurisdizione speciale può essere giustificata solo in presenza di un rapporto funzionale con l’obbligazione fiscale. In mancanza di tale presupposto, la devoluzione al giudice speciale viola il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di giusto processo (art. 111 Cost.).

Conclusioni

La sentenza n. 124/2025 rappresenta un importante passo verso una razionalizzazione del sistema giurisdizionale, riaffermando i principi fondamentali della tutela dei diritti soggettivi e del giudice naturale. La Corte costituzionale ha correttamente ristabilito la coerenza tra natura del rapporto giuridico sostanziale e giurisdizione competente, ponendo un limite all’estensione impropria della giurisdizione tributaria a controversie estranee alla materia fiscale.

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Corte Costituzionale, sentenza n. 124/2025 integrale, in formato pdf:

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“SOCIETAS”: L’EX CONSULENTE DI TRUMP GEORGE LOMBARDI CI PARLA DEL RUSSIAGATE E DELL’AMMINISTRAZIONE USA

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In questa puntata, affrontiamo con l’imprenditore italo-americano George Lombardi (già consulente di Donald Trump), le ultime notizie sull’indagine denominata Russiagate e sulle novità della politica dell’Amministrazione Trump.

Puntata integrale di Societas

Russiagate, la CIA ammette l’errore: il dossier del 2016 era politicizzato

Un rapporto interno della CIA diffuso nel 2025 smentisce il dossier del Russiagate: accuse a Trump basate su fonti fragili e pressioni politiche. Brennan e Comey nel mirino della giustizia.


Il Russiagate era una costruzione politica? Le nuove rivelazioni della CIA

A quasi dieci anni dalle elezioni presidenziali del 2016, uno sconvolgente rapporto interno della CIA rimette in discussione le basi dell’intero caso Russiagate. Diffuso il 26 giugno 2025 dalla giornalista Miranda Devine sul New York Post, il documento fa luce su gravi manipolazioni procedurali e pressioni politiche interne all’intelligence americana.

Un’inchiesta interna che cambia la narrativa

Il rapporto, commissionato dall’ex direttore della CIA John Ratcliffe, esamina il documento dell’Intelligence Community Assessment (ICA) pubblicato nel dicembre 2016, che accusava la Russia di voler influenzare le elezioni a favore di Donald Trump. Le conclusioni sono clamorose: l’intera accusa si basava su fonti fragili, dossier screditati e analisi condotte in modo non imparziale.

Le responsabilità di Brennan e Comey

Secondo l’inchiesta, John Brennan, all’epoca direttore della CIA, avrebbe selezionato un ristretto gruppo di analisti delle sole CIA, FBI, NSA e ODNI, escludendo 13 delle 17 agenzie federali. Un’operazione senza contraddittorio, che ha condotto a conclusioni già allora oggetto di forti critiche interne.

James Comey, ex capo dell’FBI, avrebbe invece cambiato posizione sull’ipotesi di collusione dopo pressioni interne, nonostante in precedenza alti funzionari dell’FBI avessero affermato al New York Times che non esistevano prove concrete di un legame tra Trump e il Cremlino.

Il controverso dossier Steele e il ruolo della Clinton

Elemento centrale dell’ICA fu il dossier Steele, redatto dall’ex agente dell’intelligence britannica Christopher Steele, su iniziativa della campagna Clinton e attraverso lo studio legale Perkins Coie. Il documento, già screditato all’epoca, venne inserito nel rapporto nonostante forti obiezioni interne.

Una email interna del 29 dicembre 2016, firmata dal vicedirettore dell’analisi CIA, avvertiva che l’inclusione del dossier avrebbe minato la credibilità dell’intero rapporto. Ma le proteste vennero ignorate.

La posizione della NSA: scetticismo mascherato

Anche la NSA, guidata allora da Mike Rogers, espresse solo una “moderata fiducia” nelle conclusioni dell’ICA. In gergo dell’intelligence, questo equivale a un rifiuto velato. Secondo fonti interne, Putin avrebbe potuto non preferire Trump, percepito come “imprevedibile”, rispetto a Hillary Clinton, considerata più “gestibile”.

I protagonisti sotto indagine

Ad oggi, John Brennan e James Comey sarebbero formalmente indagati per irregolarità nella conduzione dell’inchiesta: dichiarazioni false al Congresso, uso distorto delle fonti, e mancato rispetto delle procedure interne.

Anche Christopher Steele è tornato sotto i riflettori: nella sua deposizione del 2019, aveva ammesso di aver usato informazioni non verificate, provenienti da fonti legate alla propaganda russa.

Il prezzo della propaganda: chi pagherà?

Il Russiagate ha dominato il dibattito pubblico e politico per anni, alimentando campagne mediatiche contro chiunque osasse dubitare della narrativa ufficiale. Oggi, questo nuovo rapporto CIA impone una rivalutazione storica dell’intera vicenda, sollevando interrogativi sull’uso politico delle agenzie di intelligence.

Come osservato da Simona Mangiante, avvocato e moglie di George Papadopoulos (ex consigliere di Trump coinvolto nel Russiagate), le rivelazioni contenute nel dossier Ratcliffe potrebbero segnare una svolta epocale nella percezione pubblica del caso.

Conclusioni: Russiagate, indagine o operazione politica?

Alla luce dei nuovi elementi, è lecito chiedersi: quanto del Russiagate fu vera indagine, e quanto fu costruzione politica? E soprattutto, chi pagherà per le gravi distorsioni emerse?

L’opinione pubblica, sempre più scettica verso le versioni ufficiali, attende risposte. Se confermate a livello istituzionale, queste rivelazioni potrebbero rappresentare uno spartiacque nella storia delle relazioni tra intelligence e politica negli Stati Uniti.


George Lombardi e Donald Trump

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REATI TRIBUTARI: CASS. PEN., SEZ. III, N. 26898/2025 CHIARISCE CHE I TERMINI DELLA PRESCRIZIONE DIFFERISCONO A SECONDA CHE LE SCRITTURE CONRABILI SIANO DISTRUTTE O OCCULTATE

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La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 26898/2025, offre un’importante chiarificazione sulla qualificazione giuridica dei reati di distruzione e occultamento di scritture contabili ai fini della decorrenza della prescrizione penale. In particolare, viene riaffermata la distinzione tra reato istantaneo e reato permanente, con effetti significativi sull’individuazione del dies a quo della prescrizione.


1. Introduzione

Nel diritto penale tributario, la definizione della natura del reato – istantanea o permanente – incide in modo determinante sulla determinazione del termine di prescrizione. La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente affinato i criteri interpretativi, specialmente in relazione ai delitti previsti dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, tra cui si annoverano i reati di cui all’art. 10 (Occultamento o distruzione di documenti contabili).

La sentenza n. 26898 del 2025 si inserisce in questo filone interpretativo, delineando con chiarezza i criteri distintivi tra distruzione e occultamento delle scritture contabili e i rispettivi effetti sulla decorrenza della prescrizione.


2. Il fatto e la qualificazione giuridica

Nel caso esaminato, il ricorrente era stato imputato per aver posto in essere condotte di distruzione e/o occultamento di scritture contabili obbligatorie, impedendo così la ricostruzione del volume d’affari ai fini fiscali. L’elemento dirimente è consistito nell’individuazione del momento consumativo del reato al fine di stabilire se lo stesso fosse prescritto.

La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire un principio oramai consolidato:

«Il reato di distruzione di scritture contabili ha natura istantanea, e la prescrizione decorre dal momento in cui si realizza la condotta distruttiva; al contrario, il reato di occultamento presenta natura permanente, la cui consumazione perdura sino alla conclusione dell’attività ispettiva o accertativa dell’Amministrazione finanziaria.»


3. Il reato di distruzione di scritture contabili: natura istantanea

Secondo l’orientamento consolidato, confermato dalla sentenza in esame, la distruzione delle scritture contabili configura un reato istantaneo, in quanto l’offesa all’interesse protetto (trasparenza fiscale e possibilità di controllo) si verifica e si esaurisce nel momento in cui i documenti vengono fisicamente distrutti.

3.1. Conseguenze in termini di prescrizione

Ne deriva che la prescrizione decorre dal momento in cui avviene la distruzione, anche se l’illecito viene scoperto successivamente:

«Il momento consumativo coincide con l’esaurirsi della condotta materiale di distruzione, non rilevando l’epoca della scoperta del reato».

Questo orientamento è coerente con quanto stabilito, tra le altre, in Cass. pen., Sez. III, n. 36083/2017, che ha ribadito la natura istantanea del delitto, non suscettibile di protrazione nel tempo.


4. L’occultamento di scritture contabili: reato permanente

Diversamente, il reato di occultamento è qualificato come reato permanente: la sua consumazione non si esaurisce nell’atto iniziale di sottrazione o occultamento, ma perdura fino a quando il documento rimane celato e non accessibile all’autorità tributaria.

4.1. Il dies a quo della prescrizione

La Cassazione n. 26898/2025 chiarisce che la prescrizione, in questo caso, inizia a decorrere dalla conclusione dell’accertamento fiscale:

«La permanenza del reato si arresta solo nel momento in cui l’Amministrazione conclude l’attività ispettiva e l’occultamento diventa inidoneo a impedire l’accertamento».

Tale impostazione si riallaccia a quanto già affermato in Cass. pen., Sez. III, n. 31617/2018, dove si è ritenuto che la natura permanente consente l’estensione del termine prescrizionale fino all’ultimo atto utile dell’ispezione.


5. Profili critici e riflessi pratici

La distinzione tra le due fattispecie assume particolare rilevanza nei procedimenti penali a distanza di tempo rispetto alla commissione del fatto. Infatti, la qualificazione del reato come permanente consente al pubblico ministero di esercitare l’azione penale anche a distanza di anni, mentre l’attribuzione della natura istantanea può determinare l’improcedibilità per intervenuta prescrizione.

Inoltre, la sentenza rafforza l’obbligo per i professionisti e le imprese di custodire le scritture contabili in modo accessibile e verificabile, rafforzando il principio di trasparenza e tracciabilità dell’attività economica.


6. Conclusioni

La Cassazione n. 26898/2025 si inserisce nel solco della giurisprudenza più attenta alla distinzione tra reati istantanei e permanenti. Essa consolida il principio secondo cui la natura della condotta (distruzione vs occultamento) è decisiva nel determinare il momento di consumazione del reato e, conseguentemente, il dies a quo della prescrizione. Tale ricostruzione, oltre a garantire la coerenza sistematica del diritto penale tributario, ha importanti riflessi operativi in fase di indagine e di giudizio.

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LAVORO: LA CONSULTA DICHIARA INCOSTITUZIONALE IL TETTO MASSIMO DI SEI MENSILITÀ PER L’INDENNITÀ SPETTANTE NELLE PICCOLE IMPRESE

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Corte costituzionale


La Corte costituzionale, con la sentenza n. 118/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui imponeva, per le piccole imprese, un limite massimo inderogabile di sei mensilità per l’indennità spettante in caso di licenziamento illegittimo. Il presente contributo analizza le implicazioni giuridiche della pronuncia, i riferimenti normativi e giurisprudenziali, e il rapporto con i principi costituzionali di proporzionalità, adeguatezza e tutela effettiva del lavoratore.


1. Introduzione

Il tema delle tutele in caso di licenziamento illegittimo nel contesto delle micro e piccole imprese è da anni al centro del dibattito giuslavoristico. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 118 del 2025, torna a pronunciarsi sul d.lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), segnando un nuovo e rilevante passo verso la personalizzazione del risarcimento e la salvaguardia dell’equità sostanziale nei rapporti di lavoro, anche in realtà aziendali di dimensioni contenute.


2. La norma censurata: art. 9, comma 1, d.lgs. 23/2015

L’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 prevedeva che, nei casi di licenziamento dichiarato illegittimo da parte di datori di lavoro al di sotto della soglia dimensionale di cui all’art. 18, L. n. 300/1970, l’indennità risarcitoria dovesse essere determinata in misura pari alla metà di quanto previsto per le imprese maggiori, e comunque “non superiore a sei mensilità”.

Tale limite operava in modo fisso e insuperabile, a prescindere dalla natura della violazione (formale, procedurale o sostanziale), restringendo di fatto l’ambito del potere valutativo del giudice e la tutela effettiva del lavoratore.


3. La decisione della Corte costituzionale

Con la sentenza n. 118/2025, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del limite massimo di sei mensilità, rilevando la violazione di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, in particolare:

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori licenziati illegittimamente da datori di diverse dimensioni aziendali;
  • Art. 24 Cost., per la compressione dell’effettività della tutela giurisdizionale;
  • Art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che impone una “tutela adeguata” in caso di licenziamento ingiustificato.

Secondo la Consulta, l’imposizione di un tetto rigido e predefinito impedisce al giudice di modulare l’indennizzo sulla base della concreta entità del pregiudizio subito, vanificando la funzione sia compensativa che dissuasiva della sanzione.


4. Le conseguenze applicative della pronuncia

La pronuncia comporta un profondo mutamento del sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per le piccole imprese. Ferma restando la regola del dimezzamento dell’indennizzo rispetto a quanto previsto per le imprese soggette all’art. 18 St. lav., viene eliminato il tetto massimo di sei mensilità, permettendo ora al giudice di riconoscere un’indennità compresa tra un minimo di tre e un massimo di diciotto mensilità.

Si delinea, così, un sistema maggiormente conforme ai criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, che consente al giudice di valutare in concreto la gravità della condotta datoriale, la durata del rapporto, le condizioni del lavoratore e il danno effettivamente patito.


5. Profili sistematici e giurisprudenziali

La decisione si pone in linea di continuità con la precedente sentenza n. 183/2022, con cui la Consulta aveva già sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale del medesimo art. 9, sollecitando il legislatore a un intervento correttivo. L’inerzia parlamentare ha dunque determinato l’intervento diretto della Corte.

Non si tratta, peraltro, di una posizione isolata: già numerosi giudici del lavoro avevano sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione, lamentando la compressione dell’autonomia valutativa e l’inadeguatezza delle soglie imposte dal legislatore delegato.


6. Il ruolo del numero dei dipendenti e la sostenibilità dell’indennizzo

La Corte ha sottolineato come il criterio meramente quantitativo della soglia occupazionale non possa essere assunto quale unico indicatore della capacità economica dell’impresa. In ambito europeo – e in settori ordinamentali contigui, come la crisi d’impresa – il numero dei dipendenti rappresenta un parametro importante, ma non esclusivo per misurare la sostenibilità dell’obbligo risarcitorio.


7. Spunti di riflessione e prospettive de iure condendo

Il venir meno del tetto massimo rappresenta un passo importante verso una maggiore equità del sistema sanzionatorio, ma resta aperto il problema della disomogeneità tra il regime ordinario e quello delle tutele crescenti, nonché la mancata estensione delle tutele reintegratorie, che in molti casi appaiono ancora precluse, anche in presenza di licenziamenti palesemente discriminatori o gravemente viziati.

L’auspicio espresso dalla Corte circa un intervento del legislatore è chiaro: un riordino sistematico della disciplina dei licenziamenti, che superi le attuali disarmonie e garantisca tutele proporzionate, effettive e conformi agli standard internazionali e costituzionali.


8. Conclusioni

La sentenza n. 118/2025 si inserisce nel solco di una giurisprudenza costituzionale sempre più attenta alla concretezza delle tutele del lavoratore e alla necessità di sanzioni risarcitorie effettivamente deterrenti. La decisione non solo rafforza la posizione del lavoratore nei confronti del datore, ma sollecita il legislatore a colmare un vuoto normativo ormai divenuto insostenibile sul piano della legittimità costituzionale e della giustizia sociale.


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REATI TRIBUTARI: LA CASS. PEN., SEZ. III, SENT. N. 2654572025 SULLA COMPETENZA DICHIARATIVA AI FINI DELLE IMPOSTE SUI REDDITI NEI PERIODI POST-FALLIMENTARI SPETTANTE AL CURATORE

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Reati Tributari e Fallimento: La Competenza Dichiarativa del Curatore nei Periodi Post-Fallimentari – Nota a Cass. pen., Sez. III, n. 26545/2025



La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 26545/2025 affronta la questione della titolarità dell’obbligo dichiarativo ai fini delle imposte sui redditi in caso di fallimento dell’imprenditore. La Corte ha chiarito che, a decorrere dalla sentenza dichiarativa di fallimento, la competenza a presentare le dichiarazioni fiscali – compresa quella relativa all’anno in cui il fallimento è stato dichiarato – spetta al curatore fallimentare. Si approfondiscono i riflessi penal-tributari della pronuncia, con particolare attenzione all’omessa dichiarazione ex art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, e alle ricadute pratiche per la gestione del passivo fiscale fallimentare.


1. Introduzione: il reato di omessa dichiarazione nel contesto del fallimento

L’art. 5 del d.lgs. n. 74/2000 punisce il contribuente che omette di presentare, entro il termine previsto dalla legge, la dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi o dell’IVA, qualora l’imposta evasa superi determinate soglie di punibilità. Tale norma assume connotati particolari quando l’obbligato si trovi in stato di fallimento.

In questo contesto si inserisce la sentenza Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2025, n. 26545, che si pronuncia sul soggetto legittimato a presentare la dichiarazione fiscale per i periodi d’imposta successivi – e compreso quello in cui è intervenuta – la sentenza di fallimento. La pronuncia si sofferma sul rapporto tra obblighi dichiarativi e subentro del curatore fallimentare nella gestione del patrimonio del fallito, contribuendo a chiarire un punto nevralgico della responsabilità penale in materia tributaria.


2. La vicenda processuale e il principio di diritto affermato

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguarda un’imputazione per omessa dichiarazione dei redditi ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, contestata all’imprenditore dichiarato fallito. La difesa dell’imputato ha sostenuto l’inapplicabilità della norma al fallito, ritenendo che l’obbligo di presentazione della dichiarazione, per l’anno in cui è stata pronunciata la sentenza di fallimento e per quelli successivi, dovesse ritenersi trasferito in capo al curatore.

La Corte ha accolto tale impostazione, affermando il seguente principio di diritto:

“La competenza alla presentazione delle dichiarazioni fiscali, per i periodi di imposta successivi alla sentenza di fallimento – compreso quello in cui la stessa è intervenuta – spetta al curatore fallimentare, in quanto unico soggetto legittimato alla gestione del patrimonio del fallito e all’adempimento degli obblighi fiscali riferiti alla procedura concorsuale.”


3. La posizione del curatore fallimentare e l’estinzione della soggettività fiscale del fallito

Ai sensi degli artt. 31 ss. l. fall., il curatore assume la gestione dell’intero patrimonio del fallito, subentrando nella titolarità degli obblighi fiscali connessi all’attività imprenditoriale pregressa. In particolare, la Circolare Agenzia delle Entrate n. 38/E/2008 ha chiarito che il curatore è tenuto a presentare le dichiarazioni fiscali relative all’annualità in cui è intervenuta la dichiarazione di fallimento, nonché a quelle successive, anche se riferite a redditi o operazioni maturati in parte prima della procedura.

Pertanto, sul piano penalistico, la titolarità dell’obbligo dichiarativo si sposta dal soggetto fallito al curatore. Ne deriva che l’omessa presentazione della dichiarazione, da parte del curatore, potrà dar luogo a responsabilità penale solo in capo a quest’ultimo, ove ne ricorrano gli estremi soggettivi.


4. Le conseguenze in punto di responsabilità penale

La pronuncia in commento si pone in linea con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, a seguito della dichiarazione di fallimento, il fallito perde la capacità di disporre del proprio patrimonio e di compiere atti giuridicamente rilevanti anche nei confronti dell’erario.

Il reato di omessa dichiarazione, che presuppone la sussistenza di un obbligo personale in capo al soggetto agente, non può pertanto essere contestato all’imprenditore fallito per i periodi post-fallimentari, in quanto tale obbligo grava, ex lege, sul curatore.

Si delinea così una linea di demarcazione netta tra i periodi ante e post fallimento, che assume rilievo non solo sotto il profilo della titolarità dell’obbligo fiscale, ma anche ai fini dell’individuazione del soggetto penalmente responsabile in caso di omissioni dichiarative.


5. Riflessioni critiche e implicazioni pratiche

La sentenza n. 26545/2025 rappresenta un importante punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario e concorsuale. In primo luogo, rafforza la centralità del curatore fallimentare quale soggetto titolare degli obblighi dichiarativi post-fallimentari, confermando un principio già accolto dalla prassi amministrativa.

In secondo luogo, chiarisce i confini della responsabilità penale per omessa dichiarazione, escludendola in capo al fallito nei casi in cui il periodo d’imposta sia coperto, anche solo parzialmente, dalla procedura concorsuale.

Ciò impone al curatore una maggiore attenzione nella gestione dei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, dovendo egli assicurare la tempestiva presentazione delle dichiarazioni anche in presenza di carenza documentale o incertezza circa la composizione attiva e passiva del patrimonio del fallito.


6. Conclusioni

La Cassazione penale, Sez. III, n. 26545/2025 si inserisce in un filone interpretativo volto a delimitare con precisione la responsabilità penale tributaria nel contesto della procedura fallimentare. Ribadendo che la competenza alla dichiarazione fiscale post-fallimentare spetta al curatore, la Corte esclude la punibilità del fallito per l’omessa presentazione della dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000, a meno che l’omissione si riferisca a un periodo d’imposta integralmente precedente alla dichiarazione di fallimento.

Tale indirizzo appare coerente con i principi della materia concorsuale e con il principio di personalità della responsabilità penale, restituendo certezza applicativa in un settore caratterizzato da frequenti incertezze interpretative.

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Corte di Cassazione, Sez. III penale, Sent. n. 26545/2025 integrale, in formato pdf:


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PENALE: LA CASS. PEN., SEZ. III, N. 26355/2025 CHIARISCE CHE IL REATO DI TRUFFA AGGRAVATA AI DANNI DELLO STATO E’ ASSORBITO NEL REATO TRIBUTARIO

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Truffa aggravata:
art. 640, II comma, Cod. Pen.

1. Introduzione

In materia di reati tributari, la distinzione rispetto ai reati comuni contro la pubblica amministrazione ha sempre costituito terreno fertile per il dibattito giurisprudenziale. Un punto centrale di tale discussione riguarda il rapporto tra la truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.) e le fattispecie penal-tributarie introdotte dal d.lgs. 74/2000. Con la recente sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 26355 del 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato ma talvolta disatteso: il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato risulta assorbito nel reato tributario, quando l’azione illecita si esaurisce nell’indebita percezione di un vantaggio fiscale.


2. Il fatto e la questione giuridica

Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte riguardava un imprenditore imputato per frode fiscale mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, condotta qualificata tanto ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 74/2000 quanto dell’art. 640, comma 2, n. 1 c.p., per aver indotto in errore l’Amministrazione finanziaria con artifici e raggiri al fine di ottenere un risparmio d’imposta.

La questione giuridica principale atteneva alla possibilità di contestare cumulativamente i due reati, ovvero alla necessità di ritenere il reato comune di truffa aggravata assorbito dalla fattispecie speciale prevista dalla normativa penal-tributaria.


3. Il principio di specialità e l’assorbimento del reato

Nel motivare la propria decisione, la Cassazione ha richiamato il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., sottolineando che, in presenza di una norma speciale, questa prevale su quella generale, impedendo la configurazione di un concorso apparente di norme.

Nel caso di specie, l’art. 2 del d.lgs. 74/2000 tipizza in modo completo ed esaustivo la condotta di falsificazione documentale finalizzata alla frode fiscale, contemplando anche l’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria. Pertanto, non vi è spazio per un’autonoma rilevanza penale del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, che resta assorbito nella più specifica figura del reato tributario.

«Il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato si considera assorbito nella fattispecie di cui all’art. 2 del d.lgs. 74/2000, quando l’induzione in errore dell’amministrazione finanziaria avviene mediante l’utilizzo di documentazione oggettivamente o soggettivamente falsa, al fine di conseguire un indebito vantaggio fiscale» (Cass. pen., Sez. III, n. 26355/2025).


4. L’indebito vantaggio fiscale e la lesione del bene giuridico

Dal punto di vista della struttura del reato, il delitto di truffa aggravata richiede l’induzione in errore di un ente pubblico con dolo specifico di profitto e un danno patrimoniale per lo Stato. Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che, nei casi in cui l’induzione in errore sia finalizzata esclusivamente ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, il bene giuridico leso sia integralmente tutelato dal reato tributario.

Ne deriva che la finalità fiscale costituisce un criterio di delimitazione del perimetro punitivo, escludendo l’autonomia del reato comune.


5. Concorso tra reato tributario e altri reati: i limiti

La sentenza in esame si inserisce nel solco tracciato dalla consolidata giurisprudenza della Cassazione, secondo cui il concorso tra reato tributario e reato di truffa è ammesso solo in presenza di ulteriori condotte fraudolente non esaurite nell’evasione fiscale, come nel caso di contributi pubblici indebitamente ottenuti mediante falsificazioni contabili. In assenza di tale plusvalenza fraudolenta, il reato di truffa non si configura autonomamente.


6. Considerazioni conclusive

La pronuncia della Corte di Cassazione n. 26355/2025 rafforza l’orientamento volto a preservare la tipicità e l’autosufficienza delle norme penal-tributarie, evitando sovrapposizioni punitive che violerebbero il principio del ne bis in idem e comprometterebbero la coerenza del sistema sanzionatorio.

Dal punto di vista sistematico, essa contribuisce alla definizione dei confini tra il diritto penale comune e il diritto penale dell’economia, affermando che la truffa aggravata ai danni dello Stato deve considerarsi assorbita dal reato tributario, quando l’illecito riguarda esclusivamente il rapporto fiscale.



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Cass. Pen., Sez. III, Sent. 26355/2025 integrale, in formato pdf:

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VIGILI DEL FUOCO: ANGELI GETTATI NELL’INFERNO DELL’ESPOSIZIONE CANCEROGENA

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Vigile del Fuoco esposto all’amianto di un edificio crollato in un terremoto.

Dietro la divisa dei vigili del fuoco si nasconde una verità che per anni è rimasta ignorata, sepolta sotto le macerie degli edifici crollati e tra i fumi degli incendi domati: un rischio mortale, silenzioso, ineluttabile.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha spezzato finalmente l’omertoso silenzio, riconoscendo ufficialmente ciò che molti temevano da tempo: la lotta antincendio è una delle professioni a più alto rischio cancerogeno.

Tale giudizio è il frutto di un approfondito studio dell’AIRCl’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro – che generato nuova luce sulla relazione tra esposizione all’amianto e l’insorgenza di tumori tra i vigili del fuoco.

Pertanto, i dati sono eloquenti: chi combatte contro le fiamme ha un rischio aumentato del 58% di sviluppare mesotelioma maligno, un tumore raro e aggressivo causato dall’esposizione a fibre di amianto.

Invero, fino a poco tempo fa, i vigili del fuoco erano inseriti nel gruppo 2B dell’AIRC, ovvero tra le professioni “possibilmente cancerogene per l’uomo”, dopo questo approfondito studio scientifico sono passati nel Gruppo 1, insieme ad agenti come l’amianto stesso, il fumo di sigaretta e il benzene: “cancerogeni certi per l’uomo”.

La riclassificazione è il risultato di una ricerca condotta da 24 scienziati provenienti da otto Paesi, le cui evidenze raccolte sono state inequivocabili: tra i vigili del fuoco si registrano tassi anomali non solo di mesotelioma, ma anche di cancro alla vescica.

Inoltre, sussistono inoltre prove limitate – ma non per questo trascurabili – dell’aumento di incidenza di tumori al colon, alla prostata, ai testicoli, al melanoma e al linfoma non-Hodgkin.

Il mesotelioma, lo ricordiamo, è una malattia lunga e subdola e il suo periodo di latenza può estendersi fino a 60 anni, rendendo quasi impossibile individuare con precisione il momento dell’esposizione.

Per i vigili del fuoco, tuttavia, la risposta è sotto gli occhi di tutti: incendi in vecchi edifici commerciali e residenziali costruiti prima del bando dell’amianto.

Fino agli anni ’90, questa fibra minerale era usata in tutto – dai pannelli isolanti ai tetti – per la sua resistenza al fuoco, ma quando le fiamme lo colpiscono, l’amianto si sbriciola e rilascia nell’aria fibre invisibili, tossiche, cancerogene e persistenti.

“Il rischio non è solo del passato (avvertono i ricercatori), ma anche oggi, con i moderni dispositivi di protezione, i vigili del fuoco continuano a essere esposti a sostanze chimiche tossiche, spesso in assenza di adeguate misure di decontaminazione post-intervento.”

Il riconoscimento ufficiale dell’OMS non è solo un fatto scientifico, si tratta di un passaggio epocale con ricadute concrete: giuridiche, previdenziali, sanitarie.

Quindi è un diritto costituzionale (ex art. 32 Cost.) chiedere il riconoscimento delle malattie professionali legate all’amianto nei vigili del fuoco e un rafforzamento delle tutele economiche e previdenziali.

Infatti, per molti ex vigili del fuoco la diagnosi di mesotelioma arriva quando è ormai troppo tardi, e le battaglie per il risarcimento si trasformano in estenuanti guerre contro lo Stato.

In finale, la domanda resta sospesa, amara, urgente: chi protegge chi ci protegge?

Mentre celebriamo il coraggio dei vigili del fuoco, occorre guardare oltre l’eroismo: occorre denunciare, tutelare, prevenire, soprattutto dopo l’accertamento di tutto ciò da parte della comunità scientifica.

A riprova e conferma di quanto finora esposto si riportano le analisi dell’esperto in materia Dott. Omero Negrisolo, il quale in modo chiaro e documentato rassegna degli studi scientifici sconvolgenti, inerenti alla ‘attività svolta dai vigili del fuoco:

<<Molteplici studi scientifici, validati dalla Comunità Scientifica Internazionale, dimostrano una pericolosità certa alla salute umana delle sostanze chimiche pericolose e degli agenti fisici pericolosi che comunque coinvolgono i Vigili del Fuoco durante le loro specifiche attività lavorative. Non a caso la IARC-WHO (International Agency for Research on Cancer – World Health Organization) ha realizzato ben due distinte Monografie sui Vigili del Fuoco (Firefighters) di tutto il mondo! La prima, la Monografia Volume 98 – pubblicata nel 2010 – nella sua “Overall evaluation” asseriva testualmente che: “Occupational exposure as a firefighter is possibly carcinogenic to humans (Group 2B)”; cfr. pagina 559. La seconda, la Monografia Volume 132 – pubblicata nel 2010, a distanza di tredici anni – e intitolata “Occupational Exposure as a firefighter”, nella sua “Overall evaluation” che asseriva testualmente addirittura: “Occupational exposure as a firefighter is carcinogenic to humans (Group 1)”. Sempre la IARC-WHO, nella sua “Lista di classificazione di neoplasie che colpiscono i Vigili del Fuoco” – ultimo aggiornamento del 27 giugno 2025, scrive “nero su bianco” che vi è sufficiente o limitata evidenza di insorgenza di neoplasie alla prostata, ai testicoli, al colon, alla pelle, alla vescica, nonché di insorgenza di mesotelioma alla pleura, al peritoneo “ed altri tessuti mesoteliali”. Inutile ricordare che ad oggi la IARC – WHO ha realizzato ben 136 Monografie su situazioni, lavorazioni, agenti fisici e sostanze chimiche che sono cancerogeni certi, o probabili, o possibili. La lista delle sostanze chimiche pericolose e degli agenti chimici e biologici pericolosi alle/ai quali possono essere esposti i Vigili del Fuoco durante le loro quotidiane attività è infinita e comprende almeno: amianto ed altre fibre, particulate matters (PM10, PM5, PM2,5 o anche minori), sostanze benzeniche, composti organici alifatici ed aromatici, composti organoclorurati e/o alogenati, metalli di ogni tipo, leggeri e pesanti, infiniti prodotti inorganici ed organici derivanti da combustioni comunque sempre incomplete: idrocarburi policiclici aromatici. diossine e sostanze “diossin-like”. Di conseguenza, anche tutte le malattie emolinfopoietiche (leucemie, mielomi, linfomi) insorte in Vigili del Fuoco possono con certezza essere valutate come causate da esposizione a “noises” specifici trattati dalla Comunità Scientifica Internazionale. Idem per tutte le neoplasie che comunque colpiscono tutti i tessuti umani. Da pochi anni, meglio, da dopo il 2013, si è iniziato a prendere in debita considerazione anche “il mondo dei PFAS: Per-and PolyFluorinated Alkilated Substances (Sostanze Alchilate Perfluorurate e Polifuorurate)”. Si tratta di sostanze impiegate negli ultimi cinquanta anni in migliaia di produzioni industriali ed applicazioni, le più svariate. L’elenco, mai esaustivo, comprende almeno fitofarmaci e pesticidi per l’agricoltura, farmaci, tessuti e loro impermeabilizzazione, applicazioni “antiaderenti”, contenitori di ogni tipo, anche peralimenti, sostanze estinguenti schiumogene (non a caso esistono molteplici studi sulle schiume antincendio e sui loro effetti subìti dai vigili del fuoco australiani). Comunque, appare di assoluta e quotidiana evidenza quanto “accade” durante e soprattutto dopo un incendio, di un fabbricato, di un veicolo, di un bosco, di una coltivazione agricola, di un accumulo di rifiuti, di un complesso artigianale o industriale! Appare sempre di grande problematicità gestire gli eluati provenienti dall’acqua di spegnimento, i fanghi che si formano, i sottoprodotti derivanti dalla combustione incompleta, le ceneri di vario tipo derivanti da combustioni a temperature medio-alte, ecc. Non da meno, necessita considerate il “Lavoro a Turni” (Shift-Work) ed il “Lavoro Notturno” (Night-Work) che inevitabilmente coinvolge sente il Vigiledel Fuoco, entrambi i tipi di lavoro sono stati oggetto di distinte Monografie IARC-WHO.

Se sei un vigile del fuoco (o un familiare) colpito da patologie asbesto-correlate, puoi contattarci per condividere la tua testimonianza e ricevere assistenza legale.

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“SOCIETAS“: IL RAPPORTO TRA CRISTIANESIMO, ISLAM, EBRAISMO

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Digitare per la visione integrale della puntata di SOCIETAS

Durante la puntata di Societas è intervenuto lo scrittore e ricercatore dell’Università Pontificia della Santa Croce, Gerardo Ferrara, con il quale si è affrontato lo storico tema, nonché alquanto attuale, del rapporto tra le tre religioni abramitiche: Cristianesimo, Islam, Ebraismo.

Il rapporto storico tra le tre religioni abramitiche — ebraismo, cristianesimo e islam — è complesso e articolato, caratterizzato da connessioni teologiche, influenze culturali, periodi di coesistenza pacifica e momenti di conflitto. Queste tre fedi condividono un’origine comune che risale alla figura del patriarca Abramo, da cui il termine “abramitiche”. Di seguito una sintesi storico-analitica:

1. Origini comuni

Abramo è considerato una figura fondante per tutte e tre le religioni: Nell’ebraismo, è il patriarca dell’alleanza con Dio. Nel cristianesimo, è visto come il padre della fede, anticipazione della fede cristiana in Cristo. Nell’islam, è riconosciuto come profeta (Ibrāhīm), modello di sottomissione a Dio. Le tre religioni credono in un Dio unico, creatore e giusto, e in una rivelazione progressiva, trasmessa tramite profeti (Mosè, Gesù, Maometto).

2. Ebraismo e Cristianesimo

Il cristianesimo nasce nel I secolo d.C. come movimento interno all’ebraismo, fondato sulla figura di Gesù di Nazareth, ebreo vissuto in Palestina sotto dominazione romana. La separazione tra ebraismo e cristianesimo si accentua: per la divinizzazione di Gesù, rifiutata dagli ebrei, per la predicazione ai gentili (non ebrei), per la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., che porta alla trasformazione dell’ebraismo in senso rabbinico e del cristianesimo in religione separata. Nei secoli successivi, si sviluppano tensioni: Accuse teologiche reciproche (es. “deicidio” da parte cristiana), Persecuzioni antiebraiche nel mondo cristiano, culminate in espulsioni, conversioni forzate, ghetti e, infine, nella Shoah.

3. Islam ed Ebraismo / Cristianesimo

L’islam nasce nel VII secolo nella Penisola Arabica. Maometto si considera l’ultimo profeta, in continuità con Mosè e Gesù. Il Corano riconosce e rispetta: Gli ebrei come “popolo del Libro”, I cristiani come “gente della Scrittura”, Ma critica anche le deviazioni dottrinali (es. la Trinità o la divinizzazione di Gesù). In molte società islamiche medievali (es. Spagna andalusa, Impero Ottomano), ebrei e cristiani godevano di un status protetto (dhimmi): inferiori giuridicamente ai musulmani, ma liberi di praticare la loro fede dietro pagamento di un tributo (jizya). Tuttavia, vi furono anche episodi di persecuzione e tensioni, specie in epoche di crisi politica o fanatismo religioso.

4. Conflitti e dialoghi

Conflitti

Le Crociate (XI-XIII secolo): campagne militari cristiane anche contro musulmani ed ebrei. La Reconquista e l’Inquisizione spagnola: conversioni forzate e persecuzioni di musulmani ed ebrei. In epoca moderna e contemporanea: conflitti legati alla questione israelo-palestinese, letti anche in chiave religiosa.

Dialoghi

Età medievale: momenti di dialogo filosofico e teologico (es. Maimonide, Averroè, Tommaso d’Aquino). XX-XXI secolo: intensificarsi del dialogo interreligioso, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II con la dichiarazione Nostra Aetate (1965), che riconosce le radici ebraiche del cristianesimo e promuove il rispetto verso l’islam. Oggi: numerose iniziative accademiche, religiose e diplomatiche per promuovere la tolleranza e il mutuo rispetto.

Conclusione

Il rapporto tra le tre religioni abramitiche è una storia intrecciata di comunanza e separazione, che riflette:

una radice spirituale comune, una divergenza dottrinale e storica, una sfida contemporanea di dialogo e coesistenza.

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