DIRITTO DEL LAVORO E PRIVACY: IL GARANTE INTERVIENE A TUTELA DEI LAVORATORI SULLA CONSERVAZIONE DEI METADATI DELLE E-MAIL E SULLA CRONOLOGIA INTERNET

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GPDP

Introduzione

La gestione e la conservazione dei metadati della posta elettronica in ambito lavorativo rappresentano uno dei temi più delicati nel diritto della protezione dei dati personali. Il Garante per la protezione dei dati personali, con il recente provvedimento n. 243 del 29 aprile 2025, ha affrontato nuovamente la questione, sancendo importanti principi che intrecciano la disciplina privacy (GDPR) con quella giuslavoristica, in particolare con l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno, da anni specializzato in tutela della privacy, data protection e controlli in ambito lavorativo, offre assistenza a enti pubblici e imprese per l’adeguamento alle linee guida del Garante e la gestione dei rapporti sindacali e ispettivi derivanti dall’utilizzo di strumenti informatici.


Il quadro normativo: dal 2007 al documento del 2024

Il Garante si era già espresso nel 2007 con le Linee guida per posta elettronica e Internet, che fissavano le prime indicazioni su navigazione e utilizzo degli strumenti informatici in azienda.

Successivamente, con il documento di indirizzo del 6 giugno 2024 (“Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati”), l’Autorità aveva stabilito che il termine massimo ordinario di conservazione dei metadati non dovesse superare i 21 giorni, salvo comprovate esigenze tecniche e di sicurezza.

Il provvedimento del 2025 segna però un passaggio ulteriore: per la prima volta, le indicazioni del documento di indirizzo diventano la base di un procedimento sanzionatorio.


Il caso: ente regionale e conservazione dei metadati

Dall’istruttoria del Garante sono emerse tre violazioni principali:

  1. Conservazione dei metadati della posta elettronica per 90 giorni senza accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato, sebbene successivamente l’ente vi abbia provveduto.
  2. Raccolta e conservazione sistematica della cronologia Internet dei dipendenti per un anno, con possibilità di ricostruzione delle attività individuali, anch’essa in assenza iniziale di accordo sindacale e valutazione d’impatto.
  3. Conservazione illimitata dei dati di assistenza tecnica, mantenuti dal 2016 fino alla cessazione del servizio, in contrasto con il principio di minimizzazione.

L’interpretazione del Garante: art. 4 Statuto dei Lavoratori e GDPR

Il nodo centrale riguarda l’applicazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori:

  • Comma 2: legittima trattamenti connessi a esigenze tecniche, organizzative e di sicurezza, senza necessità di accordo sindacale.
  • Comma 1: impone invece garanzie procedurali (accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato).

Il Garante ha ritenuto che la conservazione dei metadati per 90 giorni non potesse qualificarsi come trattamento strettamente necessario al funzionamento del sistema, bensì come attività rientrante nel comma 1, dunque soggetta ad accordo sindacale.

Per la cronologia Internet, la raccolta generalizzata dei log è stata qualificata come un vero e proprio controllo a distanza, soggetto anch’esso alle garanzie del comma 1.

Infine, sulla conservazione dei dati di assistenza tecnica, l’Autorità ha richiamato il principio di minimizzazione dei dati (art. 5 GDPR), affermando che le esigenze contrattuali avrebbero potuto essere soddisfatte senza mantenere dati personali identificativi.


Implicazioni pratiche per enti e imprese

Il provvedimento n. 243/2025 conferma che:

  • Il termine di 21 giorni per i metadati è lo standard di riferimento; ogni estensione richiede rigorosa prova tecnica.
  • La conservazione sistematica della cronologia Internet configura un controllo a distanza, quindi necessita di accordo sindacale o autorizzazione.
  • La data retention policy deve rispettare il principio di minimizzazione e accountability, evitando conservazioni illimitate.

Questo orientamento rafforza il legame tra disciplina privacy e normativa giuslavoristica, con impatti diretti sulle politiche HR e IT di enti e aziende.


Il ruolo dello Studio Legale Bonanni Saraceno

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno assiste enti pubblici e imprese in materia di:

  • redazione e revisione di accordi sindacali ex art. 4 Statuto dei Lavoratori;
  • valutazioni d’impatto privacy (DPIA) su strumenti informatici aziendali;
  • policy di retention dei dati e compliance al GDPR;
  • difesa nei procedimenti sanzionatori dinanzi al Garante Privacy.

L’approccio dello Studio si fonda su un costante aggiornamento giurisprudenziale e regolamentare, per garantire soluzioni personalizzate e conformi ai più recenti orientamenti dell’Autorità.


Conclusioni

Il provvedimento del Garante del 29 aprile 2025 rappresenta un punto di svolta: per la prima volta le indicazioni orientative del 2024 vengono tradotte in una sanzione effettiva, destinata a incidere sulle pratiche organizzative di enti e imprese.

La gestione di metadati e cronologia Internet non è più soltanto un tema tecnico, ma un ambito dove si intrecciano privacy, diritto del lavoro e compliance aziendale.

Per evitare sanzioni e conflitti con i sindacati o l’Ispettorato, diventa essenziale affidarsi a professionisti specializzati come lo Studio Legale Bonanni Saraceno, che offre consulenza strategica e difesa legale nelle questioni di protezione dei dati personali in ambito lavorativo.

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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO
Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma

Tel+39 0673000227

Cell. +39 3469637341

@: avv.bonanni.saraceno@gmail.com

@: info@versoilfuturo.org

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DIRITTO DIGITALE EUROPEO: ENFORCEMENT DIGITALE NELL’EU TRA GDPR, DSA E AI ACT PER UNA GOVERNANCE EFFICACE

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General Data Protection Regulation (GDPR) – Digital Services Act (DSA) – Artificial Intelligence Act (AI Act)

Negli ultimi anni l’Unione Europea ha adottato un insieme di atti normativi strategici nel settore digitale, che segnano un cambio di paradigma nella regolazione delle tecnologie:

  • il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR);
  • il Digital Services Act (DSA);
  • l’Artificial Intelligence Act (AI Act).

Queste norme hanno rafforzato i diritti dei cittadini online e, al tempo stesso, ampliato i poteri delle autorità pubbliche in materia di vigilanza e controllo. Tuttavia, mentre l’attenzione politica e accademica si è concentrata prevalentemente sul contenuto delle nuove disposizioni, meno spazio è stato dedicato al tema centrale dell’enforcement, ossia alle modalità concrete con cui queste regole trovano applicazione.


Enforcement frammentato: il cuore del problema

Il sistema regolatorio europeo del digitale presenta oggi un mosaico complesso e frammentato.
Le piattaforme online si trovano a operare in un contesto in cui si intrecciano:

  • obblighi di moderazione dei contenuti (DSA);
  • regole sulla profilazione e tutela della privacy (GDPR);
  • norme sull’intelligenza artificiale (AI Act);
  • disposizioni settoriali su comunicazione audiovisiva, cybersicurezza e concorrenza.

Ne deriva che un singolo comportamento di una piattaforma può rientrare simultaneamente nell’ambito applicativo di più normative, richiamando competenze di autorità diverse.


Moltiplicazione delle autorità: tra sovrapposizione e conflitti di competenza

L’architettura europea prevede un enforcement distribuito tra:

  • la Commissione europea;
  • le autorità nazionali garanti della privacy;
  • le autorità di regolazione dei media;
  • le autorità antitrust;
  • le agenzie nazionali ed europee per la cybersicurezza.

Questa moltiplicazione istituzionale, pur teoricamente arricchente, genera rischi di disallineamento decisionale e di conflitti di competenza.

Un esempio significativo è rappresentato dal caso Meta Platforms, in cui la Corte di giustizia dell’Unione europea è intervenuta per chiarire i rapporti tra autorità antitrust e autorità per la protezione dei dati personali.


Frammentazione orizzontale e verticale

La frammentazione si sviluppa:

  • orizzontalmente, tra autorità con competenze parallele (ad es. Garante Privacy, AGCOM e Antitrust in Italia);
  • verticalmente, nei rapporti tra istituzioni europee e autorità nazionali.

Nei casi transfrontalieri, la situazione si complica ulteriormente: interpretazioni divergenti tra Stati membri aumentano l’incertezza giuridica per imprese e cittadini.


Governance digitale europea: rischi e prospettive

L’Unione Europea ha costruito una solida impalcatura normativa che mira a tutelare diritti fondamentali, concorrenza leale e valori democratici nello spazio digitale. Tuttavia, senza un rafforzamento del coordinamento tra autorità, questa architettura rischia di trasformarsi in una struttura incompiuta.

Non è tanto la semplificazione normativa a rappresentare la priorità, quanto piuttosto la definizione di meccanismi efficaci di cooperazione e coordinamento istituzionale. Solo così sarà possibile garantire certezza del diritto e coerenza applicativa, elementi imprescindibili per imprese, utenti e investitori.


L’approccio dello Studio Legale Bonanni Saraceno

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno vanta un’esperienza consolidata nella gestione di questioni complesse che si collocano all’intersezione tra diritto europeo, diritto digitale e diritto della concorrenza.

Grazie a una solida preparazione in materia di:

  • protezione dei dati personali (GDPR);
  • responsabilità delle piattaforme digitali (DSA);
  • regolazione dell’intelligenza artificiale (AI Act);
  • profili antitrust e di cybersicurezza,

lo Studio è in grado di fornire consulenza altamente specializzata sia alle imprese che ai soggetti istituzionali coinvolti nei procedimenti di enforcement.

La nostra metodologia integra:

  • analisi sistematica del quadro normativo europeo e nazionale;
  • valutazione dei rischi di conflitto di competenza;
  • strategie di compliance multilivello volte a ridurre l’incertezza derivante dalla frammentazione regolatoria.

Conclusioni

Il futuro della governance digitale europea dipenderà dalla capacità di superare le attuali criticità dell’enforcement.

In questo scenario, rivolgersi a professionisti con competenze interdisciplinari come lo Studio Legale Bonanni Saraceno significa poter affrontare con strumenti concreti le sfide poste dall’evoluzione normativa europea.

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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

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NUOVI DANNI NON PATRIMONIALI: LA NEUROTECNOLOGIA, LA NEUROMARKETING E LA NEUROPOLITICA MINANO LA SALUTE PSICHICA, I DIRITTI UMANI E LA LIBERTÀ DI SCELTA

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Introduzione

Lo sviluppo delle neurotecnologie e delle interfacce cervello-computer (BCI) apre scenari inediti sul piano scientifico, economico e soprattutto giuridico. Se da un lato queste innovazioni promettono applicazioni rivoluzionarie in ambito medico e tecnologico, dall’altro pongono interrogativi cruciali sulla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, in particolare sulla libertà di pensiero, sull’autonomia decisionale e sull’integrità mentale.

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno si occupa di questi temi di frontiera, offrendo assistenza giuridica e consulenza specialistica nei casi in cui le nuove tecnologie rischiano di compromettere le libertà civili e i diritti umani.

Neurotecnologie e rischio per il libero arbitrio

Le interfacce cervello-computer, un mercato che negli Stati Uniti ha già superato i 400 miliardi di dollari (dati PatentVest), consentono di decodificare impulsi neurali e trasformarli in informazioni digitali.

Secondo le Nazioni Unite, tali strumenti possono “danneggiare o interrompere il delicato equilibrio della psiche umana”.

La questione è evidente: se i pensieri costituiscono il nucleo dell’identità personale, la possibilità di leggerli, modificarli o sfruttarli a fini commerciali e politici comporta un rischio diretto per la dignità e la libertà dell’individuo.

Neuromarketing e neuropolitica: il nuovo terreno del conflitto giuridico

Il neuromarketing utilizza tecniche neuroscientifiche come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o l’elettroencefalografia (EEG) per analizzare le reazioni cerebrali dei consumatori. Queste informazioni vengono poi sfruttate per influenzare decisioni d’acquisto a livello inconscio.

La stessa logica è stata traslata in ambito politico, dando vita alla cosiddetta neuropolitica. Nel 2015, un partito messicano fu accusato di aver manipolato elettori tramite un cartellone digitale che adattava i messaggi in tempo reale sulla base delle reazioni emotive dei passanti, registrate da una telecamera nascosta.

Si tratta di una delle prime vicende giudiziarie in cui la manipolazione neurologica del consenso politico è approdata in tribunale.

Neurodiritti e quadro normativo

La comunità scientifica e giuridica è divisa tra due approcci:

Estensione delle norme esistenti: alcuni autori ritengono che la tutela della libertà di pensiero (già riconosciuta da convenzioni internazionali come la CEDU e il Patto sui diritti civili e politici) sia sufficiente a ricomprendere anche i rischi posti dalle neurotecnologie. Nuovi diritti fondamentali: altri sostengono la necessità di introdurre specifici neurodiritti, come il diritto all’integrità mentale e alla libertà cognitiva, comprendente la privacy mentale, la libertà di pensiero e l’autodeterminazione cognitiva (cfr. Lavazza; Farahany).

Il recente rapporto ONU sulle neurotecnologie invita gli Stati a sviluppare strumenti di soft law, capaci di armonizzare la regolamentazione e prevenire abusi da parte sia dei governi sia delle multinazionali tecnologiche.

Le implicazioni giuridiche: la prospettiva dello Studio Legale Bonanni Saraceno

La mancanza di una disciplina unitaria lascia ampi spazi di contenzioso. Gli avvocati, in questo contesto, hanno il compito di:

tutelare la privacy cognitiva degli individui contro l’uso improprio di dati neurali da parte di aziende e partiti politici; denunciare pratiche di manipolazione occulta, fondate su tecniche neuroscientifiche, che minano l’autonomia dell’elettore o del consumatore; promuovere azioni legali innovative basate sul diritto all’autodeterminazione, sulla protezione dei dati sensibili e sull’estensione della nozione di “libertà di pensiero” a contesti tecnologici inediti.

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno segue con attenzione l’evoluzione giurisprudenziale e normativa in materia di neurodiritti, consapevole che il futuro delle democrazie e della libertà individuale passa anche da qui.

Conclusioni

Le neurotecnologie, se non adeguatamente regolamentate, rischiano di trasformarsi da strumenti di progresso a mezzi di condizionamento e manipolazione di massa.

Il diritto è chiamato a fornire risposte concrete a queste sfide, coniugando innovazione tecnologica e tutela dei diritti fondamentali.

Lo Studio Legale Bonanni Saraceno è in prima linea nello studio e nella difesa giuridica contro i rischi del neuromarketing e della neuropolitica, offrendo assistenza legale a cittadini, imprese e istituzioni che si trovino coinvolti in questa nuova frontiera del diritto.

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GIUSTIZIA DIGITALE E IA: PERICOLO DI SQUILIBRIO TRA EFFICIENZA GIUDIZIARIA E GARANZIE COSTITUZIONALI (ART. 24 COST.)

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Regolamento UE sull’IA (AI Act)

Introduzione: il processo di digitalizzazione dei sistemi giudiziari

La digitalizzazione della giustizia è ormai una realtà in continua evoluzione. Secondo un rapporto della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ), le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) rappresentano uno strumento strategico nei sistemi giudiziari moderni. Esse si applicano principalmente a tre ambiti fondamentali:

automazione delle attività ripetitive (elaborazione dei documenti, pianificazione delle udienze, gestione delle notifiche); riorganizzazione e gestione dei procedimenti, con strumenti di case management e monitoraggio delle prestazioni; capacità generative, che consentono di ottimizzare risorse e tempi.

La spinta verso la giustizia digitale è evidente non solo in Europa, ma anche a livello globale: basti pensare all’introduzione di Microsoft AI Copilot nei tribunali del Regno Unito e alle iniziative comunitarie come la Strategia Digitale dell’UE e il Next Generation EU, che promuovono la modernizzazione delle giurisdizioni nazionali. Anche l’Italia sta adottando piani ambiziosi per rinnovare l’infrastruttura digitale dei tribunali.

Tuttavia, accanto a questo entusiasmo emergono questioni cruciali legate alla tutela dei diritti fondamentali e alla compatibilità tra giustizia digitale e garanzie costituzionali.

Il ruolo dell’intelligenza artificiale nella giustizia

A fianco delle TIC tradizionali, l’intelligenza artificiale (IA) sta entrando con forza nei sistemi giudiziari. Gli algoritmi e le tecnologie di AI generativa vengono già sperimentati in diversi contesti: dalla valutazione del rischio di recidiva, al calcolo degli indennizzi, fino al supporto all’attività giudiziale.

Caso ipotetico: uno scenario problematico

Si immagini che un comune cittadino venga licenziato ingiustamente e ricorre al giudice del lavoro. La decisione del tribunale riconosce un risarcimento, ma l’importo è stato determinato da un algoritmo integrato nella procedura giudiziaria.

Il suddetto cittadino intende impugnare la decisione, ma si trova di fronte a tre ostacoli principali:

– torbidità algoritmica: non ha accesso ai criteri e ai dati utilizzati dall’IA;

oneri di accertamento: dovrebbe incaricare esperti per analizzare il funzionamento dell’algoritmo;

autonomia giudiziaria condizionabile: i giudici sono incentivati ad affidarsi agli strumenti digitali per ridurre l’arretrato giudiziario.

Questo quadro mostra come l’uso di algoritmi opachi possa compromettere l’effettività del diritto di difesa e la possibilità di un ricorso effettivo, pilastri della tutela giurisdizionale sancita dall’art. 24 Cost. e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

La sfida della trasparenza algoritmica

Il nodo centrale è l’assenza di spiegabilità delle decisioni algoritmiche. Senza conoscere i criteri adottati, il cittadino non può contestare la correttezza né l’imparzialità del risultato. Questo fenomeno, noto come black box effect, mina la fiducia nel sistema giudiziario e pone interrogativi sulla stessa indipendenza del giudice, potenzialmente vincolato alle logiche di un sistema automatizzato.

Il Regolamento europeo sull’Intelligenza Artificiale

Un elemento normativo decisivo è il Regolamento UE sull’IA (AI Act), che introduce un modello di governance basato sul rischio dei sistemi di intelligenza artificiale:

alto rischio: sistemi soggetti a rigorosi requisiti di trasparenza e controllo; medio-basso rischio: requisiti più limitati.

L’IA applicata al settore giudiziario si colloca in una categoria intermedia, generando dubbi interpretativi. Se il sistema utilizzato dal giudice non rientra tra quelli ad alto rischio, il cittadino potrebbe non avere diritto a una spiegazione ai sensi dell’art. 86 AI Act.

Ciò rischia di ampliare il divario tra esigenze di efficienza e diritti di difesa, incidendo sull’effettività delle garanzie giurisdizionali.

Opportunità e rischi della giustizia digitale

La giustizia digitale presenta indubbi vantaggi: riduzione dei tempi processuali, ottimizzazione delle risorse e accesso più rapido alle informazioni. Tuttavia, senza un adeguato quadro di garanzie, si rischia di sacrificare la centralità della persona e i principi fondamentali dello Stato di diritto.

Punti di forza

maggiore efficienza; riduzione dell’arretrato giudiziario; strumenti di supporto per giudici e avvocati.

Punti critici

rischio di bias e discriminazioni; opacità dei processi decisionali; limitazione della discrezionalità giudiziaria; difficoltà di impugnazione delle decisioni algoritmiche.

Conclusioni: verso una giustizia artificiale responsabile

La storia ipotetica succitata, pur essendo fittizia, rivela i dilemmi concreti che l’algoritmizzazione della giustizia porta con sé. L’uso dell’IA nei tribunali non può essere considerato solo un progresso tecnologico, ma va analizzato come un cambiamento strutturale del diritto processuale e delle garanzie fondamentali.

Per evitare derive distopiche, occorre assicurare:

trasparenza algoritmica, con accesso ai criteri decisionali; controllabilità tecnica, attraverso audit indipendenti; preservazione della discrezionalità giudiziaria, per evitare una giustizia automatizzata priva di umanità.

La giustizia digitale deve essere concepita come uno strumento al servizio dei diritti, non come un ostacolo alla loro tutela. Solo un approccio prudente, bilanciato e giuridicamente consapevole potrà garantire che l’intelligenza artificiale nella giustizia rappresenti davvero un’opportunità e non un pericolo.

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MODELLO 231 E LA COMPLIANCE ALGORITMICA: RESPONSABILITÀ PENALE DELL’ENTE PERCHÉ L’ALGORITMO NON DELINQUE, MA PUÒ FAR DELINQUERE

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Modello 231 – “AI Governance Protocol”

1. Introduzione: AI, diritto penale e responsabilità 231

L’intelligenza artificiale (IA) non è soggetto di diritto e, in quanto tale, non può essere considerata penalmente responsabile. Tuttavia, le condotte poste in essere tramite algoritmi e sistemi di AI possono integrare fattispecie di reato e, soprattutto, determinare la responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001.

La questione centrale non è se “l’algoritmo possa delinquere”, ma come l’impiego dell’IA da parte di società e organizzazioni possa configurare condotte penalmente rilevanti, generando rischi che – se non governati – si traducono in colpa di organizzazione.

2. L’immedesimazione organica rafforzata e i reati-strumento dell’IA

Quando un reato viene commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da un soggetto apicale o subordinato, opera il meccanismo dell’immedesimazione organica “rafforzata”.

In tale prospettiva, l’ente risponde non tanto perché “colpevole in sé”, ma per non aver predisposto strumenti idonei a prevedere, prevenire o contenere i rischi connessi all’uso di tecnologie avanzate.

Esempi di possibili reati-strumento commessi tramite algoritmi includono:

reati societari e finanziari: generazione automatica di bilanci falsi, manipolazioni di mercato (pump and dump, wash trading); reati contro la pubblica amministrazione: automatizzazione di pratiche mendaci e richieste fraudolente; reati ambientali: alterazione di dati sulle emissioni; reati in materia di sicurezza sul lavoro: incidenti derivanti da robot industriali “intelligenti” ma mal programmati.

Il punto critico è che tali condotte possono risultare più rapide, pervasive e difficili da intercettare rispetto a quelle commesse da un soggetto umano.

3. I protocolli 231 e la nascita degli “AI Governance Protocol”

L’art. 6, comma 2, lett. b), del d.lgs. 231/2001 impone l’adozione di protocolli diretti a programmare e attuare decisioni aziendali in relazione ai reati da prevenire.

Con l’avvento dell’IA, emerge la necessità di una nuova declinazione: gli “AI Governance Protocol”, che dovranno integrare principi etici, cautele tecnologiche e presidi organizzativi.

Tra gli strumenti essenziali si segnalano:

registri degli algoritmi e tracciabilità delle decisioni automatizzate; audit tecnici periodici e mappature del rischio tecnologico; sistemi di alert automatici per anomalie operative; separazione di funzioni tra sviluppatori e controllori; controllo ex post sulle decisioni algoritmiche.

Questi presidi, se inseriti nei Modelli 231, possono costituire esimenti o attenuanti in caso di contestazione.

4. Le novità normative: dal disegno di legge nazionale all’AI Act europeo

Il legislatore italiano e quello europeo stanno accelerando la regolamentazione dell’intelligenza artificiale.

Disegno di legge italiano (2025): approvato dal Senato il 20 marzo 2025 e modificato dalla Camera il 25 giugno 2025, introduce: aggravanti specifiche per reati commessi tramite AI (es. aggiotaggio e manipolazione del mercato); nuove fattispecie, come la diffusione di contenuti deepfake (art. 613-quater c.p.); incriminazione dello scraping abusivo e del data mining illecito. AI Act europeo: già parzialmente in vigore, vieta pratiche ad alto rischio (es. social scoring, sorveglianza biometrica in tempo reale) e impone obblighi stringenti alle imprese che adottano sistemi di AI ad alto impatto. Le sanzioni previste sono particolarmente severe, con l’obiettivo di armonizzare la governance tecnologica nel mercato unico.

5. Colpa di organizzazione e barriere culturali

Se l’ente ignora i rischi, delega senza controlli o si limita ad adottare protocolli formali privi di effettività, si configura la colpa di organizzazione.

Prevenire significa dunque programmare, non solo in senso tecnico ma anche culturale.

Le imprese dovranno adottare:

formazione continua per personale e management; audit multidisciplinari congiunti tra compliance, IT e risk management; dialogo costante tra organi di controllo e top management; criteri rigorosi di selezione per collegi sindacali e organismi di vigilanza.

In definitiva, non è l’algoritmo a delinquere, ma l’ente che lo sceglie e lo utilizza senza adeguati presidi.

6. Conclusioni: verso una responsabilità penale “algoritmica” degli enti

Il binomio AI e responsabilità penale degli enti rappresenta una delle sfide più delicate del diritto contemporaneo.

Se da un lato l’IA può potenziare l’efficienza delle organizzazioni, dall’altro espone a rischi penalmente rilevanti che impongono un ripensamento dei Modelli 231 e un’integrazione di protocolli tecnologici avanzati.

La compliance algoritmica non è più una scelta facoltativa, ma un obbligo strategico e giuridico: solo anticipando i rischi e governando la complessità tecnologica le imprese potranno evitare di trasformare l’innovazione in responsabilità penale.

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Lo Studio Legale Bonanni Saraceno è specializzato nell’implementazione dei Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo (Modelli 231) con particolare riferimento alla responsabilità legata all’intelligenza artificiale. Forte di una consolidata esperienza in diritto penale dell’economia e compliance, lo studio supporta le imprese nella definizione di protocolli innovativi e integrati, quali i “AI Governance Protocol”, indispensabili per la gestione del rischio tecnologico e l’adeguamento alla normativa nazionale ed europea. Pertanto, per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

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DIRITTO PENALE TRIBUTARIO: CONFISCA DIRETTA (SE OBBLIGATORIA) ANCHE DOPO LA PRESCRIZIONE DEL REATO, SE VI È STATA UNA CONDANNA IN PRIMO GRADO

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Art. 12-bis D.Lgs. 74/2000

1. Introduzione

La sentenza n. 29372/2025 della Corte di Cassazione affronta un tema centrale nel diritto penale patrimoniale: la possibilità di disporre la confisca diretta anche dopo l’estinzione del reato per prescrizione, in presenza di una precedente condanna di primo grado e qualora si tratti di una confisca obbligatoria.

Il caso si colloca nell’ambito del diritto penale tributario, in particolare in riferimento all’art. 12-bis del D.Lgs. 74/2000, che disciplina la confisca del profitto o del prezzo del reato nei delitti tributari.

2. La natura giuridica della confisca diretta

La Corte ribadisce un principio ormai consolidato: la confisca diretta del profitto del reato costituisce misura di sicurezza patrimoniale e non pena accessoria.

Questa qualificazione giuridica è determinante per due motivi:

Sottrae la confisca alla regola dell’estinzione delle pene conseguente alla prescrizione. Ne consente l’applicazione anche in assenza di condanna definitiva, purché vi sia stata almeno una sentenza di primo grado che abbia accertato la sussistenza del reato e la natura obbligatoria della confisca.

3. Il quadro normativo di riferimento

Art. 12-bis D.Lgs. 74/2000: prevede la confisca obbligatoria del prezzo o del profitto dei reati tributari, o, in caso di impossibilità, la confisca per equivalente. Art. 240 c.p.: disciplina la confisca come misura di sicurezza. Art. 578-bis c.p.p.: introdotto dalla L. 103/2017, consente di decidere sulle confische obbligatorie anche in caso di estinzione del reato per prescrizione o amnistia.

4. Il principio affermato dalla Cassazione n. 29372/2025

La Suprema Corte ha affermato che:

“La confisca diretta, qualificabile come misura di sicurezza patrimoniale, può essere applicata anche in caso di prescrizione del reato, qualora sia intervenuta condanna in primo grado e si verta in ipotesi di confisca obbligatoria, come quella prevista dall’art. 12-bis del D.Lgs. 74/2000.”

Questo significa che la prescrizione non impedisce allo Stato di acquisire i beni costituenti il prezzo o il profitto del reato, se l’obbligatorietà della misura è espressamente prevista dalla legge.

5. Implicazioni pratiche nel diritto penale tributario

La decisione ha rilevanti ricadute operative:

Per la difesa: la strategia di puntare alla prescrizione per evitare la perdita patrimoniale risulta inefficace nei casi di confisca obbligatoria. Per l’accusa: la pronuncia rafforza l’azione confiscatoria anche in presenza di tempi processuali prolungati. Per il contribuente-imputato: l’esito del processo può determinare la perdita definitiva di beni o somme di denaro anche in assenza di condanna definitiva.

6. Considerazioni dottrinali

La sentenza si inserisce nel solco di un orientamento che distingue nettamente la funzione preventiva della confisca diretta dalla funzione retributiva della pena.

Dottrina e giurisprudenza maggioritarie concordano nel ritenere che la confisca obbligatoria, in quanto misura di sicurezza, non è soggetta alle garanzie proprie della pena e può sopravvivere all’estinzione del reato. Tuttavia, non manca un dibattito critico sul possibile conflitto con il principio di proporzionalità e con l’art. 7 CEDU, che vieta l’applicazione di misure sostanzialmente punitive senza condanna definitiva.

7. Conclusioni

La Cassazione n. 29372/2025 conferma un principio di particolare importanza:

la confisca diretta obbligatoria è applicabile anche dopo la prescrizione, a condizione che vi sia stata una condanna in primo grado.

Per gli operatori del diritto penale tributario, ciò implica che la prescrizione non rappresenta uno strumento di protezione del patrimonio in presenza di beni direttamente collegati al profitto o al prezzo del reato.

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Foto

Cassazione Penale, sentenza n. 29372/2025 integrale, in versione pdf:

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DIRITTO DEGLI APPALTI PUBBLICI: PER IL TRIB. DI NAPOLI NORD È NULLA LA CLAUSOLA CHE IMPONE ALL’AGGIUDICATARIO I COSTI DEI SERVIZI DI COMMITTENZA

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Tribunale di Napoli Nord

1. Premessa

Con la sentenza del 13 giugno 2025, n. 2281, il Tribunale di Napoli Nord ha affermato la nullità della clausola contrattuale che pone a carico dell’impresa aggiudicataria di un appalto i costi relativi ai servizi di committenza.

La pronuncia riveste particolare rilevanza nel settore dei contratti pubblici, in quanto conferma il divieto di trasferire tali oneri all’operatore economico in assenza di una base legale espressa, in ossequio al principio di legalità delle prestazioni patrimoniali sancito dall’art. 23 della Costituzione.

2. Il contesto fattuale

Una centrale di committenza aveva emesso ingiunzione di pagamento nei confronti dell’impresa aggiudicataria di una gara, chiedendo il 1,5% dell’importo di aggiudicazione quale corrispettivo per l’utilizzo della piattaforma telematica.

Il fondamento della richiesta era un atto unilaterale d’obbligo sottoscritto dall’impresa, che prevedeva espressamente tale impegno economico.

L’aggiudicataria si è opposta, contestando l’illegittimità della clausola poiché costituiva una prestazione patrimoniale imposta priva di copertura normativa.

3. La questione giuridica

Il nucleo della controversia risiede nella legittimità della traslazione dei costi dei servizi di committenza dall’amministrazione aggiudicatrice all’operatore economico vincitore della gara.

Il Tribunale ha dovuto stabilire se tale previsione fosse compatibile:

con l’art. 23 Cost. (riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali); con il principio di tassatività delle cause di esclusione e degli oneri a carico dei concorrenti; con il divieto espresso previsto dall’art. 41, comma 2-bis, D.Lgs. 50/2016 (oggi art. 25, comma 4, D.Lgs. 36/2023).

4. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento

La normativa sugli appalti pubblici prevede espressamente alcuni oneri a carico dell’aggiudicatario (ad es. spese di pubblicazione del bando, diritti di segreteria, imposte di registro – art. 16-bis R.D. 2440/1923).

Tuttavia, nessuna disposizione autorizza la centrale di committenza a riversare sui concorrenti o sull’aggiudicatario le spese di gestione della piattaforma telematica.

Sul punto, si registrano orientamenti conformi:

Cons. Stato, Sez. V, 3 novembre 2020, n. 6787: divieto di addebitare i costi delle piattaforme telematiche agli operatori; Cons. Stato, Sez. V, 6 maggio 2021, n. 3538: il divieto vale anche nei confronti dell’aggiudicatario; TAR Lombardia, 3 febbraio 2020, n. 240: la clausola è nulla per violazione della riserva di legge; ANAC, Flash news 31 marzo 2023: conferma dell’interpretazione restrittiva.

5. La decisione del Tribunale di Napoli Nord

Il Tribunale ha accolto l’opposizione dell’impresa, ritenendo la clausola nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c..

Secondo il giudice, l’atto unilaterale che impone un corrispettivo percentuale dell’1,5% sul valore dell’appalto per i servizi di committenza:

non trova base legale nell’ordinamento; viola l’art. 23 Cost., in quanto impone una prestazione patrimoniale senza legge; contrasta con l’art. 25, comma 4, D.Lgs. 36/2023 (già art. 41, comma 2-bis, D.Lgs. 50/2016); incide sulla libertà imprenditoriale dell’operatore, alterando la formulazione dell’offerta tecnica ed economica.

6. Rilievi e impatti applicativi

La sentenza ha un impatto pratico rilevante:

per le stazioni appaltanti: ribadisce che i costi di gestione delle piattaforme telematiche devono restare a carico dell’amministrazione; per gli operatori economici: rafforza la possibilità di contestare clausole che riversano oneri non previsti dalla legge; per il contenzioso sugli appalti: offre un precedente utile per opposizioni a decreti ingiuntivi e ricorsi in materia di contratti pubblici.

7. Conclusioni

La pronuncia del Tribunale di Napoli Nord n. 2281/2025 si inserisce in un consolidato orientamento volto a tutelare la legalità delle prestazioni patrimoniali e il principio di tassatività degli oneri negli appalti pubblici.

La clausola che impone all’aggiudicatario di sostenere i costi dei servizi di committenza è nulla, non solo per violazione di norme costituzionali e legislative, ma anche per il suo potenziale impatto distorsivo sulla concorrenza e sull’equilibrio del rapporto contrattuale.

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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

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Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma

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REATI AMBIENTALI: LA CASS. PENALE CONFERMA L’AUTONOMIA DI REATO DELLA COMBUSTIONE ILLECITA DI RIFIUTI PERICOLOSI

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1. Introduzione

La Corte di Cassazione penale, Sezione III, con la sentenza n. 29222 del 2025, ha affrontato un tema di particolare rilievo nel diritto penale ambientale: la qualificazione giuridica della combustione illecita di rifiuti pericolosi. La Suprema Corte ha precisato che, in tali casi, non trova applicazione una semplice aggravante della fattispecie generale di combustione illecita di rifiuti, bensì si configura un autonomo titolo di reato previsto dalla normativa vigente.

2. Il quadro normativo di riferimento

La disciplina di riferimento è contenuta nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Testo Unico Ambientale), in particolare nell’art. 256-bis, introdotto dal D.L. 10 dicembre 2013, n. 136 (convertito con modificazioni dalla L. 6 febbraio 2014, n. 6), che punisce la combustione illecita di rifiuti.

Il legislatore distingue:

la fattispecie base (comma 1), che riguarda rifiuti non pericolosi; la fattispecie relativa ai rifiuti pericolosi (comma 2), con un autonomo apparato sanzionatorio.

Tale distinzione non è di mero rilievo quantitativo, ma incide sulla struttura stessa del reato.

3. Il caso concreto

Nel giudizio oggetto della sentenza, l’imputato era stato condannato per combustione illecita di rifiuti, con contestazione riferita a rifiuti pericolosi.

Il ricorrente sosteneva che la previsione per i rifiuti pericolosi avesse natura di circostanza aggravante e non di fattispecie autonoma, con conseguente applicabilità del regime di bilanciamento delle circostanze di cui all’69 c.p.

4. La decisione della Corte di Cassazione

La Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che:

La previsione dell’art. 256-bis, comma 2, T.U.A. configura un autonomo reato, distinto dalla fattispecie base; Non si tratta di un’aggravante ma di una norma incriminatrice speciale, destinata a reprimere una condotta più grave per natura dell’oggetto materiale (rifiuti pericolosi); La ratio è la maggiore offensività insita nella combustione di sostanze pericolose per la salute e l’ambiente.

La Suprema Corte ha richiamato precedenti conformi, ribadendo che il reato di cui al comma 2 si perfeziona in presenza di condotte aventi ad oggetto rifiuti classificati come pericolosi ai sensi della normativa europea e nazionale.

5. Conseguenze pratiche della qualificazione

La qualificazione della fattispecie come reato autonomo comporta rilevanti effetti:

Esclusione del bilanciamento tra circostanze ex art. 69 c.p., non essendo presente una circostanza aggravante ma una fattispecie speciale; Applicazione diretta delle pene previste dal comma 2 dell’art. 256-bis T.U.A., più elevate rispetto a quelle della fattispecie base; Impatto sul termine di prescrizione, calcolato in base alla cornice edittale della fattispecie autonoma.

6. Considerazioni conclusive

La sentenza n. 29222/2025 conferma l’orientamento rigoroso della Cassazione in materia di tutela penale dell’ambiente, valorizzando la differenza strutturale tra:

Combustione illecita di rifiuti ordinari (reato base); Combustione illecita di rifiuti pericolosi (reato autonomo).

Dal punto di vista operativo, la distinzione rafforza l’efficacia deterrente della normativa ambientale, evitando che la pericolosità intrinseca di certe sostanze venga attenuata dal regime delle aggravanti.

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Corte di Cassazione penale, Sezione III, con la sentenza n. 29222/2025 integrale, in formato pdf:

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DIRITTO DEL LAVORO: LA NUOVA LEGGE N. 106/2025 TUTELA IL LAVORATORE TRA CONGEDO STRAORDINARIO E PERMESSI RETRIBUITI

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1. Introduzione

Con la Legge 18 luglio 2025, n. 106, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 25 luglio 2025 ed entrante in vigore il 9 agosto 2025, il legislatore italiano ha compiuto un passo decisivo nella tutela dei lavoratori affetti da malattie oncologiche, invalidanti o croniche, introducendo strumenti innovativi e strutturati a sostegno della continuità occupazionale e dell’accesso alle cure.

Due i principali capisaldi normativi:

Prolungamento della conservazione del posto di lavoro tramite un congedo straordinario di 24 mesi; Attribuzione di permessi retribuiti per cure, esami e terapie a partire dal 1° gennaio 2026.

Si tratta di un intervento organico e sistematico, che rafforza l’orientamento giurisprudenziale più recente e colma le lacune lasciate dalla contrattazione collettiva in tema di malattie gravi e diritto alla conservazione del posto.

2. La disciplina del periodo di comporto e le novità legislative

2.1 Il quadro previgente

L’art. 2110 c.c. stabilisce il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro per un periodo determinato in caso di malattia: è il cosiddetto periodo di comporto, la cui durata e modalità di computo sono definite dalla contrattazione collettiva (comporto secco o per sommatoria).

Terminato tale periodo, il datore può recedere dal contratto ai sensi dell’art. 2118 c.c., nel rispetto del preavviso.

Tuttavia, la giurisprudenza recente (cfr. Trib. Roma, 2 gennaio 2023, n. 9384; Corte App. Napoli, n. 168/2023) ha progressivamente valorizzato il principio di non discriminazione e di protezione del lavoratore fragile, ritenendo non computabili nel comporto le assenze legate a patologie gravi e invalidanti, in virtù del diritto alla salute ex art. 32 Cost.

2.2 La novità della Legge 106/2025: il congedo per malattia grave

Con l’art. 1 della Legge 106/2025 viene introdotto un nuovo congedo straordinario per:

lavoratori affetti da malattie oncologiche, o da patologie croniche o invalidanti (anche rare) con invalidità pari o superiore al 74%.

Tale congedo:

non è retribuito, ma assicura la conservazione del posto di lavoro per un massimo di 24 mesi, fruibili anche in modo frazionato; è aggiuntivo rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi; può essere fruito solo dopo l’esaurimento degli altri periodi di assenza giustificata spettanti; è compatibile con altri benefici economici o giuridici spettanti al lavoratore; non è computabile nell’anzianità di servizio né ai fini previdenziali, ma è riscattabile ai fini pensionistici secondo la disciplina vigente in materia di prosecuzione volontaria.

Aspetto innovativo: la fruizione del congedo non richiede necessariamente l’esistenza di uno stato di malattia in atto, ma solo il riconoscimento formale dello status di patologia grave.

3. Certificazione e modalità di fruizione

La certificazione medica deve essere rilasciata da un medico di medicina generale o specialista operante in struttura pubblica o accreditata, e viene indirizzata al medico competente aziendale, nel rispetto della riservatezza dei dati sanitari.

È espressamente previsto che il congedo sia esteso anche ai lavoratori autonomi, per un massimo di 300 giorni per anno solare, a ulteriore riprova dell’intento inclusivo del legislatore.

Alla fine del periodo di congedo, il lavoratore ha diritto di accesso prioritario allo smart working, in applicazione della Legge n. 81/2017, a testimonianza dell’intento di reinserimento lavorativo progressivo.

4. I permessi retribuiti per esami e cure

L’art. 2 della Legge 106/2025 introduce un pacchetto di 10 ore annue retribuite, dedicate a:

visite mediche specialistiche; esami strumentali, clinico-chimici e microbiologici; cure mediche frequenti.

4.1 Destinatari

Beneficiari di questi permessi aggiuntivi sono:

i dipendenti affetti da patologie oncologiche, invalidanti o croniche (con invalidità ≥ 74%), in fase attiva o di follow-up precoce; i genitori di figli minori affetti dalle medesime patologie.

4.2 Regime giuridico

Le ore di permesso:

sono cumulabili con altri istituti previsti dalla normativa vigente; vengono indennizzate secondo le regole applicabili alla malattia; sono retribuite dal datore di lavoro e conguagliate con i contributi INPS; garantiscono la copertura contributiva figurativa.

Il sistema richiama, per modalità operative, l’art. 7 del D.Lgs. n. 119/2011 sui permessi per terapie salvavita, rafforzando l’equiparazione tra diverse forme di fragilità.

5. Prime riflessioni critiche e applicative

La legge 106/2025 si colloca in continuità ideale con gli orientamenti giurisprudenziali più avanzati, ma introduce una disciplina non sostitutiva, bensì complementare.

Infatti, l’esclusione dal comporto delle assenze per patologie oncologiche (come affermato dal Tribunale di Roma nel 2023) e il riconoscimento del congedo straordinario sono istituti distinti:

il primo riguarda l’irrilevanza della patologia nel computo dei giorni di comporto (con potenziale diritto a retribuzione INPS); il secondo configura una aspettativa non retribuita, fruibile anche in assenza di incapacità lavorativa certificata.

Ne consegue l’urgenza, per il datore di lavoro, di comunicare tempestivamente al dipendente il rischio di superamento del comporto e di verificare la natura delle patologie documentate, anche in funzione di un eventuale accesso al congedo straordinario.

6. Conclusione

La Legge n. 106/2025 segna un importante progresso nel riconoscimento del diritto al lavoro dei soggetti fragili, conciliando esigenze sanitarie e lavorative in una prospettiva di inclusione e dignità.

Siamo di fronte a una norma di buon senso giuridico e umano, che rafforza la centralità della persona nel sistema delle tutele lavoristiche e rappresenta un punto di partenza – non di arrivo – per una riforma strutturale del rapporto tra malattia, lavoro e dignità sociale.

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DIRITTO ALLA SALUTE: LE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE RICONOSCONO IL REATO DI EPIDEMIA COLPOSA IN FORMA OMISSIVA INERENTE ALLA GESTIONE DEL COVID-19

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Il 10 aprile 2025, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno pronunciato una storica sentenza (n. 27515/2025) che ridefinisce profondamente i confini del reato di epidemia colposa previsto dall’art. 452 c.p., aprendo scenari giuridici inediti sulla gestione della pandemia da Covid-19 e sulla responsabilità delle pubbliche amministrazioni.

Con questa decisione, la Suprema Corte ha stabilito che il reato di epidemia colposa è configurabile anche in forma omissiva, superando l’interpretazione restrittiva che, fino a oggi, limitava la punibilità alla sola condotta commissiva materiale, ossia alla diffusione attiva e volontaria del virus. Si tratta di una svolta giurisprudenziale che potrebbe riaprire numerosi procedimenti penali archiviati o sospesi in tutta Italia, relativi alle presunte omissioni avvenute durante l’emergenza sanitaria del 2020.

Epidemia colposa: verso una nozione a forma libera

Le motivazioni della sentenza, depositate in data 28 luglio 2025, confermano l’orientamento innovativo delle Sezioni Unite: secondo i giudici, il reato di epidemia, anche nella sua forma colposa, ha assunto oggi una “forma libera”, svincolata dalla sola trasmissione fisica del patogeno.

La Corte ha sottolineato che l’evoluzione delle emergenze sanitarie, unitamente al ruolo attivo e pervasivo delle pubbliche autorità nella gestione del rischio epidemico, impone una lettura sistematica e costituzionalmente orientata della norma incriminatrice. In questa prospettiva, sono da ritenersi penalmente rilevanti anche condotte omissive, cioè l’omissione di atti dovuti che avrebbero potuto impedire la propagazione del contagio.

Le omissioni rilevanti secondo la Cassazione

Tra le condotte omissive individuate come potenzialmente idonee a integrare il reato di epidemia colposa, la sentenza delle Sezioni Unite menziona espressamente:

La mancata distribuzione tempestiva dei dispositivi di protezione individuale (DPI); L’assenza di formazione specifica del personale sanitario per affrontare situazioni emergenziali; La carente o inesistente informazione alla popolazione sul rischio sanitario.

Si tratta di condotte attribuibili a soggetti pubblici, cui era demandato un dovere giuridico di protezione della salute collettiva ai sensi dell’art. 32 della Costituzione. La mancata attuazione di misure preventive efficaci, secondo la Suprema Corte, può quindi fondare un giudizio di responsabilità penale per omissione, qualora si dimostri il nesso di causalità tra l’omissione e l’evento epidemico.

Implicazioni processuali e profili di responsabilità

Questa svolta giurisprudenziale ha immediatamente riacceso il dibattito sull’accertamento delle responsabilità penali nella gestione dell’emergenza Covid-19, con particolare riferimento alle condotte di ministri, dirigenti sanitari e autorità locali.

Lo studio legale Bonanni Saraceno ha accolto con favore la suddetta decisione della Corte, in quanto grazie ad essa si potranno aprire nuovi procedimenti per far valere i diritti violati delle vittime del Covid-19, offrendo finalmente uno strumento giuridico per valutare la negligenza istituzionale e le omissioni strategiche che, secondo anche gli attuali ricorrenti dello studio, avrebbero aggravato il numero di vittime.

Conclusioni

La sentenza n. 27515/2025 delle Sezioni Unite rappresenta un punto di svolta nel diritto penale sanitario, ampliando l’ambito applicativo del reato di epidemia colposa e adeguandolo alle complesse dinamiche della sanità pubblica contemporanea. Con l’introduzione della forma omissiva tra le condotte penalmente rilevanti, la Cassazione apre la strada a una maggiore effettività della tutela penale della salute pubblica, ponendo le basi per un riesame critico delle omissioni istituzionali che hanno segnato la gestione della pandemia.

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Sentenza n. 27515/2025 delle Sezioni Unite della Cassazione integrale, in formato pdf:

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