Nella nuova puntata intitolata “Lo stato dell’arte del gratuito patrocinio” della trasmissione Societas (canale 81 del dgt), è intervenuto il Consigliere dell’Ordine Avvocati di Roma, l’Avv. Vincenzo Comi, con il quale si sono affrontati i gravosi problemi riguardanti il gratuito patrocinio e gli uffici giudiziari.
Sempre più avvocati si stanno rimuovendo dagli elenchi di difensori per i non abbienti o d’ufficio, aggravando il rischio che persone in difficoltà economica restino senza tutela legale. Le Camere Penali avvertono che il vero problema non è il costo dell’istituto, ma la sua progressiva erosione, con compensi irrisori e tempi lunghissimi per ottenere le parcelle .
Interventi immediati:
sbloccare immediatamente i pagamenti arretrati; Separare in bilancio i fondi destinati al patrocinio da altre voci; Prevedere risorse adeguate nelle leggi finanziarie future
In sintesi:
sussiste un grave stallo finanziario nell’erogazione del gratuito patrocinio: avvocati non pagati da mesi, fondi mischiati, crisi professionale e perdita del diritto di difesa per i cittadini. Si chiede una riforma urgente e risorse adeguate, per evitare la paralisi di un diritto costituzionale sancito dall’art. 24.
Per vedere l’intera puntata digitare il seguente link:
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STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma
Differenze tra appalti, concessioni e partenariati: cosa cambia davvero con il correttivo al Codice degli appalti
Il nuovo sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti, ridefinito in modo significativo dal decreto legislativo 209/2024, continua a far discutere tra operatori pubblici e privati.
Il Decreto Legislativo 209/2024, noto anche come “correttivo” al Codice dei Contratti Pubblici, introduce modifiche significative al D.Lgs. 36/2023, mirate a migliorare l’efficienza, la trasparenza e la digitalizzazione nel settore degli appalti pubblici. Tra le principali novità, si segnalano cambiamenti in materia di qualificazione delle stazioni appaltanti, semplificazione amministrativa, digitalizzazione delle procedure, tutela delle PMI e sostenibilità ambientale.
Ecco alcuni dettagli sulle principali modifiche introdotte dal D.Lgs. 209/2024:
Qualificazione delle Stazioni Appaltanti:
Il decreto apporta modifiche all’Allegato II.4 del Codice, riguardanti i requisiti per l’attribuzione dei punteggi per la qualificazione delle stazioni appaltanti e centrali di committenza.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha fornito chiarimenti e anticipazioni sulle soluzioni adottate per alcuni aspetti suscettibili di diverse interpretazioni.
Digitalizzazione e Semplificazione:
Il decreto spinge verso una maggiore digitalizzazione delle procedure di gara, con l’obbligo di utilizzare piattaforme elettroniche.
Si mira a ridurre gli oneri burocratici e ad accelerare i processi amministrativi, migliorando la competitività tra le imprese.
Tutela del Lavoro e Sostenibilità:
Il decreto rafforza la tutela dei lavoratori, introducendo nuove linee guida per l’individuazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicabile agli appalti pubblici.
Viene data maggiore importanza alla sostenibilità ambientale e sociale, con criteri che premiano le imprese che adottano pratiche eco-sostenibili.
Subappalto:
Il decreto apporta modifiche all’articolo 41, che regola il subappalto, con l’obiettivo di renderlo più trasparente e coerente con i principi europei.
In sintesi, il D.Lgs. 209/2024 mira a modernizzare il sistema degli appalti pubblici, rendendolo più efficiente, trasparente, digitale e attento alla sostenibilità.
A fornire un chiarimento importante è l’Ufficio legale di supporto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT), con il parere n. 3462/2025, che si sofferma sulle novità introdotte dal correttivo, in particolare per quanto riguarda concessioni e partenariati pubblico-privati (PPP).
Un sistema più rigido per concessioni e PPP
La questione centrale riguarda la possibilità di qualificazione limitata alla fase esecutiva, come previsto per i contratti di appalto. Il dubbio nasce con riferimento alle modifiche apportate all’Allegato II.4 del Codice dei contratti pubblici (articolo 62), e in particolare ai nuovi commi 5 dell’articolo 3 e 5 dell’articolo 5, inseriti proprio dal d.lgs. 209/2024.
In sintesi, per gli appalti pubblici è possibile ottenere la qualificazione per singole fasi (progettazione, affidamento o esecuzione). Diversamente, per concessioni e PPP, la normativa impone una qualificazione unitaria che copre tutte le fasi del ciclo di vita del contratto, dalla progettazione all’esecuzione.
Cosa dice il parere del MIT
Secondo il MIT, le nuove soglie introdotte – che stabiliscono che per le concessioni di servizi inferiori a 140.000 euro e per i lavori sotto i 500.000 euro non è richiesta qualificazione rafforzata – non modificano la natura complessiva della qualificazione per concessioni e PPP sopra tali soglie.
Per le concessioni e i partenariati superiori a 140.000 euro, le stazioni appaltanti devono:
Avere almeno una qualificazione SF2; Disporre di un soggetto con almeno tre anni di esperienza nella gestione di piani economico-finanziari e nella valutazione dei rischi.
Analogamente, per le concessioni e i PPP relativi a lavori di importo pari o superiore a 500.000 euro, è richiesta:
Una qualificazione di livello L2; La presenza di un professionista esperto nei profili economico-finanziari, sempre con almeno tre anni di esperienza documentata.
Impatti operativi per le stazioni appaltanti
Il parere del MIT mette in luce una criticità pratica: molti enti qualificati nella progettazione e nell’affidamento non sono disponibili a seguire direttamente la fase di esecuzione, spesso per motivi organizzativi o logistici. Questo genera un problema gestionale: il soggetto delegante dovrebbe trovare un altro ente qualificato per seguire l’esecuzione oppure inserire nel quadro economico della procedura una voce di spesa per un direttore dell’esecuzione esterno, che comunque operi sotto il coordinamento dell’ente qualificato.
Questa seconda soluzione, tuttavia, necessita – come precisato nel parere – di un intervento ufficiale di chiarimento, che possa confermare la sua ammissibilità in termini regolamentari.
Pertanto. il nuovo quadro delineato dal d.lgs. 209/2024 rafforza la differenza tra appalti (più flessibili) e concessioni/PPP (più stringenti), con l’obiettivo di aumentare la professionalità e la competenza nella gestione integrale dei contratti complessi. Tuttavia, resta da valutare se le amministrazioni pubbliche – specie quelle di minori dimensioni – riusciranno a rispondere a questi requisiti senza un supporto operativo adeguato.
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Nel panorama della giurisprudenza italiana, il tema dei benefici economici per le vittime del dovere è tornato al centro dell’attenzione grazie all’ordinanza n. 1666/2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che ha rigettato il ricorso presentato dal Ministero della Difesa contro la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila.
La vicenda trae origine dal caso di Luca Acquafredda, figlio di Raffaele Acquafredda, già riconosciuto come vittima del dovere. In particolare, la Corte d’Appello aveva accolto il ricorso del figlio (difeso dallo Studio legale dell’Avv. Ezio Bonanni e rappresentato nella succitata udienza dall’Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno), riconoscendogli il diritto ai benefici economici previsti dal d.P.R. n. 243/2006, in quanto familiare a carico della vittima. Il Ministero della Difesa aveva contestato tale decisione, sollevando questioni di prescrizione e di errata applicazione delle norme relative alla rivalutazione e agli interessi legali.
Il rigetto del ricorso e i chiarimenti della Suprema Corte
La Cassazione, con ordinanza del 27 marzo 2025, ha dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso per carenza di autosufficienza, sottolineando come il Ministero non avesse adeguatamente trascritto le parti rilevanti dell’appello in cassazione, rendendo impossibile valutare la censura di omessa pronuncia. Questo punto rafforza un principio giurisprudenziale consolidato: anche dopo l’apertura interpretativa delle Sezioni Unite (sent. n. 8950/2022), resta necessario indicare con precisione i contenuti del gravame.
Più interessante, dal punto di vista sostanziale, è il secondo motivo, che ruotava attorno alla natura della rivalutazione annuale degli assegni vitalizi e alla possibilità di cumulo con gli interessi legali. Il Ministero sosteneva che l’art. 8 della legge n. 302/1990 fosse norma speciale, da applicarsi in via esclusiva, impedendo così l’applicazione dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724/1994 sugli interessi.
La Corte ha respinto questa tesi, chiarendo che le due disposizioni hanno presupposti e finalità differenti: la prima regola la rivalutazione in caso di adempimento tempestivo, la seconda interviene in caso di ritardo o inadempimento dell’Amministrazione. Non si configura quindi un concorso tra norme ma due discipline distinte e compatibili.
Un precedente importante per i familiari delle vittime del dovere
Questa ordinanza si colloca nel solco di un orientamento favorevole ai familiari delle vittime del dovere, ribadendo il diritto a ricevere provvidenze economiche anche con gli interessi legali in caso di ritardo da parte della pubblica amministrazione. La decisione ha anche il merito di chiarire i limiti del principio di specialità tra norme e l’importanza di una corretta redazione del ricorso per cassazione, specialmente nei casi in cui si invoca l’omessa pronuncia del giudice d’appello.
Conclusioni: benefici economici per le vittime del dovere e garanzie per i familiari
L’ordinanza della Cassazione n. 1666/2025 costituisce un precedente rilevante per tutti coloro che hanno diritto ai benefici economici per le vittime del dovere, in particolare per i figli e familiari a carico. Il rigore nella valutazione dei ricorsi e l’attenzione ai diritti assistenziali rafforzano la protezione giuridica di queste categorie e pongono limiti precisi alla discrezionalità dell’amministrazione.
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Suprema Corte di Cassazione. Sez Lavoro, ordinanza n. 1666/2025 integrale, in formato pdf:
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La cartella clinica come atto pubblico: completezza, veridicità e responsabilità giuridica
La cartella clinica non è un mero documento amministrativo: si configura giuridicamente come atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale, e perciò dotato di fede privilegiata in ordine ai fatti attestati come avvenuti in sua presenza. Questo principio, ribadito più volte dalla Corte di Cassazione, implica che le annotazioni del medico nella cartella clinica debbano essere complete, veritiere e cronologicamente ordinate, senza possibilità di rinvio implicito ad altri documenti o registri (es. cartella anestesiologica).
La recente sentenza n. 17647 del 2025 ha riaffermato tale orientamento, annullando con rinvio una pronuncia della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva assolto un ginecologo accusato di falso ideologico per avere alterato la ricostruzione di un intervento cesareo dagli esiti tragici.
Il caso giudiziario: falso ideologico e omissione di informazioni nella cartella clinica
Il procedimento penale aveva preso le mosse dalla contestazione, da parte del Pubblico Ministero, di incongruenze tra quanto riportato nella cartella clinica e le dichiarazioni rese dai membri dell’equipe medica. In particolare, secondo l’accusa, il ginecologo avrebbe:
attribuito all’anestesista l’esecuzione del primo soccorso (massaggio cardiaco), mentre in realtà sarebbe stato lo specializzando ad intervenire; indicato erroneamente la presenza dell’anestesista al capezzale della paziente, circostanza smentita da altri testimoni.
Tali difformità, secondo la Procura, miravano a scaricare la responsabilità dell’accaduto su altri membri dell’equipe, eludendo il ruolo apicale del ginecologo quale capo dell’intervento.
La difesa, invece, aveva sostenuto che la cartella chirurgica non dovesse riportare circostanze di tipo anestesiologico, rimettendo la rappresentazione di tali dati alla cartella anestesiologica.
L’intervento della Cassazione: obbligo di rappresentazione e dolo generico
La Corte di Cassazione ha ritenuto tale argomentazione giuridicamente infondata e ha annullato la sentenza di assoluzione, chiarendo che:
la cartella clinica redatta dal medico ha valore probatorio privilegiato, in quanto atto pubblico ai sensi dell’art. 479 c.p.; ai fini della configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico, è sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza di alterare il vero (Cass. pen., Sez. I, 11 settembre 2020, n. 27230); il medico ha il dovere giuridico di verificare e controllare l’esattezza delle informazioni inserite nella cartella clinica (Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20101), la cui incompletezza può essere utilizzata dal giudice per inferire il nesso causale tra condotta e danno subito dal paziente (Cass. civ., Sez. I, 21 novembre 2017, n. 27561).
Il dictum della Cassazione ha evidenziato come sia erroneo limitare il contenuto della cartella clinica alle sole informazioni chirurgiche, escludendo gli eventi occorsi in ambito anestesiologico. Il medico redattore ha infatti l’onere di rappresentare tutti gli aspetti rilevanti dell’intervento e del decorso immediato, a prescindere dalla specializzazione coinvolta.
Conclusioni: implicazioni per il medico pubblico
Questa sentenza ribadisce l’importanza per ogni medico che opera in una struttura sanitaria pubblica di mantenere standard elevati nella compilazione della documentazione clinica, consapevole che ogni omissione, alterazione o imprecisione può rilevare sia sotto il profilo penale che civilistico.
Non è sufficiente delegare la documentazione ad altri membri dell’equipe, né è ammissibile l’argomentazione secondo cui determinati aspetti clinici debbano essere riportati solo in atti specialistici differenti (es. cartella anestesiologica). L’unitarietà del fascicolo clinico impone al responsabile dell’intervento un obbligo personale di controllo, verifica e veridica attestazione dei fatti, pena l’integrazione di gravi responsabilità giuridiche.
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Corte di Cassazione, sentenza n. 17647 del 2025 integrale, in formato Pdf:
La riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022) ha introdotto importanti novità in tema di pene sostitutive delle pene detentive brevi. Tuttavia, l’applicazione concreta di questa disciplina ha sollevato numerose questioni interpretative, affrontate recentemente dalla Corte di Cassazione in diverse sentenze pubblicate nel mese di maggio 2025.
Sospensione dell’ordine di esecuzione: non applicabile alle pene sostitutive
Secondo la Cassazione, sentenza n. 18938 del 21 maggio 2025, alle pene sostitutive disciplinate dall’articolo 20-bis del Codice penale non si applica il meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’articolo 656, comma 5, c.p.p. per le misure alternative alla detenzione. Ne consegue che il pubblico ministero non ha il potere di sospendere l’esecuzione su istanza dell’imputato, come invece accade per l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare ordinaria.
Durata della pena sostitutiva: è competente il magistrato di sorveglianza
Con la sentenza n. 18940 del 21 maggio 2025, la Suprema Corte ha riaffermato il principio – già espresso nella sentenza n. 9282 del 4 marzo 2024 – secondo cui la competenza a determinare la durata della detenzione domiciliare sostitutiva spetta al magistrato di sorveglianza. Tale posizione si fonda sul combinato disposto degli articoli 661 c.p.p. e 62 della legge n. 689/1981, come modificati dalla riforma.
La Cassazione riconosce al giudice di sorveglianza una competenza funzionale esclusiva sull’esecuzione delle pene sostitutive, ivi compresa la determinazione del periodo esatto (inizio e fine) della misura. Tuttavia, questa interpretazione è stata oggetto di critiche, poiché:
deroga alla regola generale che assegna al pubblico ministero il compito di determinare durata e scadenza della pena; le cancellerie degli uffici di sorveglianza non sono attrezzate, né tecnicamente né documentalmente, per operare i calcoli relativi alla detrazione della pena per custodia cautelare o pene pregresse.
Disciplina transitoria e successione di leggi penali
Sul piano intertemporale, la Cassazione (sentenza n. 19307 del 23 maggio 2025) ha chiarito che il divieto di applicazione della pena sostitutiva in caso di sospensione condizionale della pena (introdotto dall’art. 61-bis della legge 689/1981, modificata dalla riforma Cartabia), non si applica ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della riforma.
Trattandosi di norma penale sostanziale, trova applicazione il principio del favor rei sancito dall’art. 2, comma 4, c.p., che impone l’applicazione della legge più favorevole all’imputato. Pertanto, per i fatti anteriori al D.Lgs. 150/2022, la sospensione condizionale della pena non preclude la richiesta di pena sostitutiva.
Termini per la richiesta di pena sostitutiva: istanza da proporre in appello
Infine, con la sentenza n. 19324 del 23 maggio 2025, la Corte ha stabilito che la richiesta di applicazione della pena sostitutiva deve essere proposta in sede di appello, al più tardi mediante motivi aggiunti o memorie difensive. In caso di udienza partecipata, il consenso dell’imputato a una diversa pena sostitutiva proposta dalla Corte d’appello può essere prestato fino alla discussione. È quindi inammissibile la domanda formulata per la prima volta all’udienza stessa.
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Cassazione, sentenza 18938 del 21 maggio 2025integrale, in formato Pdf:
Presso la Sala Caduti di Nassirya si è svolta la conferenza intitolata “L’urgenza della riforma della Giustizia”
Roma – Presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica si è tenuta la conferenza dal titolo “L’urgenza della riforma della Giustizia”, un incontro volto a stimolare il dibattito pubblico e istituzionale sulla necessità di un intervento organico e tempestivo in materia di giustizia.
Su iniziativa del Sen. Marco Silvestroni, l’Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno ha moderato l’incontro, organizzato insieme all’associazione Tradizione e Innovazione Forense, presieduta dall’Avv. Gaetano Parrello.
Durante la conferenza sono intervenuti i , rappresentanti del mondo dell’Avvocatura, i quali hanno sottolineato, da diverse prospettive, le criticità strutturali del sistema giudiziario italiano, i ritardi nei procedimenti civili e penali, e le ricadute che questi hanno sull’effettività del diritto e sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nel corso della conferenza si è discusso anche dell’impatto delle riforme recenti (come la riforma Cartabia) e del Dl Sicurezza delle problematiche ancora aperte e delle proposte legislative attualmente in discussione. Particolare attenzione è stata rivolta al tema dell’efficienza processuale, della separazione delle carriere, della piattaforma unica del deposito telematico degli atti del processo. e del fatiscente sistema giudiziario..
La conferenza ha rappresentato un importante momento di confronto tra esperienze diverse, con l’obiettivo di contribuire alla costruzione di un sistema giudiziario più giusto, celere e trasparente, in grado di rispondere concretamente alle esigenze di cittadini.
A Roma, il Tribunale di Sorveglianza sta vivendo una crisi senza precedenti. A denunciarlo è il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, che rilancia con forza l’allarme già espresso dalla Presidente dell’ufficio, Marina Finiti. Il problema? Una gravissima carenza di personale, che rischia di bloccare del tutto l’attività giudiziaria legata alle misure alternative alla detenzione.
Secondo i dati ufficiali, all’interno del Tribunale mancano ben 22 unità amministrative sulle 77 previste dalla pianta organica. Una situazione che ha del paradossale: sono rimasti in servizio soltanto 2 cancellieri su 14 e 3 direttori amministrativi su 6. Numeri che raccontano da soli l’enorme difficoltà in cui si trovano a operare magistrati, avvocati e personale giudiziario.
Il Presidente del COA di Roma: “Situazione drammatica e ingiusta”
A farsi portavoce della preoccupazione del mondo forense è il Presidente del COA di Roma, Paolo Nesta, che ha deciso di scrivere direttamente al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per chiedere un intervento urgente.
“La situazione è drammatica – ha dichiarato Nesta –. Parliamo di un ufficio giudiziario che ha un ruolo fondamentale: è infatti competente su tutte le decisioni che riguardano la libertà personale dei detenuti. Purtroppo ci arrivano, soprattutto tramite i consiglieri Lepri e Comi, sempre più segnalazioni di casi in cui le persone restano in carcere anche quando avrebbero diritto a misure alternative, semplicemente perché manca il personale che possa lavorare i loro fascicoli”.
Diritti dei detenuti a rischio e carceri sempre più piene
La carenza di personale al Tribunale di Sorveglianza non è solo un problema organizzativo: si traduce in una grave violazione dei diritti delle persone detenute, in particolare di chi potrebbe accedere a forme di pena diverse dal carcere. E tutto ciò accade mentre continua a crescere l’allarme per il sovraffollamento carcerario, un fenomeno che mina la dignità e l’efficacia del sistema penitenziario italiano.
“È una condizione gravissima – ha aggiunto Nesta – che non può essere accettata in un Paese che vuole definirsi uno Stato di diritto. Per questo ho scritto al Ministro, chiedendo, insieme alla Presidente Finiti, che vengano prese tutte le misure necessarie per risolvere al più presto questa situazione intollerabile”.
Un’urgenza che riguarda tutti
La vicenda del Tribunale di Sorveglianza di Roma è solo uno dei tanti segnali di un sistema giustizia che, in Italia, fatica a garantire tempi e condizioni adeguate. Ma qui il problema è ancora più delicato: riguarda la libertà personale, i diritti dei detenuti e la credibilità delle istituzioni.
È urgente intervenire. E, soprattutto, non voltarsi dall’altra parte.
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Sovraffollamento carceri: oltre 11mila detenuti in più. Appello congiunto di magistrati, accademici e avvocati penalisti
Preoccupazione crescente per la condizione delle carceri italiane. Gatta, Parodi e Petrelli:“Diritti violati, agire subito. La politica ascolti chi lavora sul campo”.
Il sovraffollamento delle carceri italiane ha raggiunto livelli intollerabili e strutturalmente insostenibili. A lanciare l’allarme, con un appello pubblico diffuso nei giorni scorsi, sono tre voci autorevoli del mondo giuridico: Gian Luigi Gatta, presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), e Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI).
Secondo i dati aggiornati al 30 aprile 2025, i detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare di 51.292 posti. Ciò significa che oltre 11.000 persone vivono in condizioni che violano i più basilari standard internazionali di tutela dei diritti umani.
Carcere sovraffollato: un fenomeno aggravato da politiche emergenziali e repressione penale
Nel loro appello, i tre firmatari evidenziano come, dopo le misure emergenziali adottate durante la pandemia, il numero dei detenuti sia aumentato sensibilmente. Nel 2020, infatti, erano 53.363: circa 9.000 in meno rispetto a oggi. A contribuire alla crescita sono stati provvedimenti legislativi recenti, come il Decreto Sicurezza e il Decreto Caivano, che hanno introdotto nuovi reati, ampliato le ipotesi di custodia cautelare (anche per fatti di lieve entità) e posto limiti all’accesso a misure alternative, anche per i minorenni.
In particolare, si sottolinea come il numero dei minori detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (IPM) sia aumentato del 56%: erano 385 nel maggio 2023, sono diventati 600 nel 2025, mettendo in crisi l’intera giustizia minorile.
Un carcere che non rieduca: aumentano suicidi e disagio psichico
Le conseguenze del sovraffollamento non sono solo quantitative, ma toccano il cuore della funzione costituzionale della pena. Le condizioni inumane compromettono i percorsi di rieducazione, aumentano il disagio, rendono inefficace l’assistenza sanitaria e psicologica e complicano il lavoro degli educatori. A testimoniarlo è anche il numero record di suicidi in carcere registrato nel 2024: 91 in un anno. Nei primi mesi del 2025, i suicidi sono già 34, con l’estate – tradizionalmente il periodo più critico – ormai alle porte.
L’Italia sotto osservazione internazionale: “carceri inadeguate”
I promotori dell’appello ricordano che l’Italia è già stata richiamata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e da organismi sovranazionali. L’episodio più recente e clamoroso è il rifiuto, da parte dell’Olanda, di estradare un sospettato di omicidio verso l’Italia proprio a causa delle condizioni dei nostri istituti penitenziari: sovraffollamento, assenza di tutele sanitarie e rischio suicidi.
Le proposte: meno custodia cautelare, più misure alternative e personale specializzato
“La soluzione al sovraffollamento non può consistere solo nella costruzione di nuove carceri”, spiegano Gatta, Parodi e Petrelli. Solo nel 2024, i detenuti sono aumentati di oltre 1.200 unità: per non aggravare la situazione, servirebbero quattro nuovi penitenziari l’anno, con costi ingenti e risultati incerti. Le risorse – sostengono i firmatari – andrebbero invece investite in ammodernamento delle strutture esistenti; assunzione di educatori, medici, psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali; incremento del personale giudiziario, in particolare dei magistrati di sorveglianza (oggi poco più di 200); finanziamento dell’assistenza legale per i non abbienti; potenziamento delle misure alternative alla detenzione, anche per i circa 8.000 detenuti con pena residua inferiore a un anno.
Un appello alla politica: “la volontà può essere trasversale”
Il messaggio finale dei giuristi è chiaro: le soluzioni tecniche esistono, ma serve una volontà politica concreta. “La storia del nostro Paese dimostra che di fronte a emergenze come questa, la politica può agire in modo trasversale, ascoltando chi lavora quotidianamente nel sistema penale: magistrati, avvocati, studiosi”.
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Sequestro preventivo e responsabilità degli enti: la Cassazione ribadisce l’obbligo di motivazione sul periculum in mora
Nel contesto della responsabilità degli enti ai sensi del Dlgs 231/2001, il sequestro preventivo disposto in vista della confisca del profitto del reato deve essere sempre sorretto da un’adeguata motivazione, soprattutto con riferimento al periculum in mora. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la recente sentenza n. 20078/2025, che assume rilievo centrale in tema di misure cautelari patrimoniali nei confronti delle persone giuridiche.
Confisca obbligatoria e misura anticipatoria: non basta l’incapienza patrimoniale
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un ente imputato per aver ottenuto un vantaggio illecito mediante l’importazione di merci in evasione dei dazi doganali e dell’IVA, condotta dalla quale era derivata una responsabilità amministrativa ex articolo 53 del Dlgs 231/2001, norma che prevede l’obbligatorietà della confisca, anche per equivalente, del prezzo o profitto del reato.
A fronte di tale ipotesi, il giudice di merito aveva disposto un sequestro preventivo impeditivo di larga parte del patrimonio dell’ente, giustificandolo unicamente con la sussistenza di uno stato di incapienza patrimoniale della società. Tuttavia, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla difesa dell’ente, evidenziando come una simile motivazione sia del tutto insufficiente e inidonea a sorreggere la misura cautelare.
Il principio affermato: nessun automatismo nella misura cautelare
Secondo la Corte, il solostato di momentanea insufficienza patrimoniale non può essere assunto quale presupposto automatico per giustificare l’adozione di un sequestro preventivo, anche quando esso sia anticipatorio di una confisca obbligatoria. In particolare, è stato ribadito che l’incapienza patrimoniale non costituisce di per sé un indice di concreto pericolo di dispersione dei beni.
Il provvedimento cautelare è stato quindi annullato con rinvio, affinché il giudice completi la motivazione, fornendo una puntuale esposizione del periculum in mora, ovvero del rischio effettivo e attuale che i beni possano essere dispersi, frustrando così la futura esecuzione della confisca.
Il rispetto del principio di proporzionalità
Un passaggio centrale della decisione si fonda sulla necessità di bilanciare la misura ablativa con i diritti costituzionalmente garantiti dell’ente, come il diritto di proprietà e la libertà di iniziativa economica. Laddove il sequestro colpisca una parte ingente del patrimonio aziendale, fino al punto da determinare una paralisi dell’attività economica, il giudice ha l’obbligo di motivare in modo rafforzato, dimostrando la proporzionalità e la stretta necessità della misura.
In assenza di tale motivazione, la misura cautelare può risultare illegittima, poiché compromette diritti fondamentali senza un’adeguata giustificazione.
Sequestro preventivo vs sequestro conservativo: differenze nei presupposti
La Corte ha inoltre chiarito che l’incapienza patrimoniale può costituire valido presupposto solo nel contesto del sequestro conservativo, che ha la funzione di garantire l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Diversamente, nel sequestro preventivo finalizzato alla confisca, è sempre richiesto un accertamento concreto sul pericolo attuale di dispersione del patrimonio, anche se la confisca sia, per legge, obbligatoria.
Conclusioni
La sentenza n. 20078/2025 rafforza l’orientamento secondo cui nessuna deroga all’obbligo di motivazione in tema di periculum in mora è ammissibile nel sequestro preventivo imposto agli enti ex Dlgs 231/2001, nemmeno quando la confisca sia imposta dalla legge. La misura cautelare deve sempre rispettare il principio di proporzionalità, assicurando un giusto equilibrio tra l’interesse dello Stato alla repressione dei reati e la tutela dei diritti dell’impresa coinvolta.
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Corte di cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 20078/2025 integrale, in formato Pdf: