CORSO di AGGIORNAMENTO GESTORE della CRISI d’IMPRESA

Condividi:

Corso di Aggiornamento online di 20 ore per
Gestori della Crisi d’Impresa


Responsabile Scientifico
Avv. Prof. Antonio Caiafa
(Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma
Diritto delle Procedure Concorsuali Università LUM “Giuseppe Degennaro” Bari
Responsabile delle Commissioni Crisi d’Impresa e Societario)


Registrazione online al corso di aggiornamento:
https://adrcenter.zoom.us/meeting/register/tZ0qfuytpjkrHNNn15k82fYyGmrtSKk0hJuX#/registration

*****************************

PROGRAMMA COMPLETO (Pdf):

Condividi:

COMPOSIZIONE NEGOZIATA: AGGIORNAMENTO GIURISPRUDENZIALE

Condividi:

Tribunale Perugia, Sentenza n. 2024/5317 del 15/07/2024

Il testo sottolinea che l’accesso allo strumento della composizione negoziata della crisi d’impresa non è limitato esclusivamente alle imprese che possono continuare la loro attività, ma è aperto anche a quelle che si trovano in stato di liquidazione volontaria o che, pur non essendo formalmente in liquidazione, hanno elaborato un piano per la liquidazione dei propri beni con l’obiettivo di risolvere la crisi.

La frase chiave “ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa”, citata nell’art. 2 del D.L. n. 118/2021 e nell’art. 12 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), deve essere interpretata in modo flessibile, tenendo conto delle specifiche circostanze e della gravità della crisi dell’impresa. Questo risanamento può avvenire sia attraverso la continuazione dell’attività aziendale, in tutto o in parte, sia tramite la liquidazione del patrimonio dell’impresa per soddisfare i creditori.

In sintesi, la normativa consente l’accesso alla composizione negoziata della crisi anche alle imprese che optano per la liquidazione, purché vi sia una strategia credibile per risolvere la crisi e soddisfare i creditori.

SENTENZA

N. R.G. 2024/5317
TRIBUNALE ORDINARIO DI PERUGIA
Terza sezione volontaria giurisdizione CIVILE IL GIUDICE
Visto il ricorso ex art. 19 CCII depositato in data 14.6.2024 da in liquidazione, con il quale, sulla base della presentazione presso la Camera di Commercio di Perugia
accettazione del chiedeva la conferma delle misure protettive richieste con successiva istanza pubblicata -unitamente – in data 13.6.2024; nell istanza, si avanzava richiesta di applicazione, in via principale, per la durata massima di centoventi giorni, nei confronti di tutti i creditori della società, con conseguente divieto per i medesimi di acquisire diritti di prelazione, se non concordati, e iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio di in liquid ed in via subordinata nei confronti dei soli creditori che avevano avviato (o erano ritenute in procinto di
avviare) azioni esecutive ( ; , ,,
;
, ; );
Preso atto della costituzione del
coop. sociale, del geom. , della società

  • di ;
    osserva.
    Ritiene questo giudice che possano trovare conferma -con le specificazioni di cui appresso- le misure protettive richies
    applicazione delle misure protettive è già di per sé efficace,
    pubblicazione, i creditori interessati non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati
    né possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio
    -esclusi i diritti di credito dei lavoratori, eccettuati dalla misure protettive dal terzo comma art. 18 cit.-) , in pratica corrispondenti
    alla astratta previsione normativa.
    Pagina 1
    ;
    ,
    ,
    ,, nonché –
    1. iva sulla composizione negoziata della crisi, introdotta con d.l. 118/2021, la giurisprudenza di merito era orientata nel senso del rigetto della richiesta di conferma delle misure protettive richiesta da società in stato di liquidazione,
      incompatibil
      presupporrebbe una prosecuzione in continuità (evidentemente in condizione di equilibrio
      economico-
      ,
      .
      irebbe
      (così, Trib. Bergamo, 15.2.2022).
  1. Parimenti, veniva negato che il piano potesse essere meramente liquidatorio (ad es. Trib. Ferrara, -specie, falcidiato- dei creditori, difettare della stessa integrazione del presupposto che
    implicherebbe sempre la necessità della prosecuzione.
  2. Successivamente si è invece sottolineato come una impostazione restrittiva non possa ritenersi
    creditori ed eventuali altri soggetti interessati al fine di individuare una soluzione
    -sì che
    tà indiretta) è solo uno dei modi
    3.1 Depongono
    liquidazione (totale o parziale), in primo luogo le modalità di calcolo del test pratico sulla difficoltà del risanamento del debito previsto nella Sez. I del Decreto Ministeriale del 28 settembre 2021,
    comma 2, e 17, comma 3, lett. b). Come noto, tale test correla la difficoltà del risanamento al
    Ebbene, a conferma della possibilità di addivenire ad una ristrutturazione del debito tramite proventi della cessione dei cespiti
    o ipotizzabile con i creditori.
    3.2. Ancora, coerente con il fatto che il piano possa essere liquidatorio è la previsione che la CNC
    di attività in equilibrio economico-
    a nel prevalente
    -quinquies CCII) in cui si precisa
    pendenza del procedimento introdotto con domanda di omologazione di un accordo di
    cui la reversibilità è da intendersi come la possibilità di rendere il debito sostenibile tramite stralci o proventi della dismissione di azienda .
    Pagina 2
    -. chiarimenti della lista di controllo del D.M. 28 settembre 2021 rendono evidente che ora, art. 12 CCII) debba, a seconda dei casi e, in particolare della gravità della
    crisi
    4
    one dei creditori anche con i proventi
    eramento ella
    aziendale. Parte della dottrina considera invece possibile la sottoscrizione di accordi coi creditori
    s (e quindi non il piano attestato di risanamento). Certamente utilizzabile per finalità liquidatorie è la possibilità di chiedere ex artt. 57, 60 e 61 CCII. Si discute se sia rappresentare ai propri creditori come strumento di composizione della crisi la proposizione di una domanda di concordato semplificato, che la norma parrebbe limitare al solo
    caso di diverse trattative che non abbiamo portato a una
    ; inoltre, se fosse possibile fin da subito proporre un
    concordato semplificato, si finirebbe per privare di senso la previsione della procedura di
    procedere alla liquidazione del patrimonio ed alla ripartizione del ricavato tra i creditori..
    5
    predisposizione di un piano liquidatorio (anziché di continuità diretta o indiretta) da parte
    mpresa istante (in liquidazione o meno) non dovrebbero essere di per sé tali da impedire
    misure protettive eventualmente richieste). Se il valore dei beni da liquidare, insieme ad eventuali altri attivi disponibili, accompagnato da uno stralcio, consente di predisporre un piano potenzialmente accettabile da parte dei creditori (o comunque che possa apparire come ragionevole punto di partenza di una trattativa) non dovrebbe esservi motivo di impedire lo svolgimento della trattativa (e quindi di negare la conferma delle misure protettive).
    Tale dovrebbe essere certamente un piano che sia auspicabilmente migliorativo per tempi e/o valore rispetto ad una liquidazione giudiziale, ipotesi assai frequente tenuto conto anche della durata limitata delle trattative della CNC e delle lungaggini, inefficienze e incertezze dalla liquidazione giudiziale.
    possono essere elementi che il Tribunale, insieme alle altre circostanze rilevanti del caso, dovrà considerare ai fini di valutare se il ricorso alla CNC (accompagnato alla richiesta di misure
  3. Versando tali principi nel caso di specie, la società ricorrente, che è in stato di liquidazione ietà, al prezzo di dubbia la recuperabilità, con la conseguente previsione di un duplice scenario, a seconda del
    Pagina 3
    00, in pratica costituente quasi int recupero o meno di tale credito (oltre che, terza ipotesi, a seconda che i creditori rinuncino meno agli interessi): il piano, a seconda degli scenari, prevederebbe comunque unicamente il pagamento del creditore ipotecario e dei creditori privilegiati (in parte o totalmente), e dei creditori chirografari solo nel caso di recupero del credito Iva -che l esperto ha ritenuto possibile-.
    I creditori sentiti non si sono nella sostanza opposti alla concessione delle misure protettive, avanzando semmai contestazioni sulla congruità del prezzo di cessione; il solo Avv. ha concluso per la non conferma, sempre peraltro in ragione della ritenuta migliore collocabilità sul mercato del bene, invero già messo inutilmente sul mercato a prezzi maggiori. Tutti si sono dichiarati disponibili a trattative.
    Non è questa la sede perché il Tribunale possa assoggettare a scrutinio profondo il piano di risanamento proposto (esso stesso peraltro in realtà in fieri, perché sottoposto all accordo coi creditori), essendo il provvedimento deputato unicamente alla decisione sulla conferma o meno della misure protettive, sulla base del
    perseguibilità del risanamento proposto: la misura protettiva non è infatti una definitiva ablazione del potere di esecuzione individuale, ma una temporanea sospensione dello stesso in attesa di
    prorogabile
    buon esito delle trattative o appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori
    -anche per la brevità del termine avuto a disposizione- di non avere iniziato ad intavolare le trattative con i creditori, ha comunque concluso per la praticabilità del risanamento, posto che l azienda evidenzia un valore, quanto meno patrimoniale molto importante e prossimo alla debitoria presente, che ripagherebbe quasi totalmente il debito nei confronti dei terzi (pag. 10); l unica strada considerata percorribile è stata indicata nella cessione dei beni, nei termini già definiti o in base ad eventuali nuove offerte migliorative, capaci
    di generare flussi pari o superiori alla debitoria .
    L esperto parrebbe pertanto sottintendere che il piano predisposto dalla ricorrente sulla base della manifestazione di interesse all acquisto costituirebbe una sorta di base su cui sviluppare la trattativa, piuttosto che il preconfezionamento di un accordo chiuso con il promissario acquirente: soluzione che effettivamente appare l unica compatibile con l istituto della composizione negoziale, posto che dall art. 22 CCII emerge chiaramente come le vendite debbano sempre avvenire con il rispetto del principio di competitività , come si esprime l ultima parte della lett. d) del primo comma dell art. 22 cit.
    Appare altrettanto evidente che in una situazione siffatta, in cui il risultato possibile del risanamento liquidatorio è strettamente collegato alle trattative a stralcio coi creditori, certamente
    utili appaiono le misure protettive richieste,
    manifestazioni di interesse, anche di quelle riferite dai creditori -che hanno menzionato l interessamento di altri-, nonché al raggiungimento degli accordi sulle dilazioni o sugli stralci dei pagamenti richiesti ai creditori.
    Nessuno dei creditori, come si diceva, testazioni sulla concedibilità della conferma delle misure: ed effettivamente, valutando comparativisticamente i contrapposti interessi delle parti -ciò che si impone, in ogni valutazione di tipo cautelare-, le misure richieste non danneggiano in modo definitivo gli interessi dei creditori procedenti, solo temporalmente limitati, mentre la mancata concessione del beneficio sarebbe in grado di compromettere in via
    Pagina 4 salvaguardata la possibilità di cessione di una azienda in esercizio (posto che la cessione dell immobile avviene da parte di società immobiliare, con pratica coincidenza di attività liquidatoria ed attività caratteristica), sì che, se anche il risanamento viene ad essere perseguito
    individualistico di singoli creditori.
    Né costituisce motivo di inammissibilità della domanda la genericità delle misure protettive ssa legittimamente
    coincidendo con: a) il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari: b) la limitazione delle facoltà di autotutela negoziale per i contraenti che abbiano in essere rapporti
    i modificarlo o anticiparne la scadenza purché il debitore esegua regolarmente le prestazioni ; c) il divieto di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza, salva la facoltà per i creditori, il pubblico ministero e gli organi di controllo di avviare e proseguire il procedimento unitario; d) il divieto per i creditori di acquisire diritti di prelazione (es. ipoteche giudiziali e legali), con esclusione di quelli concordati
    potendo invece addivenirsi alla neutralizzazione degli effetti delle ipoteche giudiziali iscritte nei in ragione della natura negoziale e
    privatistica della procedura, che non consente anticipazione di effetti tipicamente concorsuali).
    Le misure potranno pertanto essere confermate, pur con le criticità sopra evidenziate in ordine alle caratteristiche del piano, invero allo stato meramente ipotizzato, che in tanto potrà trovare effettiva esplicazione, in quanto ad esso si accompagnino gli accordi con i creditori sul quantum e siano inseriti elementi di competitività: criticità, rispetto alle quali peraltro la mancata conferma avrebbe valenza esiziale, parimenti non auspicabile.
    P.Q.M.
    conferma
    le misure protettive richieste, con la conseguenza che dal giorno della pubblicazione dell’istanza al registro delle imprese e per i successivi 120 giorni, fatti salvi i diritti di credito dei lavoratori, non è consentito ai creditori dell’impresa ricorrente di iniziare e proseguire azioni individuali esecutive o cautelari sul patrimonio
    Si comunichi. Perugia, 12.7.2024
    Pagina 5
    Il Giudice
    dott. Teresa Giardino
Condividi:

REATO TRIBUTARIO: ESCLUSIONE DELLA CONFISCABILITÀ DEL PROFITTO CON ACCORDO TRA CONTRIBUENTE E FISCO

Condividi:

Decisione della Cassazione con la sentenza 32282 

[I reati tributari sono una tipologia di delitti disciplinati dal decreto legislativo n.74 del 2000 che puniscono gravi violazioni delle leggi fiscali ovvero le leggi che regolamentano la tassazione e la riscossione delle imposte nel nostro paese.]

La sentenza n. 32282/2024 della Cassazione, depositata il 9 agosto 2024, stabilisce un importante principio riguardo ai reati tributari e il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente. In questo caso, la Corte ha disposto il dissequestro di oltre tre milioni di euro che erano stati sequestrati a fini di confisca per un presunto reato di omessa dichiarazione per gli anni 2015 e 2016.

La decisione si basa sul fatto che i contribuenti coinvolti avevano completamente adempiuto al loro debito erariale attraverso una procedura conciliativa con il Fisco. La Corte ha concluso che, una volta estinto il debito tributario, viene meno la pretesa tributaria, e di conseguenza, non è più giustificato mantenere il sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Questa sentenza è in linea con una recente evoluzione legislativa. Infatti, il Decreto Legislativo n. 87/2024, entrato in vigore il 29 giugno 2024, ha introdotto un nuovo comma all’articolo 12-bis del D.lgs. n. 74/2000. Questo nuovo comma stabilisce che il sequestro non è disposto se il debito tributario è in corso di estinzione, anche mediante rateizzazione o accordi di conciliazione, a meno che non vi sia un concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale.

In sintesi, il principio che emerge dalla sentenza è che, una volta che il debito tributario è stato interamente pagato, non vi è più motivo per mantenere il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, poiché il profitto del reato, rappresentato dall’imposta evasa, è stato annullato con il pagamento del debito.

SENTENZA

Composta da
GASTONE ANDREAZZA
ALESSIO SCARCELLA
ANTONIO CORBO
UBALDA MACRI’
ALESSANDRO MARIA ANDRONIO
ha pronunciato la seguente
sui ricorsi proposti da:

  • Presidente – – Relatore –
    SENTENZA
    REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano
    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE PENALE
    avverso l’ordinanza del 05/10/2023 del TRIB. LIBERTA’ di Siena Udita al relazione svolta dal Consigliere Alessio Scarcella;
    letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale DOMENICO SECCIA, che ha chiesto li rigetto dei ricorsi;
    letta al memoria di replica ala requisitoria scritta del PG, depositata telematicamente
    nell’interesse del ricorrente
    con cui ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
    dal difensore, Avv.
    RITENUTO IN FATTO
  1. Con ordinanza del 5 ottobre 2023, il Tribunale del riesame di Siena rigettava
    gli appelli cautelari proposti da
    confermando, per l’effetto, il decreto di revoca parziale del sequestro preventivo emesso in data 23 agosto 2023 del GIP del Tribunale di Siena, funzionale alla confisca del profitto del reato di cui all’art. 3, D.lgs. n. 74 del 2000, contestato agli imputati c.s. generalizzati, per aver
    32282-24
    Sent. n. sez. 985/2024 C – 20/06/2024
    R.G.N. 5330/2024 omesso di dichiarare per l’anno 2015 la somma di euro 2.750.000,00 e, per l’anno 2016, la somma di euro 412.500,00.
  2. Avverso l’ordinanza impugnata nel presente procedimento, i predetti hanno proposto separati ricorsi per cassazione tramite i rispettivi difensori di fiducia, deducendo complessivamente quattro motivi, di seguito sommariamente indicati.
    2.1. Deduce
    con l’unico motivo proposto, li vizio di
    violazione di legge ni relazione agli art. 12-bis, 13, e 13-bis, D.lgs. .n 47 del 2000, 321,
    commi 2 e 3, cod. proc. pen., 240, comma 2, cod.pen, nonché 1, 6, 8 e 9, D.lgs. n. 218 del 1997.
    In sintesi, si contesta la violazione delle norme che disciplinano la procedura di accertamento con adesione del contribuente e con l’Agenzia delle entrate. Il Tribunale ha ritenuto che li giudice penale è libero di determinare autonomamente l’ammontare del profitto del reato tributario alla luce della prima ed originaria quantificazione di esso unilateralmente effettuata dalla Agenzia delle entrate attraverso li processo verbale di constatazione, ciò indipendentemente dalla rideterminazione del profitto effettuata successivamente dalla stessa Agenzia delle entrate, ossia l’unico reale creditore, una volta attivato li contraddittorio con li contribuente a seguito dell’esperimento della procedura di accertamento con adesione. Quanto sopra sarebbe possibile in quanto la
    procedura di accertamento con adesione avrebbe una natura convenzionale-transattiva, ciò che sarebbe indizio di rinuncia parziale da parte dell’Agenzia rispetto al proprio credito
    originario. In altri termini, secondo li Tribunale, li giudizio penale, rispetto all’ammontare del profitto del reato tributario ai fini della revoca del sequestro o della confisca, sarebbe sempre svincolato ed autonomo rispetto alla quantificazione del profitto effettuata in seconda istanza dall’Agenzia delle entrate a seguito di contraddittorio del contribuente, allegando i giudici dell’appello a sostegno alcune decisioni di questa Corte.
    Ritiene, tuttavia, la difesa che tale tesi non possa essere accolta in quanto lo scopo della procedura di accertamento con adesione è quello di attivare un contraddittorio tra Agenzia delle entrate e contribuente al fine di giungere all’esatta determinazione dell’imposta evasa: li confronto innestato tra l’Agenzia delle entrate e li contribuente può condurre eventualmente ad un riconoscimento della non debenza parziale o totale del debito tributario, ma non certo ad una rinuncia transattiva o stralcio da parte dell’Amministrazione finanziaria, come del resto evidenziato da parte di questa stessa Corte (il riferimento e alla sentenza della Cassazione civile, sezione tributaria, n.16675
    del 2022). Dunque, li contraddittorio tra l’Amministrazione finanziaria ed li contribuente può condurre semmai ad una determinazione dell’imposta evasa più corretta e più ponderata ed aderente alla realtà rispetto a quella unilateralmente ed originariamente effettuata da parte della Agenzia delle entrate, ma non ad una rinuncia, con la
    2 conseguenza che, in quest’ultimo caso, si avrà la cristallizzazione dell’effettiva
    consistenza del debito tributario, ossia dell’imposta evasa, che li contribuente dovrà pagare. A sostegno di quanto sopra militerebbero due ulteriori rilievi: anzitutto, che l’adesione del contribuente viene espressa riguardo ad una proposta interamente formulata dall’Agenzia delle entrate e che costituisce la rideterminazione in via definitiva a seguito di nuova valutazione della stessa Agenzia; in secondo luogo, si rileva che la determinazione dell’esatto ammontare del debito tributario, ossia il profitto del reato, rimarrebbe ferma e cristallizzata anche nel caso in cui il contribuente non adempisse alla
    propria obbligazione di pagamento, sia essa o meno rateale. In tal caso, infatti, verrebbe elevata una sanzione pari al 60% del tributo evaso così come rideterminato all’esito della
    predetta procedura, ma l’ammontare dell’imposta evasa rimarrebbe cristallizzato rispetto
    alla rideterminazione, anche in questo caso autonoma, effettuata in seconda istanza dall’Agenzia delle entrate. Quanto sopra sarebbe poi confermato dalla vigenza
    nell’ordinamento interno del principio della indisponibilità del credito tributario, per li quale non è possibile concordare un’esenzione sia essa totale o parziale, da qualunque tipologia di imposte o tasse, rendendosi la pretesa tributaria perciò stesso indisponibile anche da parte dell’Agenzia delle entrate in sede di adesione. Le poche e uniche eccezioni a questo principio sono infatti previste esclusivamente dalla legge, come nell’ipotesi della transazione fiscale e della gestione della crisi da sovraindebitamento del soggetto privato. La conseguenza di quanto sopra è che, una volta saldato il debito tributario così come rideterminato dall’Agenzia delle entrate, nessun profitto può più dirsi sussistente, con la conseguente illegittimità del mantenimento del sequestro preventivo a fini di successiva confisca. Si osserva, inoltre, come, quand’anche si ritenesse che la procedura di accertamento con adesione abbia natura transattiva, negoziale o convenzionale, nulla
    muterebbe rispetto a quanto sinora sostenuto, dovendosi giungere alla medesima
    conclusione poiché, una volta saldato li debito tributario, nessun profitto di reato può dirsi
    sussistente, e ciò sia nel caso di determinazione originaria dell’ammontare del profitto
    del reato-debito tributario, sia nel caso della rideterminazione successiva di questo, in
    quanto l’integrale pagamento del debito soddisfa l’unico creditore che è l’Erario, li quale
    non potrebbe pretendere, né tantomeno accettare, dal contribuente, più di quanto
    quest’ultimo ha già pagato in aderenza con la quantificazione del debito fatta dall’Agenzia.
    Si osserva, infatti, che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per i reati tributari, li
    mantenimento del sequestro preventivo sui beni dell’indagato è giustificato solo fino al
    momento in cui si realizza il recupero delle somme evase a favore dell’Amministrazione
    finanziaria, citando a tal proposito giurisprudenza di questa Corte alla pagina 11 del
    ricorso. Da qui, dunque, il cortocircuito logico-interpretativo nel quale sarebbe caduto li
    Tribunale decidendo sull’appello cautelare poiché, una volta soddisfatto integralmente il
    debito tributario, l’Erario non potrebbe pretendere né ricevere alcuna somma ulteriore, sicché li contribuente non potrebbe più essere assoggettato a sequestro, atteso che
    3 quest’ultima misura non avrebbe più alcuno scopo, atteso che la pretesa creditoria
    erariale, ossia l’ingiusto arricchimento, è stata estinta col pagamento integrale del debito
    fiscale, e questo costituirebbe li paradigma pratico della duplicazione sanzionatoria: a
    ritenere diversamente, come invece sostenuto dal Tribunale, si giungerebbe al paradosso
    per cui l’indagato, pur avendo saldato li proprio debito erariale, mai potrebbe vedersi
    eliminato li sequestro preventivo dei propri beni, se non pervenendosi all’assoluzione, né
    mai potrebbe rimuovere li sequestro, anche volendo ipoteticamente pagare più di quanto
    dovuto per imposte evase e stabilito dall’Agenzia delle entrate, visto che l’Agenzia stessa
    mai potrebbe accettare un pagamento superiore a quanto dovuto. Tale soluzione sarebbe
    peraltro avvalorata da plurime decisioni di questa Corte che vengono richiamate in ricorso
    alle pagine 13/19. Alla luce di quanto sopra, dunque, l’errore interpretativo commesso dai giudici dell’appello cautelare consisterebbe nell’aver confuso li piano operativo del
    doppio binario, non cogliendo la netta differenza tra l’accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi del reato fiscale da una parte, e la determinazione dell’ammontare
    dell’imposta evasa ai fini dell’individuazione del profitto rilevante per la confisca, dall’altra. In relazione all’accertamento della responsabilità penale è operante li principio
    del doppio binario, laddove, in relazione alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, tale principio non opera e non potrebbe operare, se non creando una netta frizione con il principio di non duplicazione sanzionatoria. In altri termini, li giudice sarebbe si libero di effettuare una differente ricostruzione del tributo evaso rispetto alla quantificazione dello stesso operato dall’amministrazione finanziaria, ma ciò potrebbe avere effetti solo sul piano strettamente penale, come ad esempio sull’accertamento del superamento della soglia di rilevanza penale prevista quale elemento costitutivo del reato, ovvero sulla commisurazione della sanzione penale applicabile o, ancora, rispetto all’applicabilità o meno di circostanze attenuanti o di cause di non punibilità. Diversamente, li giudice penale non sarebbe libero di determinare l’ammontare dell’imposta ai fini della irrogazione della confisca ove li Fisco sia stato già integralmente soddisfatto dal versamento effettuato dal contribuente in aderenza alla determinazione dell’imposta evasa effettuata dallo stesso ente: in questo caso, non sussisterebbe più alcun profitto di reato confiscabile giacché l’imposta evasa è stata integralmente versata
    dal contribuente. Quanto sopra, infine, sarebbe confortato anche dalla interpretazione letterale e sistematica sia dell’articolo 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000 (che non può
    essere interpretato nel senso che la confisca operi per gli importi eccedenti le imposte evase, così come rideterminata dall’amministrazione finanziaria in sede di adesione) sia
    dagli articoli 13 e 13-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, i quali confermano che li regime del cosiddetto doppio binario opera solo sul piano strettamente penale, ma non anche sul piano della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa ai soli fini della valutazione del profitto confiscabile.
    4 2.2. Deduce
    con li primo dei due motivi originariamente proposti, li vizio di violazione di legge in relazione all’art. 12-bis, D.lgs. n. 74 del 2000.
    In sintesi, si premette che li Gip aveva disposto per i soli reati tributari li sequestro preventivo per equivalente, quantificabile nell’importo evaso corrispondente all’Ires non dichiarata e non versata. Si aggiunge, peraltro, che, successivamente, è intervenuto un atto di adesione con l’Agenzia delle entrate attraverso li quale l’importo da versare per Ires, Iva, ed Irap è stato determinato per l’anno di imposta 2015 e per l’anno di imposta 2016 a titolo di Ires, rispettivamente, nella misura di euro 1.258.245,11 e di euro 518.907,92, importi interamente versati. I giudici dell’appello cautelare hanno ritenuto che li giudice non sarebbe vincolato nella determinazione del profitto confiscabile all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’Amministrazione finanziaria e li contribuente anche se, per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tenere invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione dell’imposta dovuta.
