COSÌ È (SE VI PARE)

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Così è (se vi pare)

Non esiste nulla di peggiore e di più squallido che la speculazione sulle disgrazie altrui, del riportare notizie e immagini, nonché video, non veritieri, perché non corrispondenti ai fatti citati. Come già è accaduto con la pandemia del Covid-19, stiamo assistendo ad un’ignobile diffusione mediatica da parte dei telegiornali e della stampa in generale, di notizie artefatte e false nella narrazione di ciò che sta accadendo tra la Russia e l’Ucraina. Per evitare qualsiasi fraintendimento, urge precisare che il sottoscritto non scrive per parteggiare a favore della Russia, ma semplicemente per ricercare la verità. Una verità che viene sempre filtrata e molto spesso fuorviata dal mainstream che si prodiga a raccontare nelle migliori delle ipotesi una parte della verità, omettendo di riportare tutta la verità e nient’altro che la verità. Nella memoria dei più informati e non smemorati, resta ancora impressa la falsa foto delle bare dei morti di Covid-19 di Bergamo, che lo stesso sito specializzato open.online denunciò come risalenti al 2013.

Predetto quanto sopra esposto, per sviluppare in modo ordinato il ragionamento che intendo “enuclearvi”, è opportuno palesare quanto sia deleteria la mancanza di memoria storica anche nel brevissimo termine da parte della massa e quanto ciò determini l’incapacità di ricevere alcun insegnamento dai fatti storici, anche non molto remoti. Quando scoppiò la guerra in Iraq, tutti i media e il mainstream non fecero altro che sobillarci con notizie presentate come certe riguardo all’ipotetico arsenale biologico di distruzione di massa in dotazione di Saddam Hussein, che grazie alle “sicurissime” prove che millantavano il premier inglese Tony Blair e il presidente statunitense George W. Bush di allora, ogni opinione contraria al riguardo veniva considerata ridicola o sovversiva. Ebbene, a conflitto terminato, con Hussein ucciso senza essere catturato e poi processato, impedendogli in tal modo di dichiarare alcunché, si venne a scoprire che era tutta una grande farsa, che era servita a motivare e giustificare l’intervento bellico in Iraq e di conseguenza ottenere il consenso dell’opinione pubblica.

Dopo questa scandalosa scoperta, né Bush e tanto meno Blair subirono alcuna conseguenza, l’unico ad aver subito un’esiziale implicazione fu lo scienziato inglese David Kelly, il quale durante la popolare trasmissione radiofonica inglese della BBC “Today programme” denunciò l’infondatezza del dossier presentato dal Governo Blair sulle presunte armi di distruzione di massa possedute in Iraq e che poco dopo fu ritrovato deceduto ad Harrowdown Hill, in una foresta nell’Oxfordshire. Pertanto, come si può evincere in modo apodittico dai fatti succitati, i media molto spesso non sono fonte di inconfutabili verità, probabilmente perché rispondono ai loro finanziatori e non a caso con l’ulteriore e progressivo restringimento delle “zone bianche” (per usare definizioni grate al Comitato tecnico scientifico e al “lungimirante” ministro della salute Speranza) l’Italia ristagna al 41 posto della classifica mondiale in riferimento alla libertà di stampa, secondo quanto ha stabilito il World Press Freedom Index di Reporter Senza Frontiere.

La crisi tra la Russia e l’Ucraina ha origini lontane, prima di tutto le due nazioni sono storicamente legate, non solo perché il Granduca di KievOleg, di origine vichinga, fondò la Russia, ma anche perché l’Ucraina e la Crimea hanno sempre rappresentato per la Russia una finestra sull’Europa e sul Mediterraneo, nonché un cuscino di protezione per la sua incolumità. Ciò che accadde nel 2014 con la cacciata del presidente dell’Ucraina di allora, Viktor Janukovyč, a causa di una rivoluzione, destò non poche preoccupazioni a Vladimir Putin, sia per l’anomalo modo con cui sorse questa cosiddetta rivoluzione e sia per i finanziamenti esteri che ricevettero i suoi organizzatori. Il modo con cui la Russia perse il suo referente filorusso, presidente dell’Ucraina, spinse Putin ad indire un referendum presso la Crimea (allora regione dell’Ucraina donata dall’ucraino Krusciov, quando era presidente dell’Unione Sovietica per celebrare i 300 anni dell’accordo fra Russi e Cosacchi) per renderla indipendente e alleata della Russia, oltre che per tutelare la numerosa comunità di lingua russa, presente sul territorio della Crimea.

In seguito, sorse il problema delle rivendicazioni delle comunità russe nelle zone di Donetsk e Luhansk, che poi recentemente Putin ha riconosciuto ufficialmente come repubbliche indipendenti. Nel frattempo, la Nato non ha mai smesso di pianificare l’allargamento in Ucraina, in cui oggi, forse, già sono presenti dei siti di arsenali riconducibili alla stessa. Come diverse volte, nei suoi numerosi interventi pubblici al riguardo, il giornalista nonché esperto della Russia, Giulietto Chiesa, ebbe modo di evidenziare quanto fosse pericoloso per l’equilibrio geopolitico da parte della Nato insistere nel voler inglobare l’Ucraina, addirittura arrivò al punto di affermare che l’entrata dell’Ucraina nella Nato sarebbe potuta essere la causa scatenante della terza guerra mondiale. Dopo aver citato questa breve cronaca dei fatti storici, credo che sia fondamentale tenerne conto per non cadere irretiti nella trappola propagandistica e demagogica del mainstream, che tende volutamente a semplificare, nonché banalizzare, la questione della Russia del dittatore e bestiale Putin contro il libero e civile Occidente, tornando al solito strumento comunicativo della polarizzazione dello scontro, tipo Guelfi e Ghibellini o peggio ancora riproponendo l’enfasi delle Crociate.

Putin non è né magnanimo né un mostro, è semplicemente il leader di una nazione che oltre a rappresentare una potenza economica in progressivo sviluppo, è anche una potenza militare e come tale vuole tutelare i propri confini e la propria influenza non più e non meno di quello che fa la Nato e chi finanzia la Nato. La onde, a prescindere da come si evolverà questo scontro militare tra la Russia e l’Ucraina e indirettamente la Nato, l’unico dato certo che già emerge è che noi italiani siamo e saremo vittime di una “guerra economica” che ci impoverirà ulteriormente, minando in modo definitivo il nostro benessere e il nostro precario equilibrio economico. Questo perché in questa crisi, ogni protagonista cercherà di fare i propri interessi, tranne la figurante insignificante Italia, che mentre urlerà ai quattro venti con il suo “curatore fallimentare”, attuale premier, di volere sostenere le sanzioni economiche contro la Russia, sanzioni peraltro insignificanti da un punto di vista sostanziale per la Russia, soprattutto per ciò che concerne la sua capacità di ripagarsi il debito pubblico, in quanto rappresenta solo il 20 per cento del suo Pil, altresì saranno nefaste da un punto di vista prettamente politico nei rapporti commerciali con l’Italia.

Infatti, l’Italia, una “pulce” nello scacchiere geopolitico internazionale, che importa (necessariamente) il 30 per cento del fabbisogno di gas dalla Russia, ad un prezzo accettabile, a causa di questa crisi potrebbe perdere anche 50 miliardi di fatturato prodotto ogni anno dalle aziende italiane, esportando i loro prodotti in Russia, con tutte le ripercussioni economiche conseguenti. La sub cultura dell’italiano medio e la sua miopia nel capire l’attualità politica internazionale, nonché la sua profonda ignoranza storica, che portò Indro Montanelli a confermare ciò che il celebre giornalista e suo maestro Ugo Ojetti gli aveva insegnato, ossia che gli italiani sono un popolo di “contemporanei”, perché sono un popolo senza memoria, porterà l’Italia verso una deriva di indigenza e di crisi economica inimmaginabile, peggiore di quella che subì alla fine della seconda guerra mondiale.

Se è vero che ognuno è artefice del proprio destino, il popolo dello stivale lo è del suo, visto che nel lontano novembre del 1987, grazie a Marco Pannella (finanziato da fondi esteri per indire quel referendum), rinunciò a produrre l’energia nucleare, per auto condannarsi ad essere dipendente dell’energia straniera, come è l’Italia per quanto riguarda l’approvvigionamento del gas dalla Russia, oltre al fatto di sprecare annualmente le proprie risorse per la manutenzione delle centrali nucleari presenti in Italia, inattive, ma non chiuse, oltre al fatto che compriamo energia dalla Francia che la produce nelle sue centrali nucleari al confine con l’Italia, e che compriamo energia anche dalla Slovenia che la produce, anch’essa, con la sua centrale nucleare (peraltro costruita dagli italiani), sempre ai nostri confini, senza contare che eravamo all’avanguardia nella costruzione delle centrali nucleari. I “soloni” dei salotti nostrani, insieme alla nostra omologazione, non sembrano interessati a questa imminente mancanza di approvvigionamento energetico e a questi aumenti di gas ed energia che arriveranno, ma pensano solo a sciorinare il loro solito repertorio ideologico e pseudo pacifista, fuorviando la realtà storica dei fatti e derubricando lo tsunami di povertà che invaderà l’Italia, le sue famiglie, i suoi cittadini e le sue imprese, con un tasso di natalità ormai quasi estinto e una continua invasione di clandestini, di cui l’Unione Europea non si è mai preoccupata, per aiutare e salvaguardare i confini dell’Italia.

In fine, per capire meglio ciò che sta accadendo in questa crisi internazionale tra la Russia e la Nato, a causa dei combattimenti in Ucraina, vi riporto di seguito quanto scrisse l’ex segretario di stato Henry Kissinger, inerente a questa situazione, nell’estratto di un suo articolo, pubblicato dal Washington Post il 5 marzo del 2014 (quando si paventava l’occupazione della Crimea da parte della Russia): “Da troppo tempo la questione ucraina è stata posta in alternativa: o l’Ucraina si unisce all’Occidente o all’Oriente. Ma se l’Ucraina vuole sopravvivere non deve diventare l’avamposto di uno contro l’altro, deve fare da “ponte” fra di loro. La Russia deve capire che forzare l’Ucraina ad essere un suo satellite condannerebbe Mosca ai ciclici attriti con l’Europa e gli Usa. L’Occidente deve capire che per la Russia l’Ucraina non sarà mai una “terra straniera”. La storia russa è nata nella regione Kievan-Rus. La sua religione è scaturita da lì. L’Ucraina è stata parte integrante della Russia per secoli e le loro storie erano intrecciate da ancor prima. Alcune delle più importanti battaglie per la libertà russa, a cominciare da quella di Poltava nel 1709, si sono combattute in suolo ucraino. La Flotta del Mar Nero è stata a lungo di base a Sebastopoli in Crimea. Perfino certi famosi dissidenti come Aleksandr Solženicyn o Iosif Brodskij hanno sostenuto che l’Ucraina è parte integrante della storia russa.

Gli ucraini sono l’elemento decisivo: vivono in un paese con un passato complesso e una composizione poliglotta. La parte occidentale del paese fu annessa all’Unione Sovietica nel 1939 quando Stalin e Hitler si divisero il bottino. La Crimea, che per il 60 per cento parla russo, fu data all’Ucraina solo nel 1954 quando Krusciov, ucraino di nascita, gliela donò per celebrare i 300 anni dell’accordo fra russi e cosacchi.

Il lato ovest è largamente cattolico, quello est russo ortodosso. Il lato ovest parla ucraino, quello est in prevalenza il russo. Ogni tentativo di una parte dell’Ucraina di dominare sull’altra porta inevitabilmente alla guerra civile o a una spaccatura del paese. Usare l’Ucraina come luogo di scontro Est-Ovest brucia per decenni la possibilità di una cooperazione pacifica fra la Russia e l’Occidente, in particolare con l’Europa. L’Ucraina è stata indipendente per soli 23 anni, mentre dal 1300 in poi è sempre stata una sorta di protettorato a guida straniera. Non sorprende quindi che i suoi leader non abbiano ancora imparato l’arte del compromesso e ancor meno la capacità di avere una visione storica. Le vicende post indipendenza dimostrano che alla radice di tutti i problemi ci sono i tentativi che i politici ucraini fanno per imporsi sulle parti recalcitranti del paese, prima da parte di una fazione poi di quella opposta. Una politica saggia degli Usa dovrebbe agevolare una cooperazione fra le due fazioni non perseguire il prevalere di una sull’altra.

La Russia non è in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi. Mentre per l’Occidente demonizzare Putin è solo un alibi per mascherare l’assenza di una propria strategia politica. Putin deve convincersi che muoversi militarmente riapre una nuova Guerra fredda. Gli Usa devono da parte loro smetterla di trattare la Russia come un pazzo a cui bisogna pazientemente insegnare le regole stabilite da Washington. Putin è uno stratega serio, ma comprendere i valori e la psicologia americani non è il suo forte. Ma neppure i politici Usa sono molto bravi a capire la storia e la psicologia russa. E questi sono secondo me i punti di una soluzione compatibile coi valori, gli interessi e la sicurezza di entrambe le parti:

1) L’Ucraina deve essere libera di aderire ai trattati economici e politici che preferisce, compresi quelli con l’Europa.

2) L’Ucraina non deve entrare nella Nato.

3) L’Ucraina dovrebbe attuare una politica di riconciliazione nazionale.

4) Sullo scenario internazionale dovrebbe invece avere una posizione simile alla Finlandia, un paese sicuramente orgoglioso della sua indipendenza e che coopera con l’Occidente in molti campi ma che evita accuratamente atteggiamenti ostili verso la Russia”.

“Mundus vult decipi, ergo decipiatur!”

http://www.opinione.it/politica/2022/03/01/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_societ%C3%A0-crisi-ucraina-russia-nato-energia-putin/

Condividi:

L’OFFENSIVA GIUDIZIARIA CONTRO LA PRIMA CASA

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

L’offensiva giudiziaria contro la prima casa

Alea iacta est, l’azione di delegittimazione e di privazione della proprietà privata da parte del potere giudiziario procede incontrastata, con sconcertante pertinacia e accurata acribia, nel suo processo ineluttabile. In un contesto socio-economico dove la libertà economica e quindi individuale è sempre maggiormente minata, attraverso la progressiva demolizione di ogni tutela e garanzia della proprietà privata, a favore di una proprietà collettiva, tramite l’attento controllo delle risorse economiche della comunità da parte delle occulte lobbies, l’instaurazione di una società collettivista è sempre più incalzante e rende ingiustificabile qualsiasi ipotetica “miopia” al riguardo da parte di coloro che non ne prendono atto o fingono di non averne contezza.

In questa fase storica stiamo assistendo a un repentino passaggio socio-culturale da una visione della società improntata su principi liberali, come era quella che già nel IV a.c. ben delineava Aristotele nella sua eccelsa opera filosofica La Politica (Τά πολιτικά), a un’impostazione di stampo platonico, che dall’opera La Repubblica (Πολιτεία) dello stesso Platone ben si evince, ossia quella visione di una Polis (πόλις) collettivista e quindi totalitaria, in cui una ristretta oligarchia di illuminati, definiti “filosofi”, governa in modo gerarchico e paternalistico un popolo divenuto plebe, in cui sia la responsabilità genitoriale e sia la proprietà, perdono ogni connotazione identificativa e individuale a favore di un comunismo (nella sua accezione etimologica) assoluto e generale, in cui l’oligarchia di pochi illuminati stabilisce per i propri sudditi cosa sia sano e sia giusto e non inquinante e i comportamenti consoni al raggiungimento di tali obiettivi.

L’ultima offensiva a danno della proprietà privata emerge da quanto è stato stabilito recentemente nella sentenza n. 6765/2022, da parte della Suprema Corte di Cassazione, secondo la quale la “prima casa” non costituisce un limite all’ablazione del bene immobiliare di un cittadino. La Suprema Corte ha negato l’inalienabilità della “prima casa” respingendo i due motivi che erano a fondamento di un ricorso proposto avverso l’ordinanza cautelare che rigettava la richiesta di riesame. Con il primo motivo si contestava la decisione del Tribunale delle Libertà di assoggettare la prima casa a un sequestro preventivo finalizzato alla confisca, in riferimento ai reati contestati in materia di dichiarazione e pagamento di imposte adducendo il fatto che la normativa del Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, articolo 52, comma 1, lettera G, convertito con delle modifiche nella Legge del 9 agosto 2013, n. 98, vieta all’agente preposto alla riscossione, tenendo conto di specifiche ipotesi e condizioni, l’opportunità di procedere all’azione di espropriazione dell’immobile considerato “prima casa”, di proprietà del debitore, anche qualora si configuri la fattispecie concreta di un reato tributario, che postulerebbe la conseguente sanzione della confisca.

Secondo quanto è previsto all’articolo 12 bis del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, il quale esclude la confisca di beni che costituiscono il profitto o il prezzo di determinati delitti (stabiliti nello stesso decreto), qualora i succitati beni appartengano a persona estranea al reato, si affermava, con il secondo motivo del ricorso, che la casa in questione, sotto sequestro, era vincolata a un fondo patrimoniale famigliare su di essa costituito, al fine di provvedere ai bisogni abitativi e patrimoniali della famiglia e ciò determinava un conseguente vincolo di impignorabilità anche per quello che concerne i debiti tributari.

Ebbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso rigettando entrambi i motivi addotti dal ricorrente, sentenziando riguardo al primo motivo che il limite posto dal legislatore inerente all’espropriazione immobiliare inerisce solo ed esclusivamente “all’unica proprietà immobiliare del debitore” e non quindi al alla “prima casa”, in quanto, sempre secondo quanto motivato dalla Suprema Corte, il debitore perché possa esimere la confisca della propria “prima casa” deve dimostrare che essa coincida con la sua unica proprietà immobiliare.

Mentre, per quanto riguarda il secondo motivo addotto dal ricorrente, la Suprema Corte ha stabilito che il principio generale dell’impignorabilità di un bene immobiliare inerisce esclusivamente alle espropriazioni da parte del fisco per motivi derivanti da debiti tributari e di conseguenza risulta inapplicabile in riferimento alla confisca penale e al sequestro preventivo a esso collegato, in quanto è il profitto dell’illecito penale a costituire l’oggetto della confisca e non il debito nei confronti del fisco. Questa sentenza compromette in modo radicale ed evidente lo stato di diritto e la nostra Carta Costituzionale nei suoi dettami cardini di tutela e garanzia del diritto alla casa, violando il principio secondo il quale sono inviolabili i limiti posti all’aggressione giudiziaria nei confronti della prima casa abitativa, anche in presenza di sequestri preventivi e conseguenti confische.

Invero, il sequestro preventivo o la confisca del proprio immobile abitativo costituisce un modus agendi surrettizio per aggirare il divieto di ledere il principio generale di tutela e di garanzia della “prima casa”, previsto dal legislatore, in quanto esso rappresenterebbe un’aggravante punitivo e illegittimamente afflittivo. Dulcis in fundo, con la succitata sentenza si è anche violato il principio di inviolabilità e di tutela dei beni oggetto di un fondo patrimoniale familiare, istituito per preservare gli stessi, attribuendo loro un mero vincolo di destinazione, molto spesso creato per garantire il diritto a una casa per i figli e per il proprio coniuge.

La deriva collettivistica e compromettente il principio inviolabile del diritto alla proprietà abitativa sta prevaricando ogni residuo di riserva di legge costituzionale, nella completa indifferenza e assuefazione della cittadinanza, che inebetita dal mainstream, non è informata o non s’informa su quanto le sue libertà costituzionali, come il diritto della proprietà privata, siano progressivamente e in modo esponenziale disattese dalla giurisprudenza prevalente, con la complicità e spesso anche grazie alle politiche distruttive per il diritto alla casa degli stessi Esecutivi che negli ultimi anni si sono avvicendati nel governo della nostra decadente nazione, i quali rispondono a dei diktat draconiani di nefasti centri di potere, che proprio all’alta percentuale di proprietà immobiliari dei cittadini italiani hanno rivolto i loro interessi e obiettivi speculativo-finanziari, provocando la progressiva deformazione della nostra filosofia del diritto privatistico a favore di una esacerbante espansione del diritto pubblico anche su materie e diritti concernenti i principi inviolabili della Costituzione italiana.

“Beati possidentes”

http://www.opinione.it/societa/2022/03/16/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_propriet%C3%A0-privata-potere-giudiziario-occulte-lobbies-aristotele-platone/

Condividi:

La tautologica riforma costituzionale sull’ambiente

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

La tautologica riforma costituzionale sull’ambiente

Nella solita confusione mediatica e nell’approssimativa disinformazione, connotata dalla demagogica superficialità di slogan giornalistici o da politicanti, si sviluppa una narrazione dei fatti deformata e non corrispondente alla realtà, millantando un sedicente progresso che agli atti occulta surrettiziamente pericolosi interessi di lobby multinazionali e che, altresì, potrebbe generare delle azioni giudiziarie a danno dell’impresa e della tutela della proprietà privata, con uno Stato sempre più invadente riguardo ai nostri affari privati. Questo bieco e squallido modus agendi si è reiterato in modo apodittico nell’attuazione della revisione di legge costituzionale degli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale, riguardo a una falsa tutela ambientale.

A volte sembra che gli italiani cadano in una sorta di oblio della memoria, sembra come se dimenticassero i contenuti della propria Costituzione, al punto da gioire quando gli viene raccontato che “finalmente” sono stati inseriti nella Carta dei principi innovativi e di progresso che fino a quel momento erano assenti. Per dimenticanza (volendo essere ottimisti) o per spregevole ignoranza (volendo essere realistici) gli italiani omettono completamente che quei principi già esistono e sono tutelati all’interno della Costituzione e sono addirittura sanciti tra i principi fondamentali che la compongono.

Nel merito della questione sottoposta all’attenzione, merita citare la fonte primaria da cui deriva la normativa vigente in Italia, mi riferisco nello specifico all’articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, solennemente proclamata dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione europei a Nizza il 7 dicembre del 2000 (per questo motivo detta “Carta di Nizza”) e pubblicata in Gazzetta ufficiale della Ue il 18 dicembre del 2000, la quale a sua volta è stata sostituita con la versione aggiornata del 2009, tramite l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

Il succitato articolo 37, con il titolo “Tutela dell’ambiente”, stabilisce “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione europea e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile” e a questo dettame hanno dovuto ispirarsi tutte le legislazioni dei Paesi membri. Da un’analisi attenta e approfondita della Costituzione italiana, si evince che questa sensibilità e tutela per l’ambiente sono già sedimentate e radicate nella sua struttura portante e nei suoi principi fondamentali. Non a caso, al secondo comma dell’articolo 9 già è affermato (prima di questa sedicente “innovativa” e tanto decantata riforma costituzionale) che la Repubblica italiana “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

In questo comma anzidetto, secondo una lettura più avanzata, per il legislatore, il significante “paesaggio”, oltre a intendere il complesso delle bellezze naturali di significativo valore estetico e culturale, si identifica con l’ambiente, ossia con “le parti del territorio i cui caratteri caratteristici derivano dalla natura, dalla storia e dalle reciproche interrelazioni” tra gli esseri umani. Dunque, anche in virtù dell’articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Convenzione europea sul Paesaggio, adottata dal Consiglio europeo con la sua sottoscrizione avvenuta il 20 ottobre del 2000, è sorta nel legislatore italiano una sensibilità ambientale che lo ha portato ad avere una visione dinamica del territorio, emanando un serie di leggi che disciplinano i singoli settori ambientali, concependo l’ambiente come un bene fondamentale e per questo meritevole di ricevere attenzione da un Governo consapevole e orientato ad armonizzare le trasformazioni derivanti dai processi di sviluppo sociale, economico e ambientale, proprio come previsto dalla Convenzione europea sul Paesaggio.

Questo cambiamento significativo nella tutela dell’ambiente ha portato il legislatore a emanare il decreto legislativo del 3 aprile del 2006 numero 152 (Codice dell’Ambiente), disciplinando tale tutela con l’istituzione di principi fondamentali in materia di prevenzione, sviluppo sostenibile e responsabilità diretta di coloro che inquinano l’ambiente. Perciò con questo comma si è voluto tutelare indistintamente ogni bene e valore rilevanti per la Costituzione nel rapporto uomo-natura.

A conferma di quanto finora esposto, molto spesso la stessa Consulta ha fatto riferimento al citato comma per costituzionalizzare il valore dell’ambiente, nel suo significato fondamentale di bene primario (sentenza 641 del 1986) e assoluto della Repubblica (sentenza 641 del 1987), a cui sono collegati sia interessi sanitari e naturalistici e sia interessi culturali, ricreativi ed educativi, proprio per palesare che l’ambiente non è considerata una semplice res, bensì una risorsa primaria. Dopo questa esposizione illustrativa si deduce che lo Stato di diritto italiano non ristagnava in una torbida e primitiva concezione di cinica indifferenza verso la tutela ambientale.

Nonostante quanto finora esposto, per usare un eufemismo, “l’ingenua” opinione pubblica, come incantata da una favola pari a quella di “Alice nel paese delle meraviglie”, si auto-suggestiona perché crede che, grazie all’approvazione alla Camera dei deputati da parte dei due terzi dei suoi componenti, in seconda deliberazione, del disegno di legge di riforma costituzionale, avvenuta l’8 febbraio del 2022, dopo che il Senato l’aveva già approvato con doppia deliberazione, in Italia finalmente per la prima volta si tutela costituzionalmente l’ambiente come se ciò non fosse già accaduto. La “grandiosa” e “innovativa”, nonché “illuminante” riforma costituzionale del Ddl in questione si declina in tre articoli: l’introduzione di un nuovo comma nell’articolo 9 della Costituzione, la modifica dell’articolo 41 della Costituzione e, in finale, l’introduzione di una clausola di salvaguardia per l’applicazione del principio di tutela degli animali.

Nel merito delle modifiche costituzionali, all’art 9 viene inserito il comma “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Per inciso, risulta alquanto esilarante che si faccia un esplicito riferimento all’interesse delle future generazioni, in una nazione, quale l’Italia, in cui il tasso di natalità è andato progressivamente scomparendo (meno di 400mila i nati nel 2021), forse allude ai futuri clandestini che insieme a quelli già presenti compenseranno il drammatico calo demografico italiano, grazie soprattutto alle “lungimiranti” politiche per la famiglia e per incentivare le nascite. Perciò, in questo comma costituzionale viene per la prima volta introdotto il riferimento esplicito e generico agli animali, prevedendo una riserva di legge per il legislatore, allo scopo di definire le forme e i modi di tutela. Qui la domanda nasce spontanea, dal momento che il legislatore ha sentito l’esigenza di citare in modo esplicito, ma generico, la tutela degli animali: a quali si riferisce? Perché, nella sua genericità e vaghezza espositiva, nella categoria degli animali rientrano anche i moscerini, le zanzare, i topi, gli scarafaggi e quant’altro. Quindi chi in autostrada si troverà sul vetro della macchina dei moscerini schiacciati potrà incorrere in qualche illecito, d’estate potremmo incorrere nell’imputazione di “genocidio” utilizzando degli insetticidi contro le zanzare o le mosche?

La riforma costituzionale assume dei tratti inquietanti soprattutto in riferimento alla libertà dell’iniziativa economica privata, sancita nell’articolo 41 della Costituzione, dal momento che il legislatore ne ha modificato il secondo comma, il quale statuisce che la succitata iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, con l’aggiunta, nella posizione che precede i termini “alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, dei vocaboli “alla salute, all’ambiente”.

Inoltre, al terzo comma dello stesso articolo costituzionale, al dettame “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” aggiunge l’espressione “e ambientali”. Se la Costituzione fosse un’opera letteraria o poetica, potrei comprendere la tautologica esplicazione di significanti il cui significato è già compreso in termini già citati, in funzione di arricchimento lessicale dell’eloquenza del testo, allora potrei comprenderne il senso, ma dal momento che parliamo della fonte primaria del nostro diritto, su cui si basa la conseguente legislazione, urge porsi delle domande su quali conseguenze giuridiche potrebbero determinare queste modifiche costituzionali.

Altresì, questa riforma aumenterà le istanze di tutela di innumerevoli specie di fauna (scarafaggi compresi), ma l’aspetto ancora più aberrante, determinerà un’ulteriore facilitazione per coloro che provengono da zone del mondo colpite da sconvolgimenti climatici, che di conseguenza potranno chiedere il riconoscimento di rifugiato, come se l’Italia non fosse già oberata per essere diventata una specie di zona franca per tutti gli immigrati clandestini, grazie alle politiche fallimentari di contenimento dei confini da parte dei nostri politicanti e grazie alla reiterata indifferenza della tanto “solidale” Unione europea.

Per di più, il legislatore, essendo titolare di una riserva di legge costituzionalmente sancita, potrà – con l’approvazione della maggioranza del Parlamento – intervenire in modo draconiano sulla gestione della nostra proprietà privata immobiliare, imponendo in modo invasivo degli adeguamenti strutturali per la sedicente tutela ambientale, costi che andrebbero a ripercuotersi sulla già provata e precaria stabilità economica delle famiglie e dei cittadini italiani, magari con il “ricatto” di prevedere delle sanzioni pecuniarie qualora questi adeguamenti non venissero eseguiti e magari inducendoli a vendere o peggio ancora a svendere a colossi di multinazionali immobiliari, sempre più fameliche e invadenti nella loro conquista del mercato immobiliare italiano.

La stessa riserva di legge costituzionale metterebbe il legislatore nelle condizioni di intervenire in modo invasivo nella gestione delle imprese private, ovviamente sempre a tutela dell’ambiente e dell’attuazione della transizione ecologica, a cui l’Ue ha vincolato l’erogazione dei fondi per il Pnrr, causando di conseguenza il loro fallimento, come abbiamo già potuto constatare con la legiferazione delle restrizioni incostituzionali governative a danno della libertà di circolazione ed economica e quindi d’impresa, attuate con la giustificazione della presenza della pandemia.

Le stesse politiche per attuare in modo repentino e forzatamente questa “salvifica” transizione ecologica stanno mettendo a repentaglio interi settori industriali e produttivi, minando la sopravvivenza di diverse imprese e di conseguenza di molteplici posti di lavoro, nonché di tutti gli indotti derivanti, oltre al fatto che sta portando verso una deriva esiziale numerose piccole e medie imprese, a vantaggio “stranamente” delle solite multinazionali.

Una Costituzione, per antonomasia, in un’accezione razionalista evoluzionista (ossia veramente liberale) e non costruttivista, dovrebbe prevedere norme astratte e generali e non particolari, altrimenti diventerebbe uno strumento per realizzare soprusi legislativi a danno delle libertà individuali. In una nazione in cui l’inflazione normativa ha determinato l’inefficienza dello Stato di diritto, si dovrebbe porre l’attenzione nel far rispettare i principi fondamentali e inviolabili già sanciti nella Costituzione, anziché preoccuparsi di appesantirla con ambigui cavilli, che possono diventare la fonte normativa di mostruose leggi illiberali.

Impia sub dulci melle venena latent” (Ovidio,“Amores”)

https://www.opinione.it/politica/2022/02/18/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_riforma-costituzionale-ambiente-disinformazione-propriet%C3%A0-privata/

Condividi:

Insulto virtuale tra illecito civile e reato

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Insulto virtuale tra illecito civile e reato

In una società in cui il tempo scorre freneticamente, in cui gli scambi relazionali diventano fugaci, asettici e molto spesso in preda a frustranti nevrosi, la tecnologia straripante ha invaso ogni meandro dei rapporti umani, diventando l’anfibolo strumento per comunicare in modo repentino e per manifestare tutta la propria rabbia come valvola di sfogo, con l’ingannevole sensazione di possedere un’infinita ed incontrastabile onnipotenza per proferire ciò che si vuole e contro chiunque, nell’illusoria convinzione di rimanere impuniti ed esenti da qualsiasi responsabilità giuridica e giudiziaria. Questo scenario appena descritto è quello che contraddistingue la nostra vita contemporanea, la quale si è trasformata progressivamente e repentinamente, passando da esistenza reale a riflesso virtuale degli stessi strumenti tecnologici a disposizione, come i “social network”. Da questo contesto si deduce sempre maggiormente l’esigenza di tutelare sia chi, senza alcun intento criminoso, è autore di illeciti civili a causa delle suddette condotte e sia coloro che ne sono vittime.

Per questo è opportuno palesare le diverse fattispecie giuridiche che possano derivare da condotte illecite nell’utilizzo dei social network. La condotta che determina atti illeciti, tramite l’utilizzo dei social network in modo improprio è una fattispecie, che suscita grande attenzione ed interesse da parte delle istituzioni, sia da un punto di vista normativo con l’introduzione di nuove previsioni legislative, che giurisprudenziale con sentenze alquanto severe e sensibili al problema, soprattutto da parte della Suprema Corte. A seconda della condotta esercitata dall’autore del fatto illecito tramite l’utilizzo del social network o del bene giuridico di interesse normativo, si configurano diverse fattispecie di reato. Le ipotesi di reato più frequenti riguardo al proferire insulti sulle piattaforme dei social network sono il reato di diffamazione ex articolo 595 del Codice penale ed il reato di minaccia ex articolo 612 del Codice penale. Secondo l’articolo 595 del Codice penale chi “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” commette il reato di diffamazione, perché lesiona il bene giuridico della reputazione, dell’onore e del decoro.

Il comma 2 del suddetto articolo prevede un aumento sanzionatorio per colui che diffama attribuendo un fatto determinato, mentre il comma 3 prevede un inasprimento sanzionatorio quando la diffamazione è diffusa “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, al postutto, il comma 4 prevede un aumento sanzionatorio riguardo a chi compie il reato di diffamazione “recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio”. Colui che insulta tramite un profilo social qualcun altro non solo può incorrere nel reato di diffamazione, oltre a rientrare nella fattispecie prevista dal comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale se concretizzata con l’attribuzione di un fatto determinato, ma può essere colpevole anche di diffamazione aggravata (ex articolo 595 del Codice penale, comma 2) se compiuta tramite mezzi di pubblicità diversi dalla stampa, diretta a una pletora di possibili destinatari, come conferma la stessa sent. N. 13979/2021 della Cassazione penale.

L’altra fattispecie di reato di cui potrebbe risultare imputabile chi insulta sui social è quella riguardante la minaccia (ex articolo 612 del Codice penale), che si concretizza nell’intimidire con la previsione di recare un male ingiusto, che a sua volta è idoneo a generare un disagio al destinatario, a causa del timore di esserne vittima, come conferma la sentenza n. 358187/2018 della Cassazione penale. In particolare, la sentenza n.17159/2019 della Cassazione penale precisa che perché si configuri il reato di minaccia “è sufficiente che il male prospettato sia idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti essere destinatario, male che non può essere costituito dalla prospettazione di una legittima azione giudiziaria civile e dalla diffusione di notizie relative all’inadempimento negoziale commesso nei confronti dell’agente”.

Quindi quando si utilizza il proprio profilo social per insultare qualcuno bisogna tener conto che se il fatto viene compiuto “comunicando con più persone, offende l’altrui persona”, quindi, nell’ipotesi che il destinatario dell’insulto non sia presente si può commettere il reato di diffamazione, mentre se l’insulto è compiuto in presenza del destinatario, anche se essa si realizza in modo, appunto, virtuale, allora si configura la fattispecie di un illecito civile e non di un reato, in quanto l’autore dell’insulto sarebbe colpevole di aver commesso un’ingiuria, ex illecito penale, che con il Decreto legislativo del 15 gennaio del 2016, n.7, è stato depenalizzato. In conclusione, anche se l’illecito civile d’ingiuria si può commettere con una comunicazione telefonica o telegrafica, quindi anch’esso in modo virtuale, il fatto che ci sia la presenza del destinatario dell’insulto, anche a distanza, costituisce una distinzione giuridicamente fondamentale dalla diffamazione, che invece è e resta un illecito penale, la quale appunto, si può consumare anche virtualmente, ma in assenza del destinatario. In sostanza, colui che si prodiga ad utilizzare il proprio profilo social per insultare senza limiti e rispetto della reputazione e del decoro altrui, pensando ingenuamente di essere in una zona franca, perché virtuale, può incorrere in due illeciti, quello civile rappresentato dall’ingiuria e quello, giuridicamente ancora più grave perché penale, del reato di diffamazione.

“Qui diligit rixas meditatur discordias”

https://www.opinione.it/politica/2022/02/10/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_social-network-ex-articolo-595-codice-penale-reato-minaccia-ex-articolo-612/

Condividi:

Luci sbiadite di un’Italia già morta

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Luci sbiadite di un’Italia già morta

In una nazione senza alcuna memoria storica come l’Italia, composta da una popolazione di contemporanei, ignara completamente delle proprie origini e del proprio passato, non dovrebbe sorprendere il fatto che la maggioranza degli italiani, nonostante abbia visto violare reiteratamente la propria Carta costituzionale, peraltro nei principi fondamentali e per questo (teoricamente) inalienabili, gioisca per gli sviluppi politici ed istituzionali, come la conferma del Governo Draghi, ossia il “sicario” della nostra libertà di circolazione e della nostra libertà economica, con un ministro della Salute, Roberto Speranza, che in diverse occasioni ha palesemente dimostrato la sua grave responsabilità nella gestione della pandemia. Soprattutto al suo inizio, quando lo stesso consigliava di somministrarsi la Tachipirina a chi si era contagiato di Covid e che, sempre all’inizio, vietava che venissero svolte le autopsie sui primi deceduti a causa del Covid-19.

La natura servile e di sudditanza radicata nella cultura atavica degli italiani si è declinata in modo apodittico soprattutto nell’osannare la rielezione dello stesso Presidente della Repubblica, che ha avallato quanto sopra esposto, soprattutto il modus agendi incostituzionale del Governo Conte prima e del Governo Draghi attualmente con i loro atti non aventi alcuna forza di legge come i Dpcm. Ma soprattutto hanno applaudito il Capo dello Stato che, nel suo discorso d’insediamento del secondo mandato presidenziale, ha denunciato tutto ciò che egli stesso nel suo primo mandato ha permesso che accadesse, diventandone complice.

Gli italiani, sedicenti “brava gente”, hanno dimostrato semplicemente di essere un gregge senza alcun buon senso: dopotutto basta dargli una nuova edizione del festival nazional-popolare e un reality show, insieme al conduttore o conduttrice popolani e demagogici di turno, che con le loro trasmissione grottesche e grette lobotomizzano la mente omologata dell’italiano medio. Con questo scenario subumano e incolto è palese che gli italiani siano entusiasti e abbiano fiducia nel loro presidente del Consiglio, che dopo aver affossato l’economia e distrutto diverse piccole e medie imprese con le sue “lungimiranti” restrizioni, afferma gioioso e soddisfatto che l’economia italiana è cresciuta del 6 per cento nel 2021 rispetto al 2020. Un dato surreale, perché nasce dal confronto con quello del 2020 in cui l’economia italiana era totalmente ferma a causa del lockdown totale.

Detto ciò, trovo ancora più sconvolgente che gli italiani, oltre a non denunciare la povertà emergente in modo progressivo ed esponenziale nella propria economia reale, non si preoccupino neanche dei dati drammatici macroeconomici della propria nazione. A cominciare da quelli sulle dinamiche demografiche e del mercato del lavoro dell’Italia, da cui si evince un esiziale crollo delle nascite negli ultimi cinquant’anni, che di conseguenza ha generato un divario tra coloro che escono ed entrano nella fascia di età lavorativa. Addirittura, da questi dati emerge che grazie agli immigrati (non clandestini) si è più che compensato l’impatto delle dinamiche demografiche sulla forza lavoro. Ma nonostante questa compensazione straniera, la situazione andrà a peggiorare, in quanto il divario tra uscenti ed entranti in età lavorativa aumenterà in modo drastico a causa del pensionamento delle coorti dei “baby boomer” degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, che non potrà essere limitato e compensato neanche dal saldo migratorio.

Con un’analisi più approfondita si evince che l’andamento del saldo demografico è condizionato dal calo della natalità dell’ultimo cinquantennio. Nello specifico, le nascite sono diminuite passando dalle 900.000 unità di inizio anni Settanta a circa mezzo milione tra la fine degli anni Ottanta e l’ultimo decennio, fino a raggiungere l’inquietante calo di meno delle 400.000 unità nel 2021. Da quanto finora esposto, si deduce che in Italia sta progressivamente emergendo che non solo ci sarà nei prossimi anni una carenza di forza lavoro riguardo a quelle occupazioni che gli italiani rifiutano di svolgere, ma ci sarà anche una carenza di forza lavoro specializzata e professionale, sempre a causa della drammatica diminuzione delle nascite.

Oltre al danno anche la beffa. Infatti, anche se la politica incapace e molto spesso cialtrona cambiasse rotta e attuasse delle politiche che favorissero e incentivassero l’aumento della natalità in Italia, sarebbe comunque ormai troppo tardi per vederne i primi effetti nel breve e nel medio periodo, ma bisognerebbe sperare di riscontarne i primi solo nel lungo periodo. In sostanza, questo significa che oramai l’Italia, così come noi riteniamo in modo miope di concepire già non esiste più, è morta, come quelle stelle ormai implose di cui si scorge ancora una fievole luce nel cielo oscuro, perché questi scenari sopra esposti dimostrano che per sostenere la forza lavoro nei prossimi vent’anni, sempre a causa delle suddette tragiche dinamiche demografiche, sarà improcrastinabile e necessario attingere all’immigrazione straniera, portando il suo numero a livelli molto superiori di quelli già riscontrati nel primo ventennio del Duemila.

Come dire, Italia è già avviata a passare da Patria nostra a Patria loro, ma dopotutto ogni popolo si merita ciò che il proprio riflesso, ossia la propria classe politica, ha seminato negli anni. E questo è ciò che l’Italia si meriterà. Aura popularis (italica).

https://www.opinione.it/politica/2022/02/08/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_italia-memoria-immigrazione-pandemia-lockdown/

Condividi:

BANCHE: LA CHIAVE DI VOLTA

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Sistema bancario protagonista del rilancio economico e per questo sotto giudizio come non lo è stato mai

Banche: la chiave di volta

La crisi economica mondiale attuale e la conseguente futura depressione economica a cui andremo incontro, imporrà che le banche svolgano un ruolo fondamentale nell’alimentare lo sviluppo produttivo e nel facilitarne la ripartenza. Il sistema del credito, dopo tutte le passate vicende riprovevoli che l’hanno caratterizzato, come la storia ci ricorda con il caso del Montepaschi e non solo, avrà l’opportunità di dimostrare di essere all’altezza di contribuire in modo rilevante all’auspicato rilancio economico dopo le disastrose conseguenze della pandemia del Covid-19. Il sistema bancario per svolgere questo delicato ed essenziale compito di rilancio economico potrà fruire di strumenti finanziari a medio e lungo termine per reperire altre risorse finanziarie, affinché esso stesso possa erogare liquidità sia al mondo imprenditoriale in particolare, generando di conseguenza una crescita anche per l’occupazione e sia alle famiglie in generale. Per la realizzazione di tutto ciò, ovviamente sarà necessario che gli istituti di credito rispettino le raccomandazioni dettate dalla Banca centrale europea di non effettuare alcuna distribuzione di dividendo.

Ai fatti sembrerebbe che le suddette raccomandazioni siano state condivise da gran parte dei destinatari e si spera che quegli istituti di credito che non l’abbiano ancora fatto non esitino ad accettarle, altrimenti sarà giusto penalizzare coloro che dimostreranno indifferenza nei confronti dell’emergenza e della grave crisi epocale in cui versa l’Italia e non solo. Per permettere che il sistema bancario funga da volano dell’economia sarà fondamentale tanto impedire che l’ammontare dei crediti insoluti ostacoli l’erogazione del credito, quanto stabilire in che modo la Bce intenderà regolamentare i finanziamenti e quelli che si otterranno dai bond europei, grazie ad un necessario ed inevitabile compromesso tra i Paesi membri che sono discordanti al riguardo, visto che questa liquidità verrà riversata sul settore imprenditoriale e produttivo, in tutte le sue declinazioni, da quello commerciale e turistico a quello dei servizi.

La svolta che impone questa storica crisi economica indurrà il sistema politico europeo ad eliminare ogni ostacolo burocratico e tecnico e di altra varia natura, che in passato ha impedito al flusso finanziario emesso dalla Bce di arrivare a destinazione, impedendo di conseguenza di raggiungere lo scopo prefissato, ossia il rilancio dell’economia reale. Mai come adesso le banche dovranno dimostrare di svolgere la funzione che gli spetterebbe, che non è quella speculativa, ma creditizia, affinché possano contribuire alla ripresa economica del sistema produttivo imprenditoriale e delle famiglie.

http://www.opinione.it/economia/2022/01/27/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_banche-crisi-economica-mondiale-covid-19-italia-bce/

Condividi:

DEMOCRAZIA IN STATO COMATOSO

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Democrazia in stato comatoso

Storicamente le emergenze e le crisi hanno agevolato l’anomia e di conseguenza l’autoritarismo. Quando subentrano le emergenze mondiali, come quella che stiamo vivendo a causa del Covid-19, emergono tutte le fragilità dei sistemi democratici, emerge anche in Italia quella atavica tendenza, insita nell’istintuale natura dell’uomo, verso modelli di controllo e di stato di polizia, tipici dei regimi totalitari, come sta accadendo in Ungheria.

La democrazia alla deriva già con la crisi finanziaria del 2008

La giustificazione della situazione straordinaria di necessità ed urgenza crea le condizioni politiche per limitare se non sospendere le garanzie costituzionali, in modo tale da assopire e paralizzare qualsiasi reazione democratica da parte dell’opinione pubblica che, inerte, sembra accettare tutto come una “condicio sine qua non”. Già con la crisi finanziaria del 2008 si manifestarono i prodromi di questa deriva invasiva e totalitaria, con la creazione di strumenti declinati sia a livello nazionale e sia a livello internazionale, come ad esempio l’abolizione del segreto bancario, lo scambio di dati finanziari, ma soprattutto con la creazione di una normativa antiriciclaggio invasiva ai limiti dell’assurdo, senza per altro ottenere rilevanti risultati nella lotta all’evasione e alla corruzione, ma ottenendo solamente il pessimo risultato di danneggiare e rallentare l’economia reale, soprattutto quella delle piccole e medie imprese. In Italia sono stati sviluppati ed ampliati ulteriormente i poteri dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, eliminando quasi tutte le garanzie costituzionali a favore dei contribuenti, che grazie a questa normativa restrittiva si sono ritrovati ad essere considerati tutti dei potenziali evasori fino a prova contraria.

Leggi che hanno generato giustizialismo e ridimensionato il Parlamento

I vari governi hanno escogitato le forme più abiette per penalizzare la libertà economica dei contribuenti, arrivando ad incrementare l’utilizzo del sequestro preventivo. Grazie a questa escalation si è passati ad esercitare il più bieco giustizialismo generando leggi che di fatto hanno abolito la prescrizione e hanno ridimensionato il ruolo del Parlamento, limitandolo alla mera ratifica dell’attività del governo. La grave crisi sanitaria generata dal Covid-19 ha dato il via all’applicazione di un modello sostanzialmente autoritario, che con l’emissione di una raffica di decreti del presidente del Consiglio e di ordinanze del ministero della Sanità ha di fatto sancito la fine dei nostri diritti costituzionali ed il controllo assoluto di ogni libertà di movimento e la chiusura di ogni attività professionale, reprimendo così la libertà economica. Volente o nolente, il sistema politico, economico e sociale, a cui eravamo abituati fino a quando non è iniziata la diffusione della pandemia del Covid-19, non lo vivremo più.

Il nostro futuro modello di vita si avvicinerà per molti aspetti operativi e quindi sostanziali, sempre in nome dell’emergenza sanitaria, ad un modello simile a quello ungherese, in cui la democrazia sarà sospesa per ragioni di ordine pubblico e per garantire la salute e l’incolumità della collettività. Questa pandemia non sta uccidendo solamente un gran numero di vite umane, colpendo le nostre relazioni umane, ma sta uccidendo anche le nostre istituzioni, sta mettendo in una duratura quarantena anche la nostra stessa democrazia, addormentando in uno stato comatoso, potenzialmente irreversibile, la nostra Costituzione. I cittadini italiani sono spauriti in un limbo di incertezze psicologiche ed economiche mai vissute, forse neanche dai loro nonni durante la Seconda guerra mondiale.

Stato di necessità che esautora il Parlamento e porta all’autoritarismo

Il Parlamento è latitante nelle sue prerogative costituzionali, ossia le attività legislative, il Governo esercita le sue funzioni dopo il “tramonto”, utilizzando come mezzi di comunicazione i social media. Conte, sempre in nome della sua emergenza, esercita le sue funzioni esautorando il Parlamento e limitando i nostri diritti costituzionali a forza di decreti emessi, dopo laceranti discussioni. Un aspetto ancor più preoccupante è l’aumento di conflittualità che emerge nei rapporti tra Governo, Regioni ed Enti locali, una conflittualità mai vista in questi termini nella storia della Repubblica italiana. Lo stesso capo dello Stato si è ritrovato a dover assistere sgomento e senza poter intervenire per limitare in modo incisivo questo modus operandi dell’attività governativa. Per quanto lo stato di emergenza dovuta alla pandemia del Covid-19 imponga ogni importante decisione in tempi rapidi su quali interventi compiere per fronteggiare la grave situazione sanitaria, non si possono comunque mortificare e depotenziare le funzioni attribuite dalla Carta Costituzionale al presidente della Repubblica italiana ed al Parlamento, fondamentale organo costituzionale per il controllo dell’attività governativa e per l’esercizio di quella legislativa.

Per questi motivi è essenziale che il Governo abbia un confronto reale con il Parlamento e anche con l’opposizione e questo potrà accadere solamente quando il Parlamento tornerà a riunirsi regolarmente per esercitare le funzioni che gli attribuisce la Costituzione italiana, fonte primaria e fondamentale del nostro sistema democratico. Anche perché, se siamo in presenza di un’emergenza che ricorda le emergenze belliche e quindi di portata storica, ciò postulerebbe la formazione di un governo di unità nazionale e in mancanza, sarebbe almeno opportuna una costruttiva e solidale collaborazione tra Governo e opposizione. Il modus operandi dell’azione governativa ha compromesso e minato lo stato di diritto della nostra Nazione, comprovato dal fatto che la riduzione delle libertà personali e delle libertà economiche disposta tramite il Dpcm, ha impedito un controllo parlamentare, solo tardivamente recuperato nei successivi decreti legge e peraltro in modo sommario.

http://www.opinione.it/politica/2022/01/18/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_democrazia-autoritarismo-libert%C3%A0-stato-governo-parlamento/

Condividi:

(VIDEO) FAKE NEWS: DISINFORMAZIONE E DANNI ECONOMICI

Condividi:

Sono intervenuti: Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno (coordinatore del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi), Enea Franza (responsabile dell’Ufficio Consumer Protection della CONSOB), Giuseppe Benedetto (presidente della Fondazione Luigi Einaudi Onlus per Studi di Politica Economia e Storia), Simona Petrozzi (Web Reputation Specialist of Siro Consulting), Caterina Flick (avvocato).

Sono stati discussi i seguenti argomenti: Avvocatura, Blog, Borsa, Capitalismo, Commissione Ue, Comunicazione, Concorrenza, Consob, Diffamazione, Digitale, Diritto, Discriminazione, Economia, Elezioni, Facebook, Famiglia, Finanza, Germania, Giornali, Giornalismo, Giornalisti, Gran Bretagna, Guerra, Imprenditori, Impresa, Informatica, Informazione, Internet, Italia, Magistratura, Mass Media, Medicina, Nazismo, Politica, Privacy, Psicologia, Reddito, Salute, Sindacato, Societa’, Stampa, Statistica, Storia, Suicidio, Sviluppo, Tecnologia, Unione Europea, Vaccinazioni.

Fake news: disinformazione e danni economici

Per la visione del convegno digitare il seguente link:

https://www.radioradicale.it/scheda/536260/fake-news-disinformazione-e-danni-economici/stampa-e-regime

Condividi:

LA DEMAGOGICA ABOLIZIONE DEL FINANZIAMENTO DIRETTO AI PARTITI

Condividi:

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

La demagogica abolizione del finanziamento diretto ai partiti

Tutto iniziò nel 1974 con la “legge Piccoli” (legge 195/1974), quando fu introdotto il finanziamento pubblico ai partiti, affinché si contrastasse la collusione fra i partiti politici e le lobbies economiche, proprio per evitare certi scandali come ad esempio il caso Trabucchi. Due tipi di finanziamento furono legiferati, il primo riguardava il finanziamento ai gruppi parlamentari (articoli 3 e successivi), che determinò l’obbligo di dare il 95 per cento del finanziamento ricevuto al rispettivo partito di appartenenza, il secondo tipo invece riguardava il finanziamento dell’attività elettorale per le diverse competizioni elettorali (articoli 1-2). In seguito fu approvata la legge 659 del 1981 che aumentò l’importò dei finanziamenti e li riformò. A seguito dello scandalo di Tangentopoli e sull’onda emotiva, cavalcata artatamente da una certa classe politica, in modo alquanto demagogico, fu promosso dai Radicali il Referendum nel 1993 sull’abolizione del finanziamento ai partiti. La vittoria del “Sì” determinò l’abolizione del finanziamento ai partiti tramite i gruppi parlamentari, mantenendo però il finanziamento per l’attività elettorale.

Il finanziamento ai partiti tramite i gruppi parlamentari fu di fatto sostituito successivamente con l’aumento dell’importo previsto per i rimborsi elettorali sancito con l’approvazione della legge 515 del 1993 e della legge 157 del 1999. Fino a quando non arrivò il Governo Monti che legiferò una riforma del finanziamento ai partiti in senso radicalmente restrittivo, con la legge 96 del 2012, grazie alla quale venne ridotta in modo significativo l’entità dei rimborsi elettorali e provò a strutturarne una disciplina unitaria. Infine con il Governo Letta ci fu la definitiva abolizione del finanziamento ai partiti con il decreto legge 47 del 2013, convertito in legge dalla legge 13 del 2014 ed il pagamento dei rimborsi inerenti alle precedenti elezioni proseguì, con una progressiva riduzione, fino al tutto 2016. Oggi sono previste e legittime solo forme di finanziamento indiretto ai partiti, purché essi abbiano una rappresentanza in Parlamento. L’articolo 15, comma 4, dei regolamenti della Camera e l’articolo 16 commi 1-2, del regolamento del Senato prevedono dei contributi per i gruppi parlamentari, affinché essi possano finanziare le loro attività istituzionali.

Tramite i soldi pubblici vengono finanziati i fondi presenti nel bilancio della Camera e del Senato, da cui si attinge per erogare i fondi per finanziare le sopra citate attività istituzionali dei gruppi parlamentari. Secondo quanto riportano i rispettivi progetti di bilancio della Camera e del Senato, risulta che nel 2019 la Camera darà ai gruppi parlamentari circa 31 milioni di euro, mentre il Senato prevede di dare circa 22 milioni di euro. Per contribuire al finanziamento dei partiti è stato previsto anche il finanziamento privato, infatti, in base al decreto legge 149 del 2013 del Governo Letta è stata introdotta la possibilità da parte del privato di distrarre il 2 per mille o la piccola quota dell’Irpef dovuta allo Stato (analogamente all’8 per mille per le confessioni religiose) a favore dei partiti in sede di dichiarazione dei redditi. Inoltre, sono state introdotte le “erogazioni liberali”, ossia quelle donazioni private in parte detraibili fino a 30mila euro, purché esse non siano maggiori di 100mila euro.

In questa oggettiva situazione, da cui si evince una drastica diminuzione delle risorse pubbliche destinate al finanziamento dei partiti, minando in tal modo la tenuta del sistema democratico e parlamentare che si regge costituzionalmente sulla rappresentanza dei partiti, si è sviluppato in modo significativo il fenomeno delle fondazioni in stretta connessioni con singoli politici o partiti, come canale alternativo funzionale al finanziamento delle attività politiche, a causa delle quali è sorta l’esigenza di garantire un maggior obbligo di trasparenza nella raccolta dei loro fondi, in quanto decisamente inferiore rispetto a l’obbligo di trasparenza stabilito per i partiti. In funzione di garantire quest’obbligo di trasparenza è stata recentemente approvata la legge soprannominata “spazza-corrotti”, con l’equiparazione dei partiti alle fondazioni, riuscendo solo in parte nel suo scopo di garantire un’adeguata trasparenza. Da un’attenta analisi e comparazione delle discipline sui finanziamenti ai partiti degli altri stati europei si evincono delle significative differenze con ciò che è previsto a riguardo in Italia. Come spiega un approfondimento della Camera del 2013, in Germania la questione del finanziamento pubblico ai partiti è stata a lungo una Vexata quaestio, con la Corte costituzionale che a più riprese ha bocciato le leggi che il Parlamento faceva in proposito, fino ad arrivare al sistema attuale che si fonda sui rimborsi elettorali e non sul finanziamento diretto. La legge del 1994 che disciplina la materia (articolo 18, comma 3), modificata poi a fine 2004 in seguito a una sentenza della Corte costituzionale tedescaprevede che alle formazioni politiche che superano determinate soglie di voti venga annualmente corrisposto un contributo proporzionale ai voti ricevuti e un contributo calcolato sulla quota dei contributi versati da privati, entrambi a carico del bilancio dello Stato. L’esborso massimo per lo Stato è fissato, per il 2019, in 190 milioni di euro. Sono poi previsti un contributo pubblico ai gruppi parlamentari e la possibilità di finanziamenti privati, deducibili entro determinate soglie. Mentre in Francia, riporta ancora il dossier della Camera, il finanziamento pubblico dei partiti è a carico del bilancio dello Stato e l’entità massima dell’erogazione è stabilita annualmente dalla legge finanziaria. L’ammontare degli stanziamenti di pagamento individuato dalla legge finanziaria è ripartito (articolo 8 della legge 88-227 del 1988) in due frazioni eguali: la prima è destinata ai partiti politici in base ai voti ottenuti in occasione delle ultime elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale, la seconda è destinata ai partiti politici in funzione della loro rappresentanza parlamentare.

Sono poi previsti dei rimborsi, forfettari ma con dei limiti, per le spese elettorali e i privati possono fare donazioni, di nuovo entro certi limiti e con modalità specifiche.

Invece per ciò che concerne il Regno Unito, “nel sistema politico britannico il finanziamento pubblico ai partiti politici riveste tradizionalmente un ruolo marginale”, si legge ancora nel dossier della Camera. “Tali caratteristiche del finanziamento pubblico – prosegue il dossier – derivano dalla natura giuridica dei partiti politici, privi di personalità giuridica e considerati al pari di organizzazioni volontarie”. Di fatto sono previsti – a parte gli incentivi finanziari destinati a tutti i partiti (Policy development grants) – conferimenti in denaro solo per i partiti di opposizione, con l’idea di compensare i vantaggi che vengono al partito di maggioranza dall’essere al Governo; vantaggi economici, ma non solo. Come risulta dal relativo dossier della House of Commons, questi conferimenti (detti Short money) sono stati introdotti nel 1975, vengono dati ai partiti che hanno eletto almeno due deputati (o un deputato ma più di 150mila voti) e assumono tre diverse forme: contributo generale per lo svolgimento dell’attività parlamentare; contributo per le spese di viaggio sostenute dai membri dei gruppi parlamentari di opposizione; dotazione riservata all’ufficio del capo dell’opposizione.

Nel 2018/2019, ad esempio, il Partito laburista ha ricevuto meno di 8 milioni di sterline e tutti gli altri partiti meno di un milione di sterline. Sono poi possibili donazioni private, in un quadro di regole stringenti che garantiscono la trasparenza e la pubblicità delle operazioni. Alla luce di quanto esposto e analizzato si può affermare che l’abolizione scriteriata del finanziamento diretto ai partiti non ha generato più trasparenza e né ha implicato che ci fossero minori collusioni con torbidi interessi e commistioni con dinamiche illecite, che rispondessero ad interessi lobbistici, ma ha determinato solamente un deficit di democrazia e di rappresentanza democratica destabilizzando alla radice la funzione costituzionale dei partiti, trasformando la politica italiana in faziosi personalismi che hanno contribuito all’attuale paralisi politica, di cui subiamo le perniciose conseguenze.

http://www.opinione.it/politica/2022/01/11/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_referendum-abolizione-finanziamento-partiti-radicali-tangentopoli/

Condividi: