DIRITTO DELLA CRISI: PRIME INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI SULLA “PASSERELLA” TRA CONCORDATO PREVENTIVO E COMPOSIZIONE NEGOZIATA

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Introduzione

Con l’introduzione dell’art. 25-quinquies nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il legislatore ha aperto nuovi scenari nella gestione della crisi d’impresa, superando il rigido divieto originario previsto dal D.L. n. 118/2021. Oggi è possibile, per l’imprenditore che abbia rinunciato a una procedura giudiziale (quale il concordato preventivo o la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione), accedere alla composizione negoziata della crisi dopo un periodo di attesa di quattro mesi, la c.d. quarantena.

Questo contributo analizza l’evoluzione normativa e le prime applicazioni giurisprudenziali, soffermandosi in particolare sull’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha offerto spunti significativi in tema di proponibilità dell’istanza ex art. 17 CCI in costanza del termine di “quarantena”.


L’art. 25-quinquies CCI e la “passerella” dalla procedura giudiziale alla composizione negoziata

L’articolo 25-quinquies del Codice della crisi d’impresa disciplina una importante apertura verso la flessibilità nella gestione del dissesto: dopo la rinuncia a una procedura giudiziale, il debitore può accedere alla composizione negoziata della crisi, purché sia decorso un termine minimo di quattro mesi.

La previsione legislativa rappresenta un significativo mutamento rispetto all’impostazione originaria del legislatore del 2021, che escludeva tale possibilità per ragioni di coerenza sistemica e di tutela della buona fede. Il presupposto originario era che l’accesso a strumenti come il concordato implicasse una valutazione negativa circa la praticabilità del risanamento, incompatibile con la natura stragiudiziale e fiduciaria della composizione negoziata.

Con la novella, invece, si riconosce il possibile mutamento delle condizioni economico-patrimoniali o strategiche dell’impresa, valorizzando la flessibilità e la tempestività nella ricalibratura degli strumenti di risanamento.


La giurisprudenza e il caso dell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (31 luglio 2024)

Una delle prime applicazioni giurisprudenziali di rilievo si rinviene nell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha affrontato il tema della tempestività dell’istanza di nomina dell’esperto in presenza di una “passerella” anticipata rispetto al termine quadrimestrale.

La società ricorrente, pur consapevole del mancato decorso integrale del termine, ha dedotto il carattere non perentorio della scadenza e ha illustrato le ragioni sostanziali della rinuncia anticipata alla precedente procedura giudiziale: tra queste, l’emersione – a seguito del cambio dei consulenti – di un’ingente posta debitoria inizialmente omessa nel piano di concordato.

La scelta di accedere in via anticipata alla composizione negoziata è stata giustificata in funzione della tutela dei creditori e dell’esigenza di rimediare alle criticità della precedente impostazione, rese evidenti solo in una fase successiva.


La natura ordinatoria del termine quadrimestrale e i limiti all’eccezione di inammissibilità

Il Tribunale ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’istanza ex art. 17 CCI sollevata dai creditori, ritenendo che il mancato rispetto del termine di quattro mesi non potesse essere valutato in sede giudiziale. Trattandosi di una fase stragiudiziale, una simile valutazione avrebbe comportato l’introduzione di una sanzione processuale in una fase che, per sua natura, sfugge alla giurisdizione ordinaria.

Tuttavia, pur negando rilevanza giuridica al profilo processuale della tempistica, i giudici hanno ritenuto sostanzialmente legittima la condotta del debitore, valorizzando la rinuncia alla procedura giudiziale quale indice di affidabilità e razionalità del nuovo percorso negoziale.


Profili di buona fede e limiti all’abuso degli strumenti di regolazione della crisi

Il legislatore ha introdotto la c.d. “quarantena” per evitare che l’alternanza tra strumenti di regolazione della crisi sia usata abusivamente, con il solo fine di dilazionare il procedimento o evitare la dichiarazione di liquidazione giudiziale.

Il requisito della buona fede nell’accesso agli strumenti di composizione della crisi è fondamentale, non solo sotto il profilo etico, ma anche quale parametro di valutazione della serietà e sostenibilità del percorso di risanamento. Tuttavia, secondo il Tribunale sammaritano, l’inosservanza del termine quadrimestrale non comporta l’inammissibilità dell’istanza ai sensi dell’art. 17, ma può rilevare – eventualmente – solo nella successiva fase giudiziale (es. accesso al concordato semplificato), laddove emerga un comportamento strumentale o dilatorio del debitore.


Misure protettive e strumentalità rispetto alla trattativa

L’ordinanza in commento si chiude con la concessione delle misure protettive richieste dalla società debitrice, ritenute essenziali alla buona riuscita delle trattative in sede di composizione negoziata. Il Tribunale ha infatti affermato che il ricorso anticipato alla composizione negoziata, pur non perfettamente aderente al dato normativo, è giustificabile qualora appaia funzionale alla tutela del ceto creditorio e al riequilibrio dell’impresa.


Conclusioni

La “passerella” introdotta dall’art. 25-quinquies CCI rappresenta un’importante innovazione nell’ambito degli strumenti di risanamento d’impresa, consentendo un passaggio ragionato e strategico dalla procedura giudiziale a quella negoziale. Tuttavia, il rispetto del termine di quattro mesi deve essere letto non in termini rigidamente formalistici, ma alla luce dei principi di proporzionalità, buona fede e tutela dell’interesse dei creditori.

La pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si inserisce in questa nuova logica di favor per la composizione negoziata, riconoscendo che la flessibilità interpretativa, se ben motivata e ancorata a dati economico-finanziari concreti, può prevalere sul formalismo procedurale, rafforzando l’efficacia del sistema di regolazione della crisi.


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STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO
Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma

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RESPONSABILITA’ SANITARIA: CASS. CIV., ORD. N. 17881/2025 RIBADISCE CHE IL LUCRO CESSANTE DEVE ESSERE RISARCITO, IN CASO DI ACCERTATA NEGLIGENZA MEDICA

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Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte Suprema interviene sulla corretta liquidazione del danno patrimoniale in ambito sanitario

In tema di responsabilità medica, il danno patrimoniale subito dal paziente non si esaurisce nel solo danno emergente, ma può includere anche il lucro cessante, ovvero il mancato guadagno derivante dalle conseguenze invalidanti di un errore sanitario. Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte di Cassazione ha censurato la decisione della Corte d’appello che aveva negato il risarcimento del lucro cessante sulla base di un ragionamento giuridicamente errato.

⚖️ Il principio stabilito dalla Cassazione

Secondo la Sezione III civile della Suprema Corte, il giudice di merito non può escludere il risarcimento del lucro cessante derivante da responsabilità sanitaria con motivazione incongrua o fondata su un errato inquadramento giuridico.

“La Corte d’appello, in materia di responsabilità sanitaria, non può negare il lucro cessante sulla base di un ragionamento scorretto, inidoneo a escludere il nesso causale tra la condotta sanitaria colposa e la perdita di chance reddituali del danneggiato.”
(Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025)

📌 Cosa si intende per lucro cessante nella responsabilità sanitaria?

Il lucro cessante rappresenta quella componente del danno patrimoniale futuro che consiste nel mancato guadagno che il soggetto avrebbe potuto conseguire in assenza del fatto illecito. In ambito medico, si pensi al caso di un paziente che, a causa di una condotta colposa del sanitario, subisca una invalidità permanente tale da impedirgli di svolgere la propria attività lavorativa o da comprometterne significativamente il reddito.

🔍 Il caso concreto: vizio motivazionale e errore di diritto

Nel caso oggetto della pronuncia, la Corte territoriale aveva rigettato la domanda risarcitoria relativa al lucro cessante senza adeguata valutazione delle risultanze probatorie e senza applicare correttamente i criteri di liquidazione del danno patrimoniale. La Cassazione ha quindi accolto il ricorso della parte danneggiata, ritenendo la motivazione della sentenza impugnata illogica e contraria ai principi di diritto consolidati.

📚 Riferimenti normativi e giurisprudenziali

  • Art. 1223 c.c. – Il risarcimento del danno per inadempimento o fatto illecito comprende sia la perdita subita (danno emergente) sia il mancato guadagno (lucro cessante).
  • Art. 2043 c.c. – Responsabilità extracontrattuale.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 28989/2019 – Ha riconosciuto il diritto al risarcimento per perdita della capacità lavorativa specifica.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 10424/2021 – Ha precisato che la perdita di chance reddituale costituisce danno patrimoniale risarcibile, anche in ambito sanitario.

🔎 Profili applicativi: il ruolo del giudice e la prova del danno

Secondo la giurisprudenza costante, il lucro cessante va dimostrato con ragionevole certezza, attraverso l’allegazione:

  • della capacità lavorativa specifica preesistente all’evento dannoso,
  • della incidenza dell’evento lesivo sulla possibilità di produrre reddito,
  • e della prognosi economico-funzionale del soggetto leso.

Il giudice deve quindi motivare in modo logico e coerente l’eventuale esclusione di tale voce di danno, senza basarsi su presunzioni generiche o su automatismi giuridici.

✅ Conclusioni

L’ordinanza n. 17881/2025 rappresenta un importante richiamo all’esigenza di tutela piena del danneggiato in ambito sanitario, imponendo al giudice di merito un rigoroso rispetto dei principi civilistici sul risarcimento integrale del danno.

Negare il lucro cessante in presenza di un danno documentato e causalmente collegato alla condotta medica colposa costituisce violazione del diritto alla piena riparazione, con conseguente vizio della motivazione e cassazione della sentenza.


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Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025 integrale, in versione pdf:

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PENALE: CASS. PEN., SENT. N. 26129/2025 CHIARISCE CHE LA DETENZIONE DOMICILIARE E LA MESSA ALLA PROVA POSSONO COESISTERE, CON PRESCRIZIONI COMPATIBILI

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La Suprema Corte chiarisce i rapporti tra misura alternativa e giustizia riparativa. Un passo importante verso l’efficienza dell’esecuzione penale

Detenzione domiciliare e messa alla prova non sono istituti necessariamente alternativi tra loro. Con la recente sentenza n. 26129 del 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Penale, ha affermato un principio di grande rilievo per l’applicazione pratica delle misure penali: le due misure possono coesistere anche se disposte in procedimenti distinti, a condizione che le relative prescrizioni siano armonizzabili.

Detenzione domiciliare e messa alla prova: cosa dice la Cassazione

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un soggetto stava eseguendo una detenzione domiciliare ex art. 47-ter dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), mentre in un altro procedimento penale aveva ottenuto la messa alla prova ai sensi dell’art. 168-bis c.p.. Il dubbio interpretativo riguardava la compatibilità operativa delle due misure: è possibile assoggettare un imputato a un programma di messa alla prova, che prevede attività esterne (lavoro di pubblica utilità, incontri con i servizi sociali, etc.), mentre questi si trova agli arresti domiciliari?

La risposta della Cassazione è positiva, purché venga effettuata una verifica concreta della compatibilità delle prescrizioni imposte con entrambe le misure.

🔍 Il principio giuridico: compatibilità delle prescrizioni

Secondo la Cassazione, non sussiste un’incompatibilità strutturale o automatica tra:

  • la misura alternativa della detenzione domiciliare (in esecuzione penale),
  • e la sospensione del procedimento con messa alla prova (nell’ambito di altro processo).

“È possibile dare esecuzione congiunta a entrambe le misure, a patto che le prescrizioni imposte siano concretamente compatibili e armonizzabili tra loro.”
(Cass. pen., Sez. I, sent. 26129/2025)

La valutazione di compatibilità spetta al giudice che dispone la messa alla prova, il quale dovrà accertare che le attività previste dal programma non violino le condizioni della detenzione domiciliare. In caso contrario, la misura riparativa non potrà essere concessa.

⚖️ Verso una giustizia penale più funzionale e flessibile

Questa decisione si inserisce nel più ampio contesto delle riforme del sistema penale volte alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio e alla promozione di modelli di giustizia riparativa, come previsto dalla riforma Cartabia (D.lgs. 150/2022).

La pronuncia valorizza i principi di:

  • economicità e funzionalità del processo,
  • favor rei nel ricorso a strumenti alternativi alla pena detentiva,
  • recupero e reinserimento sociale del condannato.

📚 Giurisprudenza correlata

La sentenza n. 26129/2025 trova conferma in altri precedenti, tra cui:

  • Cass. pen., Sez. I, n. 29947/2023, che ha ammesso la compatibilità tra messa alla prova e misure cautelari;
  • Cass. pen., Sez. I, n. 12205/2021, che ha ribadito la centralità dell’effettività del programma di messa alla prova.

🔎 Conclusioni

La Corte di Cassazione, con questa sentenza, offre una lettura sistematica e coerente dell’ordinamento penitenziario e della giustizia riparativa, in linea con i principi costituzionali di rieducazione della pena (art. 27, co. 3, Cost.) e di tutela del contraddittorio nel processo penale.

La compatibilità tra detenzione domiciliare e messa alla prova rappresenta un passaggio evolutivo nell’ottica di un sistema penale più umano, razionale e orientato al reinserimento.


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Cass. Pen., Sent. N. 26129/2025 integrale, in formato pdf:

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DIRITTO AMBIENTALE: LA CORTE EDU CONDANNA L’ITALIA PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE (ART. 8 CEDU)

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La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’inquinamento nella Valle dell’Irno

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Fonderie Pisano e inquinamento a Salerno: la CEDU condanna l’Italia per violazione del diritto alla vita privata


La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’inquinamento nella Valle dell’Irno: violato l’articolo 8 CEDU per mancata tutela della salute dei residenti.


Inquinamento industriale a Salerno: la CEDU condanna l’Italia per la violazione del diritto alla vita privata

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la mancata tutela dei cittadini residenti nei pressi delle Fonderie Pisano, impianto industriale attivo nella Valle dell’Irno, vicino Salerno. Con la sentenza L.F. e altri c. Italia (ricorso n. 52854/18), depositata il 6 maggio 2025, Strasburgo ha accertato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Una sentenza che fotografa un’emergenza ambientale dimenticata

La decisione della Corte si inserisce in un contesto di croniche emergenze ambientali italiane: dopo la storica pronuncia sulla Terra dei Fuochi (Cannavacciuolo e altri c. Italia, 30 gennaio 2025), la CEDU torna a puntare i riflettori su un altro caso emblematico di inazione statale di fronte a gravi rischi sanitari ed ecologici.

Nel caso specifico, i ricorrenti — 153 cittadini — vivevano a ridosso dell’impianto che produceva fino a 300 tonnellate al giorno in un’area divenuta nel tempo residenziale a causa di modifiche urbanistiche. Nonostante i ripetuti allarmi, esposti e ricorsi presentati nel corso degli anni, lo stabilimento non è mai stato delocalizzato. Al contrario, sono state autorizzate nuove costruzioni in quella stessa area contaminata.

Un’esposizione prolungata senza tutele né informazione

Secondo la Corte, le autorità italiane erano perfettamente a conoscenza dei rischi ambientali connessi alla permanenza delle Fonderie Pisano in quell’area urbana densamente popolata. Tuttavia, non sono state adottate misure efficaci né sono state informate le popolazioni coinvolte. Solo a partire dal 2016 sono iniziati dei monitoraggi ambientali, ma i dati raccolti non sono stati resi pubblici fino al 2021, impedendo ai residenti di difendersi adeguatamente.

Uno studio del 2021 ha confermato la gravità dell’inquinamento e la maggiore incidenza di patologie respiratorie, cardiovascolari e neurologiche nella popolazione residente nel raggio di 6 chilometri dallo stabilimento.

Perché non è stata riconosciuta la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita)?

I ricorrenti avevano denunciato anche la violazione dell’articolo 2 CEDU, affermando di aver subito danni alla salute documentati da analisi mediche che attestavano la presenza di metalli nel sangue e gravi patologie correlate. Tuttavia, la Corte ha ritenuto non sufficientemente provato il nesso causale diretto tra inquinamento ambientale e insorgenza delle malattie, in base allo standard di prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” richiesto per l’articolo 2.

Diverso il discorso per l’articolo 8, dove è sufficiente dimostrare che l’inquinamento abbia avuto un impatto significativo sulla qualità della vita. E così è stato.

La responsabilità dello Stato: mancata prevenzione e inefficacia normativa

La Corte ha sottolineato che l’Italia ha fallito nell’adozione di misure positive, come richiesto dall’articolo 8 CEDU. Ha permesso lo sviluppo urbanistico in aree inquinate, non ha proceduto alla delocalizzazione dell’impianto, e ha mantenuto un quadro sanzionatorio inadeguato almeno fino all’entrata in vigore della legge n. 68 del 2015 sui reati ambientali.

Nonostante la consapevolezza della situazione, le misure adottate sono arrivate troppo tardi e non hanno avuto effetti riparatori sui danni già subiti dai cittadini.

Il precedente Di Sarno e la continuità giurisprudenziale

La decisione si inserisce nel solco tracciato dalla sentenza Di Sarno e altri c. Italia (2012), nella quale la Corte aveva riconosciuto che un grave deterioramento ambientale può costituire una violazione dell’articolo 8, anche in assenza di un rischio immediato per la salute. L’elemento centrale è l’impatto sulla qualità della vita.

Nel caso di Salerno, Strasburgo ha ritenuto che le prove indirette e le presunzioni accumulate — comprese le perizie giudiziarie e i dati epidemiologici — bastino per dimostrare una compromissione sostanziale del benessere dei residenti.

Nessuna sentenza pilota, ma obbligo di attuazione

I ricorrenti avevano chiesto l’adozione di una sentenza pilota, stante l’elevato numero di persone coinvolte. Tuttavia, la Corte ha scelto di non imporre misure generali, lasciando allo Stato italiano la libertà di determinare come conformarsi alla sentenza, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione.

Anche la richiesta di 20.000 euro per danni morali è stata respinta: per la Corte, la semplice constatazione della violazione rappresenta un’equa soddisfazione.


Conclusioni: un’Italia fragile sul fronte della giustizia ambientale

Il caso delle Fonderie Pisano conferma quanto la tutela dei diritti fondamentali sia ancora vulnerabile nei contesti di emergenza ambientale in Italia. La pronuncia di Strasburgo non è soltanto un atto di accusa verso la gestione locale e nazionale del territorio, ma anche un monito: la tutela dell’ambiente è un diritto umano fondamentale.

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Nel vuoto di risposte efficaci, la CEDU diventa sempre più spesso l’unico presidio di giustizia per cittadini esposti a rischi ambientali gravi e sistemici.


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PENALE – FALLIMENTO: CASS. PEN., SEZ. V, SENT. N. 25825/2025 CHIARISCE CHE IL REATO È UNICO SE LA DICHIARAZIONE È UNICA

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Introduzione

Con la sentenza n. 25825/2025, la Corte di Cassazione penale affronta una questione fondamentale in materia di reati contro la fede pubblica e, in particolare, di dichiarazioni mendaci e uso di documenti falsi: quando più documenti contengono la stessa dichiarazione, si configura un reato unico o una pluralità di reati?

La Corte ribadisce un importante principio di diritto: se la dichiarazione è unica, il reato deve essere considerato unico, a prescindere dal numero dei documenti su cui essa è materialmente riprodotta. Si esclude quindi il concorso materiale tra più reati, riconoscendo l’unitarietà della condotta criminosa.

Il caso: una dichiarazione, più documenti

Nel caso esaminato, l’imputato aveva reso una dichiarazione mendace, che era stata poi riprodotta in più documenti distinti. Il giudice di merito aveva ritenuto sussistente una pluralità di reati di falso, ritenendo che ciascun documento costituisse una autonoma offesa all’interesse tutelato.

La difesa, ricorrendo in Cassazione, ha sostenuto che si trattava di una condotta unitaria, articolata su più supporti documentali ma riferibile a un’unica manifestazione di volontà o conoscenza.

La decisione della Corte: unicità del fatto

La Cassazione accoglie il ricorso, affermando che:

“In tema di falsità ideologica, va esclusa la pluralità di reati quando la dichiarazione mendace è unica, anche se viene riprodotta su più documenti. In tal caso si configura un reato unico, trattandosi di una condotta unitaria sotto il profilo oggettivo e soggettivo.”

La motivazione si fonda su due pilastri:

Unità della dichiarazione: ciò che rileva è l’unicità della condotta lesiva, ossia la falsa rappresentazione della realtà compiuta in un unico momento o contesto decisionale. Concorso apparente di norme: in presenza di più norme astrattamente applicabili, si applica solo quella che regola in modo più specifico il fatto, evitando duplicazioni sanzionatorie non giustificate.

Conseguenze giuridiche

La sentenza ha un impatto significativo:

Evita il cumulo sanzionatorio in caso di condotte unitarie, impedendo una duplicazione artificiosa dei reati. Ribadisce il principio di offensività, secondo cui non rileva il numero di supporti cartacei, ma l’effettiva lesione dell’interesse tutelato (in questo caso, la fede pubblica). Si inserisce nel solco di giurisprudenza che tende a ricondurre a unità reati formalmente plurimi, quando essi si fondano su una medesima volontà antigiuridica (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 20161/2017; Cass. pen., sez. VI, n. 3845/2022).

Applicazioni pratiche

Questa pronuncia può avere ricadute rilevanti nei seguenti ambiti:

Falsità nelle dichiarazioni fiscali, previdenziali o amministrative. Autocertificazioni contenenti dati mendaci ripetuti su più moduli o allegati. Falsi in sede di appalti pubblici, dove la stessa dichiarazione viene inserita in diversi elaborati.

Conclusioni

La sentenza n. 25825/2025 della Corte di Cassazione rappresenta un importante punto di riferimento in tema di concorso apparente tra reati di falso. Essa invita gli operatori del diritto e i giudici a valorizzare l’aspetto qualitativo della condotta – l’unicità della dichiarazione – piuttosto che il dato meramente quantitativo rappresentato dalla pluralità dei documenti.

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Fonti

Cass. pen., Sez. V, sentenza 25825/2025 Art. 81 c.p. – Reato continuato Art. 476 e ss. c.p. – Falsità materiale e ideologica in atto pubblico Art. 49 e 51 c.p. – Concorso apparente di norme

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Cass. Pen., Sez. V, Sent. N. 25825/2025 integrale, in formato pdf:

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PENALE: QUADRO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE DELLA RESPONSABILITA’ PENALE AMBIENTALE

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Reati previsti dal D.Lgs. 152/2006 e dal Codice Penale


1. Cos’è la responsabilità penale ambientale

La responsabilità penale ambientale riguarda l’attribuzione di responsabilità a persone fisiche (e, in alcuni casi, anche giuridiche) per condotte che violano norme a tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e della salute pubblica.

Essa trova fondamento sia in disposizioni codicistiche (come gli articoli 434 c.p. o 452-bis e ss. c.p.) sia nella normativa speciale, in particolare nel Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006), nonché in normative europee recepite in Italia.


2. I reati ambientali nel Codice Penale

Con la Legge 68/2015, il legislatore italiano ha introdotto nel Codice Penale un nuovo Titolo VI-bis, rubricato “Dei delitti contro l’ambiente”, che comprende:

  • Art. 452-bis c.p. – Inquinamento ambientale
    Reato che punisce chi cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque, dell’aria, del suolo o degli ecosistemi.
  • Art. 452-quater c.p. – Disastro ambientale
    Sanziona alterazioni irreversibili dell’equilibrio di un ecosistema o effetti particolarmente estesi o duraturi dell’inquinamento.
  • Art. 452-quinquies c.p. – Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività
  • Art. 452-sexies c.p. – Impedimento del controllo
    Reato residuale che colpisce chi ostacola o elude controlli ambientali da parte delle autorità pubbliche.

Questi reati si caratterizzano per la loro struttura complessa e per l’uso di concetti tecnico-scientifici (es. “deterioramento misurabile”) che richiedono accertamenti peritali.


3. La normativa speciale: D.Lgs. 152/2006

Il Testo Unico Ambientale contiene numerose disposizioni penali, soprattutto in tema di:

  • Scarichi idrici illeciti
  • Emissioni in atmosfera non autorizzate
  • Gestione illecita di rifiuti
  • Bonifiche non eseguite o falsamente dichiarate
  • Violazioni delle prescrizioni AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale)

Molti di questi illeciti sono contravvenzioni, ma possono concorrere con i delitti previsti dal Codice Penale, generando un sistema composito e talvolta di difficile lettura.


4. Soggetti responsabili: posizione di garanzia e principio di effettività

Come chiarito dalla Cassazione n. 25731/2025, la responsabilità penale ambientale si fonda sulla titolarità di una posizione di garanzia, che può derivare da:

  • Investitura formale (datore di lavoro, dirigente ambientale, legale rappresentante)
  • Esercizio di fatto delle funzioni (principio di effettività)

Deve essere dimostrata la concretezza del potere-dovere di controllo e di gestione del rischio ambientale. Non basta una carica formale: serve l’effettiva possibilità di prevenire l’evento lesivo.


5. Responsabilità delle persone giuridiche (D.Lgs. 231/2001)

Per alcuni reati ambientali è prevista anche la responsabilità amministrativa dell’ente (impresa o società), se:

  • Il reato è stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente
  • L’autore è un soggetto in posizione apicale o sottoposto a direzione altrui
  • L’ente non ha adottato efficaci modelli organizzativi di prevenzione

Questo meccanismo amplia la sfera di tutela penale, richiedendo alle imprese una compliance ambientale rafforzata.


6. Orientamenti giurisprudenziali recenti

La giurisprudenza ha affermato che:

  • La mera titolarità di una qualifica aziendale non è sufficiente per configurare la responsabilità penale, se non è accompagnata dall’effettivo esercizio di poteri decisionali (Cass., Sez. III, n. 25731/2025).
  • In caso di gestione collettiva dell’azienda, la responsabilità può essere ripartita tra più soggetti, ma richiede l’accertamento della sfera di controllo di ciascuno.
  • L’imprudenza nella gestione dei rifiuti o delle emissioni può integrare anche il reato di disastro ambientale, se gli effetti sono gravi e diffusi.

7. Conclusioni

La responsabilità penale ambientale si fonda su un equilibrio tra la necessità di tutelare beni primari come ambiente e salute pubblica e la corretta individuazione delle responsabilità individuali.

L’evoluzione normativa e l’interpretazione giurisprudenziale – come dimostrato dalla sentenza n. 25731/2025 – pongono al centro il principio di effettività, imponendo un’attenta verifica del ruolo concreto del soggetto nella gestione delle attività pericolose.


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Cass. Pen., Sez. III, Sent. n. 25731/2025 integrale, in formato pdf:

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REATI TRIBUTARI: CASS. PEN., SENT. N. 25599/2025

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Con la sentenza n. 25599/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di reati tributari: per poter accedere al patteggiamento (ex art. 444 c.p.p.), è necessario che il debito tributario risulti integralmente estinto prima dell’apertura del dibattimento.


⚖️ Il principio stabilito dalla Cassazione

Secondo la Suprema Corte:

“L’ammissione al rito del patteggiamento è subordinata alla prova dell’estinzione del debito d’imposta, comprensivo di imposte, sanzioni e interessi, intervenuta in epoca antecedente all’apertura del dibattimento di primo grado.”

Ciò significa che la regolarizzazione fiscale deve avvenire tempestivamente, e non è sufficiente l’impegno al pagamento o un piano di rateizzo in corso.


📌 Perché è importante estinguere il debito prima del dibattimento?

La ratio della norma è quella di premiare chi collabora con l’erario e ripristina spontaneamente la legalità tributaria, evitando processi lunghi e costosi. In assenza di estinzione del debito, non è possibile beneficiare del rito premiale, né di eventuali riduzioni di pena collegate.


📝 Conclusioni

La sentenza n. 25599/2025 della Cassazione conferma l’orientamento rigoroso in materia di patteggiamento nei reati fiscali: l’estinzione del debito deve essere completa, documentata e tempestiva. Gli imputati e i difensori dovranno quindi verificare puntualmente lo stato dei pagamenti prima di avanzare una richiesta ex art. 444 c.p.p.


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Cass. Pen., Sent. n. 25599/2025 integrale, in formato pdf:

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La responsabilidad del Estado por omisión de tratamientos médicos en el ámbito penitenciario: análisis de la Sentencia n.º 25578/2025 del Tribunal de Vigilancia de Roma

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A continuación te presento un artículo científico jurídico en español, redactado a partir del contenido de la Sentencia n.º 25578/2025 del Tribunal de Vigilancia de Roma, conforme al estilo doctrinal de una revista académica hispanohablante:

Autor: Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Afiliación institucional: VERSOilFUTURO

Fecha: Julio de 2025

Resume

El presente trabajo analiza la Sentencia n.º 25578/2025 dictada por el Tribunal de Vigilancia de Roma, la cual resuelve un recurso interpuesto por un recluso afectado por hepatitis crónica C, frente a la omisión continuada de tratamiento médico por parte de la administración penitenciaria. A través de esta resolución, el tribunal reafirma la vigencia del derecho fundamental a la salud de las personas privadas de libertad, en el marco de los artículos 32 de la Constitución italiana y 3 del Convenio Europeo de Derechos Humanos. Asimismo, se examinan las implicaciones jurídicas de la omisión de cuidados médicos desde la perspectiva del derecho administrativo, civil y penal.

1. Introducción

La protección del derecho a la salud en contextos de privación de libertad constituye una obligación esencial del Estado de Derecho. No cabe concebir un sistema penitenciario democrático en el que las necesidades médicas de los reclusos sean desatendidas o postergadas. La sentencia comentada aborda precisamente esta problemática, estableciendo un precedente relevante para el control judicial de la actividad sanitaria penitenciaria.

2. Hechos del caso

El recurrente, detenido en una cárcel de Roma, padecía hepatitis crónica C, hipertensión y fibrosis hepática. Desde 2023, diversos especialistas penitenciarios le prescribieron el tratamiento con Epclusa (sofosbuvir/velpatasvir), sin que la administración procediera a su suministro. Durante más de un año, el interno vio deteriorarse progresivamente su salud, sin que mediara justificación alguna para la omisión terapéutica. A raíz de un recurso presentado ex art. 35-bis del ordenamiento penitenciario, el Tribunal ordenó la administración inmediata del medicamento y declaró vulnerado su derecho fundamental a la salud.

3. El derecho a la salud en prisión: marco normativo y jurisprudencial

El artículo 32 de la Constitución italiana reconoce el derecho a la salud como un derecho fundamental de toda persona, cuya protección debe mantenerse íntegra aun en contextos de reclusión. La Corte Constitucional ha afirmado reiteradamente que la condición de detenido no justifica restricciones indebidas a dicho derecho¹.

En paralelo, el Tribunal Europeo de Derechos Humanos ha condenado en diversas ocasiones a Estados miembros por incumplimientos en la prestación de cuidados médicos a detenidos, considerándolos violaciones al artículo 3 del Convenio Europeo de Derechos Humanos².

4. Obligaciones positivas del Estado en materia sanitaria penitenciaria

La sentencia subraya que el Estado no sólo debe abstenerse de causar daño, sino que tiene la obligación activa de garantizar tratamientos adecuados. El principio de equivalencia de atención médica entre personas libres y reclusas se configura como estándar mínimo exigible.³

En este contexto, los retrasos injustificados o la negativa a dispensar medicamentos prescritos por facultativos constituyen no sólo una infracción administrativa, sino también una forma de trato inhumano o degradante, prohibido por el derecho internacional de los derechos humanos.

5. Dimensión reparadora: responsabilidad civil y penal

Si bien la decisión se dicta en un procedimiento de vigilancia penitenciaria —sin efectos indemnizatorios automáticos—, deja abierta la posibilidad de acciones ulteriores de responsabilidad extracontractual conforme al artículo 2043 del Código Civil italiano. De igual modo, ante daños físicos derivables directamente de la omisión, podrían activarse mecanismos de responsabilidad penal por lesiones por omisión de socorro (artículos 40 y 582 del Código Penal).⁴

6. Conclusiones

La Sentencia n.º 25578/2025 representa un hito en la protección judicial del derecho a la salud de las personas detenidas. Al declarar la ilicitud de la conducta omisiva de la administración penitenciaria, el Tribunal reafirma la centralidad del principio de dignidad humana y sienta un precedente valioso en la lucha contra las deficiencias estructurales del sistema sanitario carcelario.

Referencias

Corte Costituzionale, Sentencia n. 349/1993, en Foro italiano, 1993, I, pág. 2753. TEDH, Mouisel c. Francia, sentencia del 14 de noviembre de 2002; Khudobin c. Rusia, sentencia del 26 de octubre de 2006; Cirillo c. Italia, sentencia del 26 de noviembre de 2019. Comité Europeo para la Prevención de la Tortura (CPT), Normas del CPT, CPT/Inf/E (2002) 1 – Rev. 2010, § 31. Codice Civile italiano, art. 2043; Codice Penale italiano, arts. 40 y 582.

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Responsibility of the Penitentiary Administration for the Omission of Medical Treatment: Commentary on Tribunale di Sorveglianza di Roma, Judgment No. 25578/2025

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Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

VERSOilFUTURO (IUS)

July 2025

This article examines the recent decision of the Tribunale di Sorveglianza di Roma (Rome Surveillance Court), Judgment No. 25578/2025, concerning the penitentiary administration’s failure to provide vital antiviral treatment to an inmate suffering from chronic HCV-related hepatitis. The ruling underscores the constitutional and international obligation of the State to actively ensure the right to health for detainees and highlights the implications of omissive conduct under both civil and human rights law.

I. Introduction

The right to health for incarcerated individuals is a cornerstone of both constitutional guarantees and supranational obligations. The Rome Surveillance Court’s ruling addresses the failure to administer a prescribed treatment for hepatitis C, raising concerns about systemic deficiencies and the potential legal liabilities of penitentiary authorities.

II. Factual Background

The claimant, detained in a Roman correctional facility, suffered from HCV-related chronic hepatitis and other hepatic conditions. Despite specialist prescriptions recommending the administration of Epclusa (sofosbuvir/velpatasvir), the penitentiary administration failed to provide the drug for over a year, leading to a worsening of the detainee’s condition. The court, upon review, found a violation of the detainee’s right to health and ordered immediate administration of the drug.

III. Constitutional and International Framework

The Italian Constitutional Court has firmly held that detention does not entail the forfeiture of fundamental rights, particularly the right to health.¹

This principle aligns with the case law of the European Court of Human Rights, which has repeatedly condemned inadequate medical care in detention as a violation of Article 3 of the European Convention on Human Rights.² In Cirillo v. Italy, the Court found a breach of Article 3 due to the Italian authorities’ failure to provide adequate care.³

IV. Positive Obligations of the State

The ruling reiterates the doctrine that States must not only refrain from harming detainees but must actively ensure access to appropriate treatment. The notion of “equivalence of care” requires that prisoners receive the same medical standards as free individuals.⁴ Budgetary or bureaucratic limitations cannot justify treatment delays that endanger life or dignity.

V. Civil and Criminal Liability for Omissions

Though the judgment was rendered in a surveillance proceeding (not a civil damages action), it opens the door to civil liability claims under Article 2043 of the Italian Civil Code. In more severe cases, omissions in the provision of medical care may even amount to criminal liability under Articles 40(2) and 582 of the Italian Penal Code, read in conjunction with Article 185.⁵

VI. Conclusion

The Rome Surveillance Court’s decision affirms the principle that incarceration cannot negate the constitutional and human rights of the individual. It sends a strong message to penitentiary administrations that systemic medical negligence is not only unlawful but legally actionable. It also reflects broader European jurisprudence holding States accountable for treatment failures in custodial settings.

Footnotes

Corte cost., 9 Nov. 1993, n. 349, Foro it. I, 1993, 2753 (It.) (“La condizione detentiva non comporta la perdita dei diritti fondamentali, tra cui la salute.”). Mouisel v. France, App. No. 67263/01, Eur. Ct. H.R. (2002); Khudobin v. Russia, App. No. 59696/00, Eur. Ct. H.R. (2006). Cirillo v. Italy, App. No. 45188/15, Eur. Ct. H.R. (2019). European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT), Standards, CPT/Inf/E (2002) 1 – Rev. 2010, § 31. Codice penale [C.p.] [Criminal Code] arts. 40(2), 582, 185 (It.); Codice civile [C.c.] [Civil Code] art. 2043 (It.).

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PENALE: TRIB. SORV. DI ROMA, SENT. N. 25578/2025, RESPONSABILITÀ DELL’AMM. PENIT. PER OMISSIONI DI CURE DI UN DETENUTO MALATO

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Tribunale di Sorveglianza di Roma

1. Introduzione

Il presente articolo analizza la recente sentenza n. 25578/2025 emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, che affronta un tema di estrema attualità e rilevanza costituzionale: la responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria per l’omessa somministrazione di cure mediche adeguate a detenuti affetti da gravi patologie. L’ordinanza si inserisce nel solco della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in materia di tutela della salute in ambito carcerario, ponendo in luce le criticità sistemiche nell’attuazione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. e art. 3 CEDU.

2. I fatti di causa

Il caso trae origine dal reclamo presentato da un detenuto recluso nella Casa Circondariale di Roma, affetto da epatite cronica HCV-correlata e altre gravi patologie epatiche e respiratorie, il quale lamentava l’omissione, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, della somministrazione del farmaco “Epclusa” a base di sofosbuvir e velpatasvir, prescritto dai medici specialisti già nel 2023.

Nonostante l’evidente gravità del quadro clinico e la documentazione medica che certificava l’urgenza del trattamento, il ricorrente era rimasto privo di cure adeguate per oltre un anno, con progressivo aggravamento dello stato di salute. Il Tribunale ha dunque accolto il reclamo, ordinando la somministrazione immediata della terapia e condannando l’Amministrazione per violazione degli obblighi costituzionali e convenzionali di tutela della salute.

3. Profili giuridici: il diritto alla salute in ambito detentivo

La sentenza si fonda su un impianto normativo e giurisprudenziale consolidato, che riconosce il diritto alla salute come diritto fondamentale della persona, inviolabile anche in condizione di detenzione. Già la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 349/1993, ha statuito che “la condizione detentiva non comporta la perdita dei diritti fondamentali, tra cui la salute”¹.

In sede sovranazionale, la Corte EDU ha più volte condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU, anche in relazione a carenze sanitarie in ambito penitenziario (si veda il caso Cirillo c. Italia, 2019).

4. L’obbligo positivo dello Stato: profilassi e cure

Particolarmente significativa, nella pronuncia in esame, è l’affermazione secondo cui lo Stato ha non solo un obbligo negativo di non ledere il diritto alla salute, ma un vero e proprio obbligo positivo di garantire cure appropriate. In questo senso, il Tribunale richiama i principi elaborati dalla giurisprudenza europea, secondo cui il mancato accesso a terapie salvavita costituisce un trattamento inumano e degradante².

La pronuncia si segnala anche per l’utilizzo della nozione di “trattamento sanitario equivalente” rispetto al libero cittadino, riconoscendo che l’Amministrazione penitenziaria non può invocare vincoli economico-burocratici per giustificare omissioni terapeutiche.

5. Conseguenze sanzionatorie e risarcitorie

Pur trattandosi di una decisione in sede di sorveglianza, e quindi priva di contenuti risarcitori in senso stretto, la sentenza apre la strada ad azioni risarcitorie fondate sull’art. 2043 c.c. e, in casi di particolare gravità, sull’art. 185 c.p. in combinato disposto con l’art. 582 c.p. (lesioni personali colpose per omissione di atti dovuti).

La responsabilità civile della pubblica amministrazione, in questo contesto, può essere inquadrata secondo lo schema dell’illecito omissivo, aggravato dall’affidamento esclusivo della salute del detenuto all’Amministrazione stessa.

6. Considerazioni conclusive

La sentenza n. 25578/2025 del Tribunale di Sorveglianza di Roma rappresenta un importante monito per l’Amministrazione penitenziaria e un segnale chiaro sull’intollerabilità di ritardi o omissioni nell’erogazione delle cure ai detenuti. Essa rafforza il principio secondo cui la detenzione non può mai tradursi in un sacrificio della dignità e della salute della persona, pena la violazione della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’auspicio è che tale giurisprudenza trovi pronta e coerente attuazione nella prassi carceraria e che le carenze strutturali del sistema sanitario penitenziario siano colmate da un’effettiva responsabilizzazione delle autorità competenti.

Note

Corte cost., sent. n. 349 del 1993, in Foro it., 1993, I, c. 2753. CEDU, sentenza Mouisel c. Francia, 14 novembre 2002; Khudobin c. Russia, 26 ottobre 2006.

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Tribunale di Sorveglianza di Roma, sent. n. 25578/2025 integrale, in formato pdf:

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