    Tale assunto, secondo la difesa, non sarebbe condivisibile nella parte in cui si afferma che la valutazione includente quella finale del profitto non può richiedere in fase
    cautelare un’indagine altrettanto penetrante rispetto a quella che dovrà formare oggetto di accertamento specifico nel giudizio di merito, in quanto è proprio l’art. 12-bis, comma 2, del D.lgs. n. 74 del 2000, a prevedere che la confisca non opera per la parte che li contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro. Si tratterebbe, altresì, di un assunto carente di motivazione, laddove recita che occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione dell’imposta dovuta, in quanto presuppone implicitamente dimostrata la stessa tesi che si intende dimostrare, ossia l’aver indicato gli elementi di fatto da cui derivare tale maggiore plausibilità, ai fini del profitto del reato, del PVC della Guardia di finanza rispetto all’intesa raggiunta dal contribuente con l’Agenzia delle entrate. Laddove li debito tributario sia stato adempiuto, la confisca, non avendo li reato comportato la realizzazione di alcun profitto, non avrebbe più alcuna ragion d’essere come, del resto, si osserva in ricorso, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (il riferimento è alla sentenza di questa sezione n. 28225 del 2016). Il principio del doppio binario trova, dunque, applicazione in relazione alla sussistenza degli elementi tipici di questo o di quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato laddove li creditore, ossia l’Agenzia delle entrate, a seguito del pagamento di quanto dovuto dal contribuente, dichiari di non avere più nulla da pretendere dal contribuente medesimo, come affermato da questa Corte e, segnatamente, dalla sentenza di questa sezione n. 32213/2018. Né potrebbe avere rilievo li fatto che vi sia una divergenza tra la quantificazione dell’imposta evasa compiuta dal Tribunale e l’accertamento del suo ammontare da parte dell’Erario. A tal proposito, si ricorda come proprio questa stessa
    5 Corte ha precisato che in materia di confisca costituente li profitto o li prezzo dei reati tributari, la previsione di cui all’art. 12-bis non opera per la parte che li contribuente si
    impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro, facendo esplicito riferimento alla procedura di accertamento con adesione. Il principio in forza del quale deve attribuirsi
    rilevanza determinante ai fini dell’esclusione della confiscabilità del profitto del reato tributario alla quantificazione di esso operata in sede amministrativa, anche laddove la stessa sia divergente rispetto a quella acquisita in sede penale in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo tra li contribuente e l’ufficio, sarebbe a fortiori operante laddove non solo di impegno ad adempiere l’obbligazione tributaria si tratti, ma di effettivo adempimento di essa, comprensivo di interessi e di sanzioni. Tale interpretazione sarebbe in linea con quanto affermato da questa Corte, ad esempio in materia di sgravio da parte dell’ufficio (il riferimento è alla sentenza di questa sezione n.
    39187 del 2015). Non sarebbe, perciò, pertinente li richiamo operato dal Tribunale al principio del doppio binario che trova applicazione in relazione alla sussistenza degli
    elementi tipici di questo o di quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato laddove l’Agenzia delle entrate, a seguito del
    pagamento di quanto dovuto dal contribuente, dichiari di non aver più nulla a pretendere dal contribuente medesimo.
    2.3. Deduce
    con li secondo dei due motivi originariamente proposti, li vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 111, commi 6 e 7, Cost., 125, comma 3, cod. proc. pen., in ordine all’omessa indicazione dei concreti elementi di fatto che rendono
    maggiormente attendibile l’iniziale pretesa dell’Agenzia delle entrate, sulla cui base è stato ritenuto sussistente il fumus del reato tributario e quantificato l’ammontare
    dell’imposta evasa su cui commisurare li sequestro, rispetto alla definizione del rapporto tributario per le annualità in discussione, intervenuto tra l’Agenzia delle entrate e la società contribuente a seguito di accertamento con adesione.
    In sintesi, si censura l’ordinanza impugnata per assoluta carenza motivazionale nella parte in cui i giudici dell’appello cautelare ritengono che per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tenere invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione dell’imposta dovuta.
    La motivazione addotta dal Tribunale si limiterebbe infatti a richiamare esclusivamente una massima giurisprudenziale (il riferimento è alla sentenza di questa sezione n. 29091 del 2019), senza tuttavia enunciare gli elementi concreti di fatto idonei a garantire una maggiore attendibilità dell’iniziale pretesa. Come rilevato da questa stessa Corte, si osserva in ricorso, cambia la regola di giudizio ma non la regola da applicare, essendo ben chiaro che occorre tenere distinta la nozione di pretesa tributaria da quella di profitto illecito nei reati tributari. Dunque, si osserva, li giudice penale non è
    6 vincolato all’imposta accertata in sede tributaria, ma per discostarsi dal dato quantitativo
    risultante dell’accertamento con adesione o dal concordato fiscale e tener conto invece
    dell’iniziale pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, occorre che risultino
    concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione
    dell’imposta dovuta. Orbene, li Tribunale avrebbe omesso ogni valutazione degli elementi
    emergenti dalla procedura di accertamento con adesione, giustificando li proprio convincimento della sussistenza del fumus con l’affermazione secondo cui la conciliazione
    giudiziale non rileverebbe sotto li profilo penale e non apparirebbe decisiva al fine di
    rideterminare l’ammontare del profitto del reato, affermazione ritenuta apodittica in quanto non terrebbe conto del ben diverso criterio di calcolo seguito dall’Amministrazione
    finanziaria e della relativa determinazione finale. In ultima analisi, dunque, mancherebbe ogni motivazione che dia conto del perché l’originaria contestazione contenuta nel PVC
    sia preferibile alla determinazione cui è pervenuta l’Agenzia delle entrate nella conciliazione giudiziale che, sottolinea la Cassazione, si osserva in ricorso, costituisce un dato dal quale li giudice penale non può prescindere.
    2.4. Deduce
    con li motivo nuovo depositato ni data 4 giugno 2024, li vizio di violazione di legge in relazione all’art. 111 Cost., commi 6 e 7, e dell’art. 125 cod. proc. pen., attesa la mancanza/apparenza di motivazione del provvedimento impugnato in ordine all’omessa indicazione dei concreti elementi di fatto che rendono maggiormente attendibile l’iniziale pretesa dell’Agenzia delle Entrate – in relazione alla quale è stato ritenuto sussistente li fumus commissi delicti e quantificato l’ammontare dell’imposta su cui commisurare il sequestro – rispetto alla definizione del rapporto tributario per le annualità in discussione intervenuto tra l’Agenzia delle Entrate e la società contribuente a seguito di accertamento con adesione.
    In sintesi, riprendendo quanto già esposto nel secondo motivo del ricorso originario, la difesa, replicando alla requisitoria scritta del PG, sostiene che li riferimento ai “costi” è, senz’altro, errato ni quanto, nel caso di specie, non vengono ni rilievo indebite detrazioni di imposta, ma la natura dei finanziamenti erogati alla SRL, ossia se i medesimi abbiano natura finanziaria, oppure costituiscano sopravvenienze attive. Nell’insistere, poi, sul vizio di motivazione assente od apparente del provvedimento impugnato, rileva la difesa che la motivazione non si confronta con il contenuto dell’atto di adesione del contribuente con l’Agenzia delle entrate di Siena, richiamato e trascritto integralmente nel motivo aggiunto, censurandosi l’atteggiamento del collegio di merito che si è discostato dalle approfondite argomentazioni dell’Agenzia delle entrate, avendo fatto riferimento li Tribunale, esclusivamente, al processo verbale di constatazione iniziale, senza considerare la nuova determinazione dell’imposta in base alla procedura di accertamento con adesione. Le conclusioni cui è pervenuta l’Agenzia poggiano – diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore Generale, che ha fatto riferimento ad
    7 una inesistente voce “costi” (del tutto avulsa dal caso ni scrutinio) – su elementi caratterizzati da certezza e precisione (come prescrive l’ultima parte del citato comma 4), e non rappresentano, affatto, li mero frutto dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria alle argomentazioni della parte.
    CONSIDERATO IN DIRITTO
  3. I ricorsi, trattati cartolarmente ni assenza di richiesta di discussione orale, sono fondati.
    .2 Entrambi meritano di essere trattati congiuntamente, attesa l’intima connessione dei profili di doglianza sottesi alle omogenee censure svolte dalla difesa degli attuali ricorrenti.
  4. Il tema, comune ad entrambi i ricorsi, è quello della natura dell’accertamento con adesione e delle conseguenze che l’integrale pagamento del debito tributario,
    conseguente alla procedura conciliativa con l’Erario, assume rispetto all’adozione (o,
    come nella specie, al mantenimento) del sequestro funzionale alla confisca per equivalente.
  5. Occorre premettere, e sul punto non vi è contestazione, che li Gip
    territorialmente competente disponeva, nei confronti dell’indagato
    per i delitti tributari attribuiti, in data 30 novembre 2020, li sequestro preventivo per equivalente, ex art. 12-bis D. Lgs. n. 74 del 2000, quantificabile nell’importo evaso, corrispondente all’IRES non dichiarata e non versata, per € 2.750.000,00 per l’anno di imposta 2015 e, per € 412.500, per l’anno di imposta 2016, pari a complessivi € 3.162.500. Risultava sequestrata al ricorrente la misura percentuale di circa 1’80% del capitale s o c i a l e d e l l a S.p.a. La società definiva poi le obbligazioni tributarie per gli anni di riferimento attraverso atto di adesione, anno di imposta 2015, IRES per € 1.258.245, interamente versati e con atto di adesione, anno di imposta 2016, IRES per € 518.907,92 interamente versati, con un versamento totale all’agenzia delle Entrate del complessivo importo di € 1.777.153,03. Riteneva, in definitiva, l’assenza di ogni profitto confiscabile per il versamento cosi ritenuto, ritenendosi estinto li pagamento tributario.
    Per il secondo indagato si disponeva, nel medesimo modo, la revoca parziale del sequestro disposto ai sensi dell’art. 12-bis citato, sulla base
    dell’avvenuto accordo tributario intervenuto per la società S.p.A. (oggi
    S.p.A.) che definiva con l’Amministrazione Finanziaria le obbligazioni tributarie relative ai periodi di imposta 2015 e 2016, corrispondendo immediatamente tutto li dovuto nei termini e modi che seguono: a) atto di adesione per l’anno di imposta 2015, IRES per
    8 complessivi euro 1.258.245,11, somma integralmente versata; b) atto di adesione per
    l’anno di imposta 2016 ,IRES per complessivi euro 518.907,92, somma integralmente versata, per un totale di euro 1.777.153,03.
  6. Tanto premesso, occorre anzitutto affrontare li tema della natura dell’accertamento con adesione intervenuto tra le parti e che ha condotto l’Ufficio alla rideterminazione dell’imposta evasa.
    L’accertamento con adesione è un accordo stipulato con l’Agenzia delle Entrate
    prima che venga instaurato li contenzioso: consente di negoziare la pretesa e di ottenere
    la riduzione delle sanzioni al terzo del minimo, quand’anche l’Ufficio intenda irrogarle
    nella misura massima. Esso può riguardare tutte le tipologie di reddito ed è esteso a
    qualsiasi fattispecie accertativa. Le pene previste per idelitti tributari sono diminuite sino ad un terzo e non si applicano le sanzioni accessorie qualora li contribuente provveda alla
    estinzione dei debiti tributari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche a seguito di adesione, a condizione che li pagamento riguardi altresì le sanzioni (art. 13-bis del D.lgs. n. 74 del 2000). L’attenuante è condizione per accedere al patteggiamento. Solo per la compensazione di crediti non spettanti, l’effetto è la non punibilità del reato (art. 13, comma 1, del D.lgs. n. 74 del 2000). In merito ai reati caratterizzati da una soglia di punibilità come la dichiarazione infedele ex art. 4 del D.lgs. n. 74 del 2000, parte della giurisprudenza ha affermato che se la pretesa è condotta sotto
    la soglia li reato non sussiste (Sez. 4, n. 7615 del 30/01/2014, Bova, non massimata; nel senso, invece, che li giudice penale non è vincolato dall’accordo di adesione, Sez. 3, n. 51038 del 19/09/2018, Rv. 274094 – 01).
  7. Occorre, in particolare, analizzare gli effetti che l’atto di adesione esplica con riferimento alla misura cautelare reale del sequestro funzionale alla confisca per
    equivalente ex art. 12-bis, D.lgs. n. 74 del 2000.
    Con specifico riferimento ai reati tributari, si è precisato che detto sequestro va
    riferito all’ammontare dell’imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di «profitto», costituito dal risparmio economico da cui consegue l’effettiva
    sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia
    li reo (cosi Sez. 3, n. 1199 del 02/12/2011, dep. 2012, Rv. 251893 – 01).
    La quantificazione di detto risparmio è comprensiva del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario (con riferimento, in particolare, al delitto di cui all’art. 11, D.lgs. n. 74 del 2000: Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Rv. 253480 – 01). Si è inoltre evidenziata la necessità, da parte del giudice del merito, di una valutazione sul valore dei beni sequestrati, al fine di verificare li rispetto del principio di proporzionalità tra il credito garantito ed li
    9 patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, al fine di evitare che la misura cautelare si riveli eccessiva nei confronti del destinatario (Sez. 3, n. 41731 del 07/10/2010, Rv. 248697 – 01 e successive conformi). lI sequestro non può, conseguentemente,
    riguardare beni di valore eccedente li profitto del reato (tra le tante: Sez. 3, ord. n. 1893 del 12/10/2011, dep. 2012, Rv. 251797 – 01).
  8. Tanto premesso, ritiene li Collegio che i ricorsi meritino entrambi accoglimento.
    Posto che la ragione della confisca, in materia penale tributaria, risiede nel
    recupero del debito tributario, come accertato dall’Agenzia delle Entrate, una volta
    integralmente adempiuto quest’ultimo, come nel caso di specie, viene meno al funzione del vincolo reale disposto a carico del contribuente.
    In altri termini, stante l’assenza di profitto, ni conseguenza della procedura di
    accertamento con adesione seguita dall’integrale versamento del debito tributario in
    relazione ad entrambe le annualità in contestazione, non vi è più spazio per il
    provvedimento ablatorio, restando, peraltro, impregiudicato li futuro giudizio di merito ni ordine alla sussistenza del reato.
    Ed invero, in questa sede, non è in discussione la sussistenza del delitto di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, ascritto ad entrambi i ricorrenti, ma solo le condizioni legittimanti li disposto sequestro del profitto del reato in esame.
  9. Quanto sopra rende evidente come l’ordinanza impugnata non abbia fatto
    corretta applicazione dell’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui “la confisca non opera per la parte che li contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”.
    Invero, li sequestro in questione è stato disposto come misura prodromica volta a garantire l’effettività dell’eventuale successiva confisca del profitto del reato; orbene, osserva la Corte come la circostanza che i contribuenti abbiano interamente versato
    all’Erario gli importi richiesti dall’Agenzia delle Entrate, con riguardo a tutte le annualità in contestazione, si pone come elemento necessariamente ostativo alla possibilità di procedere alla confisca di quello che, dal Tribunale, è ritenuto essere li profitto del reato e, per l’effetto, al sequestro finalizzato alla confisca medesima.
  10. Né (come gia affermato da questa stessa Sezione, con decisione cui li Collegio reputa di dover dare continuità: Sez. 3, n. 32213 del 09/05/2018, De Francesco, non massimata) può avere un qualche rilievo li fatto, che, nel caso di specie, vi sia divergenza fra la quantificazione dell’imposta evasa compiuta dal Tribunale – peraltro quantificando
    li profitto sulla base del mero richiamo al processo verbale di contestazione, senza specificamente indicare, nel discostarsi dal dato quantitativo convenzionalmente accertato laddove ha tenuto conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, di “concreti
    10 elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione
    dell’imposta dovuta”: Sez. 3, n. 29091 del 04/04/2019,
    Rv. 276756 – 03 – e l’accertamento del suo ammontare da parte dell’Erario, ossia del creditore, li quale, per
    giustificare detta quantificazione, aveva svolto delle approfondite argomentazioni, puntualmente riportate anche nel motivo aggiunto del ricorso della difesa
    Orbene, li Collegio – con indicazione che merita di ricevere continuità in quanto evidente espressione di un atteggiamento di favor del legislatore per le forme di definizione del profilo strettamente tributario delle vicende connesse alla violazione delle disposizioni penali di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 che consentano comunque all’Erario di conseguire li pagamento delle imposte ritenute dovute – ricorda come questa Corte ha gia precisato che, in materia di confisca di beni costituenti li profitto o li prezzo di reati tributari, la previsione di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal d.lgs. n.
    158 del 2015, secondo la quale, anche in caso di condanna o di applicazione della pena concordata, la confisca, diretta o per equivalente, “non opera per la parte che il
    contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”, si riferisce alle assunzioni d’impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria
    di settore, ivi compresi gli accertamenti con adesione, la conciliazione giudiziale, le transazioni fiscali ovvero l’attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a
    domanda (Sez. 3, n. 28225 del 09/02/2016, Rv. 267334 – 01; Sez. 3, n. 5728 del 14/01/2016, Rv. 266037 – 01).
    Indubbiamente tale principio, in forza del quale deve attribuirsi rilevanza determinante, ai fini della esclusione della confiscabilità del profitto del reato tributario, alla quantificazione di esso operata in sede amministrativa, anche laddove la stessa sia divergente rispetto a quella acquisita in sede penale in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra li contribuente e la Agenzia delle Entrate, è, a fortiori, operante laddove non di solo impegno ad adempiere alla obbligazione tributaria si tratti ma, come nel caso di specie, di effettivo adempimento di essa, comprensivo di interessi e sanzioni.
    E, difatti, tale interpretazione è in linea con quanto affermato da questa Corte, secondo cui in tema di reati tributari, li profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che
    agisce per li recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere li sequestro funzionale
    all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio”
    da parte dell’Amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 39187 del 02/07/2015, Lombardi Stronati, Rv. 264789; Sez. 3, n. 19994 del 21/09/2016, dep. 2017, Bifulco, Rv. 269763 – 01; Sez. 3, n. 8226 del 28/10/2020, dep. 2021, PMT in proc. Soave, Rv. 281586 – 01).
    11
  11. Coglie dunque nel segno l’obiezione delle difese secondo cui non è pertinente li richiamo, operato dal Tribunale, al principio del “doppio binario”, ossia al fatto che le determinazioni assunte dall’Agenzia delle Entrate non sono vincolanti per li giudice penale. Un principio del genere, infatti, trova applicazione in relazione alla sussistenza degli elementi tipici di questo o quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato, laddove li creditore, ossia l’Agenzia delle Entrate, a seguito del pagamento di quanto dovuto dal contribuente, dichiari di non aver più nulla da pretendere dal contribuente medesimo.
    La confisca in ambito tributario e, per sua natura, collegata al recupero delle imposte evase ed in quest’ottica l’art. 12-bis introduce un sistema finalizzato a favorire
    l’adempimento del debito tributario prevedendo, a fronte di tali condotte, l’esclusione della confisca del profitto. Si tratta di una disposizione che si inserisce nella più ampia logica del sistema penale tributario, nell’ambito del quale le condotte di ravvedimento, mediante pagamento del debito tributario, sono valorizzate anche al fine di escludere la punibilità del reato o di attenuazione della sua gravità (artt. 13 e 14).
  12. In definitiva, l’intero apparato sanzionatorio è calibrato in modo tale da tener
    conto – sia con riguardo alle conseguenze patrimoniali, che alla configurazione dell’attenuante speciale o della causa di non punibilità – dell’adempimento del debito,
    valorizzando la strumentalità dell’apparato penale rispetto all’esigenza di recupero delle imposte evase o non dichiarate. Non vi sono dunque valide ragioni in punto di diritto per escludere l’applicabilità dell’art. 12-bis anche al sequestro del profitto del reato di cui all’art. 3, D.lgs. n. 74 del 2000, contestato ad entrambi i ricorrenti, corrispondente ad un abbattimento della base imponibile (Sez. 3, n. 35719 del 23/09/2020, Oliva, Rv. 280429 – 01), nella specie oggetto di una rimeditata rideterminazione operata dall’Agenzia delle Entrate nel contraddittorio con i contribuenti-ricorrenti.
    Una volta che l’adempimento è intervenuto, infatti, viene meno li rapporto di strumentalità necessaria tra li sequestro del profitto e l’esigenza di recupero delle imposte
    evase. Ne consegue che, ferma restando la sussistenza del reato, l’esigenza di disporre la misura cautelare reale viene necessariamente meno.
  13. Del resto, questa stessa Corte ha chiarito che li sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra li contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato
    pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, ni contrasto con li principio secondo li quale
    12 l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa (tra le tante: Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015, Rv.
    263409 – 01). Principio guesto che, es vale nei casi idadempimento parziale del debito tributario, a maggior valere deve trovare applicazione nei casi, come quello in esame, in
    cui l’adempimento del debito tributario è stato integrale, a seguito del versamento totale da parte dei contribuenti delle somme, corrispondenti alle imposte evase.
    In altri termini, così come la previsione di cui al comma 1 dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, disponendo, come obbligatoria, la confisca dei beni che, ai fini che qui
    rilevano, costituiscono li profitto dei reati tributari, è posta a garanzia della pretesa tributaria, parimenti l’ipotesi del comma 2 sta a significare che, se non vi è pretesa tributaria, nemmeno vi può essere confisca e, di conseguenza, neanche la cautela reale ad essa finalizzata.
  14. L’impugnata ordinanza, unitamente al provvedimento che vi ha dato causa, devono essere conclusivamente essere annullati senza rinvio, conseguendone li dissequestro e la restituzione di quanto ancora sotto cautela reale agli aventi diritto.
    P.Q.M.
    Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché li provvedimento di revoca solo parziale di sequestro del gip del Tribunale di Siena del 23/08/2023 e ordina li dissequestro e la restituzione di quanto ancora in sequestro agli aventi diritto.
    Manda alla cancelleria per l’immediata comunicazione al Procuratore generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell’art.626 cod. proc. pen.
    Così deciso, li 20 giugno 2024
    Il Consigliere@stensore lIPresidente
    Gastone Anereazza
    Depositaia i n Crocciaria
    Ogi,
  • 8 AGO. 2024
    13

Condividi:

CONFERMA DEL TRIBUNALE DI BOLOGNA SULLE MODALITÀ DI ACCERTAMENTO DELLA BANCAROTTA FRAUDOLENTA

Condividi:

Tribunale di Bologna, Sez. Prima Penale, n. 40 del 09/01/2024

La bancarotta fraudolenta rappresenta un grave reato economico caratterizzato dalla deliberata azione di mascherare il proprio patrimonio per provocare l’insolvenza a danno dei creditori.

La sentenza del Tribunale di Bologna, Sezione Prima Penale, n. 40 del 9 gennaio 2024, si inserisce nel filone giurisprudenziale riguardante il reato di bancarotta fraudolenta, in particolare nella sua forma patrimoniale, documentale e preferenziale.

Reato di Bancarotta Fraudolenta

Il reato di bancarotta fraudolenta è disciplinato dall’art. 216 della Legge Fallimentare (L.F.), oggi confluito nell’art. 322 del Codice della Crisi d’Impresa (CCI). Esso si manifesta in tre tipologie principali:

  1. Bancarotta patrimoniale: Comportamenti che comportano il distacco di beni dal patrimonio dell’imprenditore, senza considerare la forma o la modalità di tale distacco.
  2. Bancarotta documentale: Manipolazione della documentazione contabile per ostacolare la ricostruzione del patrimonio aziendale.
  3. Bancarotta preferenziale: Pagamenti preferenziali a determinati creditori a scapito di altri.

Bancarotta Patrimoniale

La sentenza in oggetto conferma un orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui il reato di bancarotta patrimoniale si concretizza con il distacco di beni dal patrimonio dell’imprenditore, indipendentemente dal tipo di atto negoziale con cui tale distacco avviene. Questo distacco può riguardare beni materiali e immateriali, crediti, diritti reali e personali di godimento, esclusi i beni ricevuti a titolo di traslatio dominii.

Accertamento della Condotta Distrattiva

Per provare la bancarotta patrimoniale, è essenziale dimostrare l’esistenza di determinati beni nel patrimonio aziendale in un momento precedente alla formazione del passivo. La mancanza di tali beni al momento della dichiarazione di fallimento e l’incapacità dell’amministratore di giustificare la loro destinazione, possono costituire prova della distrazione.

Considerazioni Soggettive e Cronologiche

Dal punto di vista soggettivo, non è necessaria la consapevolezza dell’imminenza del dissesto per configurare il reato, ma solo la rappresentazione del pericolo che la condotta arreca ai creditori. La cronologia degli eventi può essere rilevante, ma non determinante: anche atti dispositivi compiuti in un periodo di stabilità economica possono essere considerati fraudolenti se si dimostra che la loro finalità era il depauperamento del patrimonio aziendale.

Conclusioni

La sentenza del Tribunale di Bologna ribadisce che l’accertamento della bancarotta fraudolenta patrimoniale richiede un’analisi attenta e specifica delle condotte dell’imprenditore, valutando sia l’elemento oggettivo della distrazione dei beni, sia quello soggettivo legato alla consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori. L’elemento soggettivo non necessita della prova della consapevolezza dell’imminenza del fallimento, ma solo della rappresentazione del rischio creato dalla condotta per la garanzia dei creditori.

Condividi:

TUTELA PER L’ERARIO: SOSPENSIONE PRESCRIZIONE DEL CREDITO ANCHE PER I COOBBLIGATI

Condividi:

Il nuovo articolo 25-bis del DPR 602/73, introdotto dal Decreto Legislativo 110/2024, regola l’impatto della richiesta di rateazione delle cartelle di pagamento nei casi di responsabilità sussidiaria, all’interno della riforma della riscossione.

Questo articolo specifica che, quando il debitore principale ottiene la rateazione del pagamento, la prescrizione del diritto di credito si sospende anche nei confronti dei coobbligati sussidiari, dalla prima rata fino al termine del piano di rateazione. Inoltre, l’agente della riscossione deve informare immediatamente i coobbligati sussidiari della richiesta di rateazione, del numero di rate e della durata del piano.

La disposizione mira a proteggere l’Erario, assicurando che i coobbligati sussidiari non possano avvalersi della prescrizione mentre il debitore principale è impegnato in un piano di rateazione. Questo si applica a situazioni di solidarietà passiva tributaria, dove vi è una pluralità di debitori e l’obbligo per il creditore di agire prima contro il debitore principale.

L’articolo 25-bis modifica l’approccio tradizionale previsto dall’articolo 1310, comma 2 del Codice civile, il quale stabilisce che la sospensione della prescrizione nei confronti di uno dei debitori non si estende agli altri. Questa nuova normativa, quindi, garantisce che la tutela del credito erariale non venga compromessa dalla rateazione concessa al debitore principale.

Infine, il decreto introduce anche modifiche agli articoli 45 e 50 del DPR 602/73, stabilendo l’obbligo di notificare la cartella di pagamento prima di avviare la riscossione coattiva, sia nei confronti del debitore principale che dei coobbligati solidali, garantendo così una maggiore trasparenza e protezione dei diritti di tutti i soggetti coinvolti.

Condividi:

IL CORRETTIVO PENALIZZA IL CONCORDATO PREVENTIVO BIENNALE

Condividi:

Il Concordato Preventivo Biennale (c.d. CPB) è un “accordo” con il Fisco che permette, per un biennio, di pagare le tasse non in base agli effettivi guadagni bensì sulla base di quanto preventivato dall’Agenzia delle Entrate, favorendo così l’adempimento spontaneo degli obblighi dichiarativi.

Il testo riguarda le recenti modifiche normative introdotte dal Decreto Legislativo 108/2024, in particolare quelle relative alla disciplina del concordato preventivo biennale e le conseguenze della sua eventuale decadenza. Queste modifiche, pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 5 agosto 2024, hanno reso la decadenza dal concordato un evento ancora più penalizzante per i contribuenti.

Punti chiave del cambiamento normativo:

  1. Nuova previsione sulle imposte e contributi: L’introduzione del comma 3-bis all’articolo 22 stabilisce che, in caso di decadenza dal concordato, rimangono dovute le imposte e i contributi calcolati sul reddito e sul valore della produzione netta concordati, se superiori a quelli effettivamente realizzati. Questo disincentiva i contribuenti dall’utilizzare la decadenza a proprio vantaggio.
  2. Cause di decadenza invariate: Nonostante l’inasprimento delle conseguenze, le cause che possono portare alla decadenza dal concordato non sono state modificate. Continuano a includere qualsiasi modifica o integrazione della dichiarazione dei redditi che comporti una diversa quantificazione dei redditi o del valore della produzione netta rispetto a quelli in base ai quali è stata accettata la proposta di concordato. Non è stata introdotta alcuna soglia di tolleranza (come ad esempio un limite del 30%) per queste modifiche.
  3. Dichiarazioni integrative: Esiste il timore che anche le dichiarazioni integrative a favore del contribuente, seppur previste dall’articolo 8, comma 2, possano essere causa di decadenza. Questo è particolarmente problematico in quanto potrebbe significare che potrebbero rilevare anche le dichiarazioni integrative relative agli ultimi tre anni, dato che tali annualità sono considerate nel contesto della proposta concordataria.
  4. Ravvedimento operoso: Sebbene il ravvedimento operoso sia riconosciuto in alcune circostanze di decadenza, non è rilevante se la decadenza è causata dalla presentazione di una dichiarazione integrativa. Inoltre, è stata eliminata una specifica possibilità di ravvedimento prevista dall’articolo 22, comma 3, del Dlgs 13/2024, il che significa che la decadenza sarà prevista senza possibilità di ravvedimento anche per l’omessa presentazione di alcune dichiarazioni.
  5. Pagamenti e ravvedimento: La norma non è stata modificata per quanto riguarda la decadenza in caso di mancato pagamento delle somme dovute a seguito delle attività di controllo ai sensi dell’articolo 12, comma 2. Tuttavia, resta possibile evitare la decadenza tramite il ravvedimento operoso.

Implicazioni:

Questi cambiamenti aumentano significativamente il rischio associato all’uso del concordato preventivo biennale. Da un lato, i contribuenti sono disincentivati a sfruttare la decadenza a proprio favore, mentre dall’altro, la rigidità delle cause di decadenza e le limitazioni al ravvedimento rendono l’istituto meno flessibile e più pericoloso in caso di difficoltà finanziarie o errori nella dichiarazione dei redditi.

Condividi:

JOBS ACT E LICENZIAMENTI: CORREZIONI COSTITUZIONALI

Condividi:

Corte Costituzionale, Sentenze n. 128 e n. 129

Le sentenze n. 128 e n. 129 della Corte Costituzionale, depositate il 16 luglio 2024, rappresentano un’importante evoluzione nella disciplina dei licenziamenti in Italia, consolidando e ampliando le tutele per i lavoratori in determinate circostanze. Ecco una sintesi dei punti salienti:

Sentenza n. 128

  • Contesto: La sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d. lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non estendeva la tutela reintegratoria ai casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui fosse dimostrata l’insussistenza del fatto materiale.
  • Motivazione: La Corte ha ritenuto irragionevole che l’insussistenza del fatto materiale non avesse rilevanza nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, a differenza di quanto avviene per quelli disciplinari. Questo difetto di sistematicità è stato considerato lesivo dei principi di ragionevolezza e uguaglianza.

Sentenza n. 129

  • Contesto: Riguarda invece i licenziamenti disciplinari e ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo e comma del d. lgs. n. 23 del 2015. Tuttavia, la Corte ha adottato un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.
  • Motivazione: La Corte ha chiarito che la norma sulla non rilevanza della sproporzione del licenziamento ai fini della reintegrazione non si applica nei casi in cui specifiche inadempienze del lavoratore, disciplinate dalla contrattazione collettiva, siano soggette solo a sanzioni conservative e non al licenziamento.

Collegamento tra le sentenze

  • Riallineamento delle fattispecie: Entrambe le sentenze stabiliscono un parallelismo tra licenziamenti disciplinari e per giustificato motivo oggettivo. In entrambi i casi, se il “fatto materiale” non sussiste, il licenziamento è privo di giustificazione causale e, quindi, illegittimo.
  • Spazio per la discrezionalità legislativa: Tuttavia, la Corte lascia un margine all’intento del legislatore di limitare l’applicazione della reintegrazione. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non è prevista la reintegrazione se manca la prova dell’impossibilità di ricollocazione (repechage), così come, nel licenziamento disciplinare, non è prevista se il licenziamento non è proporzionato ma il fatto contestato non è tra quelli puniti con sanzioni conservative dalla contrattazione collettiva.

Impatto

Queste decisioni hanno un impatto significativo sul diritto del lavoro, rafforzando le tutele per i lavoratori ma allo stesso tempo lasciando spazio alla discrezionalità del legislatore. La Corte ha quindi cercato di bilanciare la protezione dei diritti dei lavoratori con l’esigenza di mantenere una certa flessibilità nel mercato del lavoro.

Condividi:

QUANDO UN ENTE È ESENTE DA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA PER NEGLIGENZA DEL MANAGER DELEGATO

Condividi:

Cassazione, Sentenza n. 31665/2024

Per la Cassazione non sussiste la responsabilità amministrativa dell’ente, che opera in un contesto di generale corretto adempimento degli obblighi antinfortunistici per il singolo comportamento colposo e imprevedibile del manager – dotato di specifiche deleghe in materia di sicurezza di lavoratori all’estero – che determini l’nfortunio di dipendenti. In una tale evenienza non emerge infatti un apprezzabile vantaggio patrimoniale, ossia uno strutturale risparmio di spesa per la prassi di non adeguare alla materia antinfortunstica la vita aziendale. Non scatta quindi la responsabiltà amministrativa dell’ente per il reato commesso dal suo dipendente che di fatto ha generato solo un occasionale ed esiguo vantaggio patrimoniale. Come nel caso concreto dove per attivare velocemente un attività industriale si è scelto di fare un trasferimento di lavoratori adottando una via più veloce ma insicura.

Tra l’altro non rilevano neanche le normali posizioni di garanzia se, come nella vicenda risolta, l’operation manager che si occupa, in zone a rischio, di stabilimenti della società e che provvede agli spostamenti dei lavoratori, omette di osservare le cautele indicategli dagli stessi vertici della società. Ciò ha portato a escludere la responsabilità dei vertici del Cda per l’infortunio dovuto all’imprevedibile mancata diiligenza del manager delegato alla sicurezza.

Con la sentenza n. 31665/2024 la Cassazione penale ha respinto il ricorso del procuratore contro l’assoluzione del presidente di una società e contro l’esclusione della responsabiltà ammnistrativa della stessa per il rapimento di propri dipendenti di cui alcuni deceduti, avvenuto all’estero anche causa della mancata prevenzione del rischio legato alla presenza di bande armate sul territorio del Paese straniero. 
Di fatto il rischio di rapimenti di lavoratori stranieri era noto e la prescrizione di sicurezza era quella di non affrontare viaggi via terra, ma via mare. Prescrizione “dettata” tanto dalle autorità nazionali italiane alla società quanto dalla stessa società al proprio operation manager che si occupava del trasferimento finito in tragedia per i dipendenti a lui affidati.

La prova delle indicazioni fornite al manager escludeva un atteggiamento lassista e illecito all’interno della società finalizzato a ottenere consistenti risparmi di spesa da una mancata attivazione di tutti gli strumenti per la sicurezza dei lavoratori. Tale prova del ruolo attivo dei componenti del Cda ha sciolto il nesso tra la posizione di garanzia e l’evento occorso ai dipendenti. E ha anche permesso di superare la contestazione che di fatto lo specifico rischio – per il lavorare che opera in scenari insicuri – non fosse riportato nel documento di valutazione dei rischi della società.

Condividi:

COMUNE CONDANNATO: ECCESSIVI RUMORI DI EVENTI PUBBLICI

Condividi:

Cassazione, Sentenza n. 18676/2024

Il caso in questione riguarda una sentenza della Corte di Cassazione italiana, la n. 18676 del 9 luglio 2024, che ha confermato l’obbligo del Comune di risarcire i danni subiti dai residenti a causa del rumore eccessivo prodotto dagli eventi culturali notturni organizzati nella piazza del paese durante l’estate. Due proprietari di immobili situati nella piazza hanno lamentato che i rumori provenienti dagli eventi superavano la normale tollerabilità, impedendo loro di usare la casa in modo confortevole.

La Corte di Appello aveva già condannato il Comune al risarcimento dei danni, triplicando la somma iniziale riconosciuta dal tribunale di primo grado, in quanto aveva ritenuto che il diritto dei privati alla quiete domestica non potesse essere sacrificato in nome dell’interesse pubblico agli spettacoli, oltre i limiti della normale tollerabilità del rumore.

La Cassazione ha rigettato il ricorso del Comune, che contestava la valutazione delle immissioni sonore e la quantificazione del danno. Gli Ermellini hanno ribadito che i limiti imposti dai regolamenti comunali sono solo indicativi e che le immissioni possono essere considerate intollerabili se superano la normale tollerabilità in una situazione concreta. Hanno inoltre sottolineato che anche il Comune, in quanto ente pubblico, è tenuto a rispettare il principio del neminem laedere, ossia a non causare danni ingiustificabili ai privati.

In sostanza, la sentenza afferma che il diritto dei cittadini alla quiete domestica prevale sull’interesse pubblico agli eventi culturali, se questi superano i limiti della tollerabilità del rumore. Il Comune è quindi obbligato sia a risarcire i danni subiti dai residenti, sia a ridurre le immissioni rumorose a una soglia accettabile.

*******************

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere
Dott. TASSONE Stefania – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere Rel.
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10834/2021 R.G. proposto da:
COMUNE ALBISSOLA MARINA, elettivamente domiciliato in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato SA.TE.
(c.f. Omissis; pec: …), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DE.IS. (c.f. Omissis; pec: …)

  • ricorrente –
    contro
    Br.Gr., Ma.Gi., domiciliati ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di
    CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato DU.SA. (c.f. Omissis; pec: …)
  • controricorrenti –
    avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO GENOVA n. 947/2020 depositata il 13/10/2020.
    Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/04/2024 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI.
    FATTI DI CAUSA
    1.- Il Comune di Albissola Marina organizza periodicamente, nel periodo estivo, manifestazioni culturali che
    si svolgono in (Omissis).
    Alcuni abitanti, residenti in quella piazza, hanno lamentato tuttavia che, sia per l’allestimento del palco che
    poi per lo svolgimento degli spettacoli, che si protraevano fino a tarda notte, si verificavano rumori che
    superavano la normale tollerabilità e che rendevano difficile il soggiorno pregiudicando il godimento
    dell’appartamento che costoro avevano destinato a loro residenza estiva.
    1.1 Ma.Gi. e Br.Gr., per l’appunto proprietari degli immobili insistenti su piazza (Omissis), hanno citato in
    giudizio il Comune di Albissola Marina per accertare che gli spettacoli producevano immissioni intollerabili e
    per ottenere la condanna del comune al risarcimento del danno.
    Il Tribunale ha effettuato una consulenza tecnica dalla quale è emerso che quei rumori superavano la soglia
    dei decibel consentiti, e dunque ha liquidato equitativamente la somma di 1.000 Euro ciascuno, oltre
    accessori, a ristoro del pregiudizio subito. Il Comune di Albissola ha impugnato questa decisione con appello
    principale, mentre i due attori hanno proposto appello incidentale relativamente all’ammontare del danno
    loro liquidato.
    1.2.- La Corte di appello di Genova ha rigettato l’appello principale ed ha accolto quello incidentale,
    riconoscendo ai due appellanti la somma di 3.000 Euro anziché quella di 1.000 Euro inizialmente liquidata.
    1.3- Questa sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione da parte del Comune di Albissola con due motivi.
    Per contro si sono costituiti Br.Gr. e Ma.Gi. per chiedere il rigetto del ricorso.
    RAGIONI DELLA DECISIONE
    2.-La Corte di appello ha confermato la decisione di primo grado. Nel corso del giudizio di primo grado
    infatti era stata espletata una consulenza tecnica, che aveva rilevato il rumore sia a finestre chiuse che a
    finestre aperte, e comunque in diverse ore del giorno, ed erano state altresì assunte prove testimoniali sulle
    immissioni rumorose e sull’attività che le produceva.
    La Corte di appello ha inoltre rigettato l’argomento del comune appellante in base al quale il CTU avrebbe
    fatto riferimento, per le misurazioni, al DPCM del 1997 relativo invece alle attività produttive, e che non
    poteva applicarsi alle manifestazioni culturali, quali erano quelle che il comune organizzava in quella piazza.
    A tale riguardo, la Corte di appello ha osservato che il Tribunale non ha fatto applicazione di quel DPCM,
    quanto piuttosto ha usato il metodo comparativo indicato dalla giurisprudenza secondo cui la tollerabilità va
    valutata caso per caso in relazione alle circostanze concrete.
    Ha inoltre osservato che l’interesse pubblico allo svolgimento degli spettacoli non poteva comportare il
    sacrificio del diritto del privato oltre il limite della tollerabilità.
    Infine, quanto al danno, la corte di merito ha ritenuto che quello non patrimoniale era stato provato per via
    presuntiva dalla impossibilità di utilizzare la casa per le vacanze, ed, in accoglimento dell’appello incidentale,
    ha rideterminato in 3.000 Euro l’ammontare del risarcimento sulla base della considerazione che quel
    risarcimento deve essere integrale e non limitato ai soli giorni di effettivo probabile utilizzo dell’immobile,
    ma deve tener conto della circostanza che l’immobile diventa per i ricorrenti inutilizzabile comunque.
    3.- Questa ratio è contestata con due motivi.
    Con il primo motivo si eccepisce l’illegittima applicazione del DPCM del 1997 e dell’articolo 844 del codice
    civile.
    Il motivo contiene due censure.
    Quanto alla prima censura, la tesi del ricorrente è che il CTU ha erroneamente preso a base delle sue
    valutazioni le immissioni considerate dal DPCM del 1997, senza tener conto però che tale provvedimento è
    relativo alle attività produttive, commerciali e professionali, tra le quali certamente non rientra lo
    svolgimento di manifestazioni culturali e di spettacoli.
    Secondo i ricorrenti l’eccezione non ha tenuto conto del regolamento delle attività rumorose adottato dallo
    stesso consiglio comunale nel 2004, che consente, nell’ipotesi, per l’appunto di manifestazioni e spettacoli
    all’aperto, di arrivare fino al limite di 70 decibel.
    La seconda censura attiene alla liquidazione del danno e mira a dire che erroneamente esso è stato
    liquidato equitativamente e ritenuto sussistente.
    Il motivo va disatteso. Quanto alla prima censura, le ragioni di infondatezza sono due: in generale, i limiti
    posti dai singoli regolamenti, compreso dunque quello richiamato dal comune, e dallo stesso comune
    approvato, sono puramente indicativi in quanto anche immissioni che rientrino in quei limiti possono
    considerarsi intollerabili nella situazione concreta, posto che la tollerabilità è, per l’appunto, da valutarsi
    tenendo conto dei luoghi, degli orari, delle caratteristiche della zona e delle abitudini degli abitanti (Cass.
    28201/ 2018), che è ciò che il consulente ha fatto.
    In secondo luogo, anche un ente pubblico è soggetto all’obbligo di non provocare immissioni rumorose ed
    “è responsabile dei danni conseguenti alla lesione dei diritti soggettivi dei privati, cagionata da immissioni
    provenienti da aree pubbliche, potendo conseguentemente essere condannata al risarcimento del danno,
    così come al “facere” necessario a ricondurre le dette immissioni al di sotto della soglia della normale
    tollerabilità, dal momento che tali domande non investono – di per sé – atti autoritativi e discrezionali, bensì
    un’attività materiale soggetta al richiamato principio del “neminem laedere”.” (Cass. 14209/ 2023, in caso
    analogo).
    La seconda censura, invece, è del tutto insufficiente a costituire motivo di ricorso: apoditticamente si
    contesta la prova e la stima del danno, senza indicare quali criteri legali siano stati in concreto violati ed in
    che termini lo siano stati.
    Il secondo motivo prospetta omesso esame di un fatto decisivo e controverso e rimprovera alla decisione
    impugnata di non aver tenuto in alcuna considerazione l’interesse pubblico allo svolgimento di tali
    manifestazioni: ove la Corte lo avesse fatto avrebbe potuto verificare che un tale interesse può costituire
    deroga al limite di tollerabilità delle emissioni. Il motivo è inammissibile.
    La Corte ha tenuto conto dell’interesse pubblico, ed ha correttamente osservato che non può giustificare il
    sacrificio del diritto del privato oltre la normale tollerabilità.
    Dunque, la questione è stata oggetto di esame. La circostanza secondo cui le immissioni sono state imposte
    dal perseguimento di un interesse pubblico è stata esaminata.
    Va da sé che l’apprezzamento circa la prevalenza dell’uno o dell’altro interesse, ossia l’apprezzamento circa
    la tollerabilità delle immissioni, soglia entro la quale e tutelato l’interesse pubblico, e rimessa al giudice di
    merito ed è incensurabile in cassazione.
    Il ricorso va dichiarato inammissibile, e le spese seguono la soccombenza.
    P.Q.M.
    La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, nella misura di 1600,00,
    oltre 200,00 Euro di esborsi, ed oltre spese generali.
    Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228
    del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
    importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello
    stesso articolo 13.
    Così deciso in Roma, il 12 aprile 2024.
    Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2024.
Condividi: