PENALE: GIUSTIZIA RIPARATIVA IN CRISI, TRA RITARDI STRUTTURALI E DISILLUSIONE NORMATIVA

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Introduzione

A distanza di quasi tre anni dall’introduzione della disciplina organica della giustizia riparativa ad opera del D.Lgs. n. 150/2022 – perno della cosiddetta “riforma Cartabia” – il panorama applicativo italiano appare segnato da una profonda disillusione. Presentata come la grande innovazione del nuovo modello penale, destinata ad affiancare (e non sostituire) la giustizia retributiva tradizionale, la restorative justice continua a vivere in una fase di stallo operativo, ancorata a promesse normative disattese e a una macchina organizzativa mai realmente partita.

1. La giustizia riparativa nel D.Lgs. 150/2022: finalità e ambizioni

Il D.Lgs. n. 150/2022 ha introdotto un sistema organico di giustizia riparativa nella procedura penale, mutuando i modelli internazionali e europei, e richiamandosi alle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa e alle linee guida delle Nazioni Unite. L’ambizione era quella di offrire percorsi volontari di mediazione tra vittima e autore del reato, fondati su consenso informato, terzietà del mediatore e centralità del dialogo.

La novità, descritta come “fiore all’occhiello” della riforma Cartabia, si collocava in una prospettiva sistemica: aprire spazi per la responsabilizzazione del reo, la riconciliazione, la prevenzione della recidiva e la ricomposizione del conflitto sociale.

2. Il quadro normativo transitorio e il ruolo delle Conferenze locali

L’art. 92 del decreto prevedeva un regime transitorio con due tappe principali:

La ricognizione dei servizi di giustizia riparativa esistenti, svolti da soggetti pubblici o privati, convenzionati o collegati mediante protocolli d’intesa con gli uffici giudiziari; L’avvio delle Conferenze locali per la giustizia riparativa, intese come snodo territoriale tra istituzioni, enti del terzo settore e autorità giudiziarie.

Il termine fissato per la piena operatività delle strutture era inizialmente il 30 giugno 2023, poi prorogato al 30 giugno 2024. Tuttavia, come confermato dalla relazione del ministro Nordio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025, si è giunti appena alla fase di mappatura preliminare. Il completamento delle infrastrutture materiali e immateriali resta quindi lontano.

3. I segnali della “crisi di rigetto”: oltre la lentezza attuativa

Molti osservatori, sia accademici sia operatori del settore, parlano oggi di una vera e propria “crisi di rigetto” del modello riparativo. Le cause sono molteplici:

Assenza di fondi strutturali e formazione specializzata: i mediatori riparativi sono ancora in numero esiguo e manca un percorso di accreditamento nazionale. Diffidenza culturale della magistratura e degli avvocati, che faticano ad integrare il paradigma riparativo nel contesto processuale tradizionale. Ambiguità istituzionali: le Conferenze locali non hanno ricevuto linee guida univoche, né competenze formalmente definite. Assenza di campagne informative pubbliche: la cittadinanza non conosce il significato né le potenzialità della giustizia riparativa.

4. Verso un’implementazione effettiva? Prospettive e proposte

La giustizia riparativa può rappresentare una risorsa sistemica, non solo in termini deflattivi per il processo penale, ma anche come strumento di umanizzazione della pena e di riconoscimento del danno alla vittima. Tuttavia, senza:

un piano nazionale operativo; un fondo stabile per la formazione dei mediatori; la valorizzazione delle best practices già presenti in alcune realtà locali; e una normativa secondaria chiara a sostegno dell’articolato legislativo, l’intero impianto rischia di rimanere lettera morta, relegato a un’opzione residuale anziché a una componente strutturale del sistema penale.

Conclusioni

La parabola della giustizia riparativa, da promessa innovativa a riforma incompiuta, rappresenta un caso emblematico di scollamento tra normazione e realtà operativa. Il “fiore all’occhiello” della riforma Cartabia ha finito per appassire ancor prima di fiorire davvero. Per evitarne il definitivo fallimento, occorre ripensare l’intervento pubblico in chiave sistemica e partecipata, restituendo alla giustizia riparativa il suo autentico potenziale trasformativo.

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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:

STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO
Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma

Tel+39 0673000227

Cell. +39 3469637341

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CRISI D’IMPRESA: CORTE D’APPELLO DI VENEZIA SULLA QUALIFICAZIONE DELL’IMPRESA MINORE NELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE, ONERE PROBATORIO E RILIEVI PROCESSUALI

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1. Introduzione: l’impresa minore nel Codice della crisi d’impresa

Nel contesto della liquidazione giudiziale, disciplinata dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. n. 14/2019), assume rilievo determinante la qualificazione dell’impresa come “minore”, ai fini dell’esclusione dal procedimento liquidatorio. In particolare, l’art. 2, comma 1, del nuovo Codice prevede criteri dimensionali, patrimoniali e reddituali precisi per delimitare il perimetro soggettivo di applicazione della liquidazione giudiziale.

Una recente decisione della Corte d’Appello di Venezia ha riaffermato l’ammissibilità, anche in sede di reclamo avverso la sentenza dichiarativa, della prova della qualifica di impresa minore, anche ove il debitore sia rimasto contumace nel giudizio di primo grado. Si tratta di una pronuncia che, pur nell’ambito della nuova normativa, si colloca in linea di continuità con gli orientamenti formatisi sotto il vigore della previgente Legge Fallimentare (R.D. n. 267/1942).

2. I requisiti per la qualifica di “impresa minore”

L’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 14/2019 stabilisce che non è soggetta a liquidazione giudiziale l’impresa che, congiuntamente, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza (o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore), abbia:

Un attivo patrimoniale annuo non superiore a euro 300.000; Ricavi annui complessivi, comunque risultanti, non superiori a euro 200.000; Un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a euro 500.000.

Tali soglie ricalcano, sotto un diverso profilo sistematico, quelle già previste dall’art. 1, comma 2, della L.F., a dimostrazione di una continuità normativa nella delimitazione dell’area di fallibilità.

3. L’onere della prova e il momento della sua deduzione

Elemento centrale della pronuncia della Corte veneta è il richiamo alla possibilità per il debitore di fornire la prova del possesso dei requisiti dell’impresa minore anche in sede di reclamo, nonostante l’inerzia nel procedimento di primo grado.

In base al principio affermato, l’onere probatorio che grava sull’imprenditore riguarda la dimostrazione del possesso congiunto dei requisiti dimensionali, e tale onere può essere assolto non necessariamente mediante i bilanci d’esercizio, bensì anche con altri mezzi di prova, tra cui:

documentazione contabile extra-bilancio; perizie contabili; dichiarazioni fiscali; altre evidenze documentali idonee a ricostruire i parametri richiesti.

Tale possibilità valorizza la funzione del reclamo quale fase non meramente impugnatoria, ma anche ricostruttiva della fattispecie, in cui il debitore può far valere per la prima volta le circostanze decisive per la sua esclusione dal perimetro soggettivo della procedura.

4. Continuità con la Legge Fallimentare abrogata

La Corte d’Appello di Venezia richiama espressamente l’orientamento già consolidato sotto la vigenza dell’art. 1, comma 2, L.F., secondo cui il fallito può indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova relativi ai limiti dimensionali. Si conferma così la persistenza di un principio processuale di favore per la tutela sostanziale dell’imprenditore, anche alla luce delle finalità deflattive e selettive del nuovo sistema.

5. Conclusioni: profili applicativi e riflessi operativi

L’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello evidenzia come il procedimento di reclamo rappresenti uno strumento effettivo per far valere la non fallibilità dell’impresa minore, anche in presenza di pregressa contumacia.

In ottica operativa, si tratta di un importante strumento di salvaguardia per gli imprenditori minori, che – pur non attivandosi tempestivamente – conservano un’ultima occasione processuale per sottrarsi alla liquidazione giudiziale, a condizione di provare documentalmente il possesso dei requisiti di legge.

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Foto

Corte di Appello di Venezia, sez. I, sentenza 15 luglio 2025, n. 2510 integrale, in formato pdf:

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BANCAROTTA FRAUDOLENTA: LA CASS. RIBADISCE LA DISTINZIONE TRA BANCAROTTA DISTRATTIVA E PREFERENZIALE NELLA RESTITUZIONE DEI FINANZIAMENTI AI SOCI

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Art. 216, L. fall.:
È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:
1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.
È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

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DOTTRINA: LA BANCAROTTA

La bancarotta fraudolenta è un reato previsto dall’ordinamento giuridico italiano, che punisce l’imprenditore che, in caso di fallimento, compie atti diretti a frodare i creditori, sottraendo, occultando o distruggendo beni aziendali, alterando la contabilità, o favorendo alcuni creditori a danno di altri

Definizione e caratteristiche: 

  • La bancarotta fraudolenta è un reato fallimentare, ovvero può essere contestata solo a seguito della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore. 
  • Si configura quando l’imprenditore, prima o durante la procedura fallimentare, compie azioni dolose che pregiudicano i diritti dei creditori. 
  • Le condotte tipiche includono:
    • Distrazione di beni: sottrazione, occultamento, distruzione o dissipazione di beni aziendali. 
    • Alterazione della contabilità:falsificazione o distruzione di libri contabili o scritture, rendendo impossibile la ricostruzione del patrimonio aziendale. 
    • Bancarotta preferenziale: favorire alcuni creditori a discapito di altri, violando il principio di parità di trattamento. 
  • La bancarotta fraudolenta può essere patrimoniale, quando riguarda beni, o documentale, quando riguarda la documentazione contabile. 

Sanzioni: 

  • La bancarotta fraudolenta è punita con la reclusione, che può variare da 3 a 10 anni, a seconda della gravità del reato. 
  • Oltre alla reclusione, possono essere applicate pene accessorie, come l’interdizione dall’esercizio di attività commerciali. 
  • Il termine di prescrizione è di 10 anni, che può essere aumentato in caso di atti interruttivi. 

Differenza tra bancarotta fraudolenta e semplice: 

  • La bancarotta semplice è caratterizzata da negligenza o imprudenza nella gestione dell’impresa, mentre la bancarotta fraudolenta richiede un’azione dolosa dell’imprenditore. 
  • Le sanzioni per la bancarotta semplice sono generalmente meno severe rispetto a quelle per la bancarotta fraudolenta

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Premessa

Con la recente sentenza n. 27259/2025, la Corte di Cassazione, Sezione V Penale, è tornata a pronunciarsi su una questione di grande rilievo in materia di reati fallimentari: la qualificazione della restituzione di finanziamenti erogati dai soci alla società fallita. L’intervento si inserisce in un solco giurisprudenziale consolidato ma oggetto di continue precisazioni interpretative, specie per la delicata distinzione tra bancarotta preferenziale e distrattiva.

Il caso: restituzione di somme a soci e distrazione patrimoniale

La vicenda trae origine dal fallimento della società “Parco s.r.l.”, avvenuto nel 2014. L’amministratore di fatto, Carmelo Catania, era stato condannato per bancarotta fraudolenta distrattiva, per aver prelevato ingenti somme dalle casse sociali a beneficio proprio, della “Markom s.r.l.” (di cui era socio al 95%), e di altri soggetti legati alla compagine societaria. Tra questi, il coimputato Riccardo Ponzio, ritenuto concorrente extraneus.

La difesa di Catania ha sostenuto in sede di legittimità che si trattasse non di distrazione, bensì di restituzione di finanziamenti concessi alla società a titolo di mutuo, perciò la condotta sarebbe riconducibile alla bancarotta preferenziale.

Il nodo interpretativo: distrazione o preferenza?

La Corte, nel rigettare il ricorso, ricostruisce e valorizza l’evoluzione giurisprudenziale in materia:

Se la somma versata dal socio costituisce un vero mutuo (ex art. 1813 c.c.) e viene restituita prima della liquidazione e in violazione della par condicio creditorum, si configura bancarotta preferenziale. Tuttavia, se il versamento è effettuato in una fase di squilibrio finanziario della società, tale da suggerire la natura di conferimento “sostitutivo del capitale”, allora la restituzione assume carattere distrattivo, penalmente più grave.

Questa impostazione si fonda sull’art. 2467, comma 2, c.c., che equipara ai conferimenti i finanziamenti erogati dai soci in situazioni di crisi, impedendone la restituzione in pregiudizio dei creditori.

La distinzione giuridica: criteri guida della Cassazione

La sentenza sottolinea alcuni principi chiave per distinguere tra bancarotta preferenziale e distrattiva:

La forma del versamento è irrilevante: ciò che conta è la situazione economica della società al momento dell’immissione di denaro. Se la società è in grave crisi o sottocapitalizzazione, il finanziamento si considera anomalo o sostitutivo del capitale. Il rimborso di tali somme configura una distrazione di beni a danno dei creditori. Solo in assenza di dissesto e in presenza di un mutuo regolarmente documentato, può parlarsi di pagamento preferenziale.

Gli effetti della sentenza n. 27259/2025

Con questa decisione, la Cassazione:

Conferma la centralità della disciplina dell’art. 2467 c.c. anche nella dimensione penalistica, collegando la qualificazione civilistica del finanziamento alla responsabilità penale dell’amministratore. Rafforza la tutela dei creditori nelle società a ristretta base sociale, dove è più frequente l’immissione di capitale in forma camuffata di prestito. Contribuisce a limitare le prassi elusive, secondo cui i soci “prestano” fondi alla società per poi ritirarli in prossimità del fallimento.

Considerazioni conclusive

La restituzione dei finanziamenti ai soci in situazioni di dissesto non può essere considerata una semplice operazione interna alla società. Se effettuata in violazione della par condicio creditorum e in assenza di un effettivo diritto esigibile, essa si traduce in una condotta penalmente rilevante, integrando il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Questa impostazione non solo rafforza la coerenza tra diritto civile e penale, ma costituisce un monito per gli amministratori: le scelte di gestione finanziaria, specie in momenti di crisi, devono sempre essere trasparenti, documentate e coerenti con l’interesse della massa dei creditori.

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🎯 SCHEDA DI SINTESI – CASS. PEN., SEZ. V, SENT. N. 27259/2025

📌 Reati fallimentari e restituzione dei finanziamenti ai soci

🔍 TEMA

Classificazione penale della restituzione di somme da parte della società fallita al socio finanziatore.

⚖️ INQUADRAMENTO NORMATIVO

1. Art. 216, comma 1, L. fall. – Bancarotta fraudolenta per distrazione

2. Art. 216, comma 3, L. fall. – Bancarotta preferenziale

3. Art. 2467 c.c. – Postergazione dei finanziamenti dei soci

4. Art. 1813 c.c. – Mutuo

📚 PRINCIPIO DI DIRITTO AFFERMATO

“La restituzione ai soci di somme versate in un momento di grave squilibrio finanziario integra bancarotta fraudolenta distrattiva, poiché tali somme sono da qualificarsi come conferimenti sostitutivi del capitale ai sensi dell’art. 2467 c.c.”.

📌 Criteri guida della Cassazione

✅ Conta la situazione della società al momento del versamento, non la forma dell’operazione

✅ Se la società era in crisi → il versamento è postergato (art. 2467 c.c.)

✅ Se postergato → la restituzione è distrattiva, non preferenziale

✅ Solo se mutuo regolare, senza crisi → bancarotta preferenziale

🧩 RATIO LEGIS

Prevenire la sottocapitalizzazione occulta e tutelare i creditori da manovre elusive da parte dei soci, specie nelle s.r.l. a ristretta base.

⚠️ IMPLICAZIONI PRATICHE

Attenzione alla tempistica e alla forma dei versamenti soci Documentare chiaramente la natura del finanziamento Valutare lo stato economico della società prima della restituzione Responsabilità anche per gli amministratori di fatto e per i cooperatori esterni

👥 Parti coinvolte nella sentenza

Imputati: Carmelo Catania (amministratore di fatto) e Riccardo Ponzio (cooperatore esterno) Società fallita: Parco s.r.l. Società beneficiaria: Markom s.r.l.

📎 Conclusione

La sentenza rafforza l’orientamento secondo cui l’introduzione di capitali in società in crisi non può generare diritto alla restituzione, e ogni prelievo successivo è penalmente rilevante come distrazione.

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Corte di Cassazione, Sezione V Penale, sentenza n. 27259/2025 integrale, in formato pdf:

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TUN: ALLA CASSAZIONE L’ARDUO COMPITO (EX ART. 363-BIS C.P.C.) DI RISOLVERE IL CONFLITTO SULL’APPLICAZIONE DELLA TUN O DELLE TABELLE MILANESI E SULLA CONNESSA RETROATTIVITÀ

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TUN

La Cassazione è chiamata a chiarire se la Tabella Unica Nazionale per il risarcimento del danno non patrimoniale si applichi anche ai sinistri anteriori al 5 marzo 2025. Analisi dell’ordinanza del Tribunale di Milano e delle implicazioni giuridiche.

Introduzione

Con l’ordinanza del 18 luglio 2025, la sezione X civile del Tribunale di Milano (estensore Spera) ha sollevato una questione interpretativa di rilievo sistematico, disponendo un rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c., introdotto dalla riforma Cartabia. Oggetto del rinvio è l’ambito di applicazione temporale della Tabella Unica Nazionale (TUN) per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesioni gravi derivanti da sinistri stradali e responsabilità sanitaria, come prevista dal D.P.R. 12/2025 e dall’art. 138 Codice delle Assicurazioni Private (CAP).

L’interrogativo centrale è se tale tabella possa applicarsi anche ai sinistri verificatisi anteriormente al 5 marzo 2025, data di sua entrata in vigore. Il nodo interpretativo ha generato ampio dibattito dottrinale e un significativo contrasto giurisprudenziale.

Il quadro normativo: tra certezza e interpretazione estensiva

L’art. 5 del D.P.R. 12/2025 stabilisce espressamente l’efficacia della Tabella Unica a partire dal 5 marzo 2025, mentre l’art. 138 CAP ne definisce l’ambito oggettivo, limitandolo a danni da responsabilità civile auto e sanitaria.

Tuttavia, la Cassazione (sent. n. 11319/2025) ha già affermato in via incidentale che la TUN esprime valori equitativi di fonte superiore, in quanto provenienti dal legislatore, e che quindi potrebbe essere utilizzata in via analogica o sussidiaria anche per fatti anteriori, come parametro equitativo conforme all’art. 1226 c.c.

In tale prospettiva, la Tabella di legge diventerebbe un riferimento unificante per la giurisprudenza di merito, in un’ottica di maggiore uniformità valutativa tra casi analoghi.

L’importanza del rinvio pregiudiziale e la funzione della riforma Cartabia

Il Tribunale di Milano si avvale dello strumento innovativo del rinvio pregiudiziale introdotto dalla riforma Cartabia, che consente ai giudici di merito di sottoporre alla Suprema Corte una questione di diritto:

di difficile interpretazione; rilevante per la decisione del caso concreto; priva di precedenti risolutivi da parte della Cassazione.

L’obiettivo è favorire un dialogo ermeneutico preventivo tra giudici di merito e di legittimità, volto a scongiurare incertezze applicative in una materia che ha ricadute significative sul piano economico e sociale.

Il caso concreto: la discrepanza tra TUN e Tabelle milanesi

Il caso all’esame del Tribunale di Milano riguarda un incidente stradale del 2021, con danno superiore al 9%. L’applicazione della TUN comporterebbe una riduzione risarcitoria di circa 20.000 euro rispetto a quanto previsto dalle Tabelle milanesi 2024, sia per la componente biologica che per quella temporanea.

In particolare, le differenze liquidative riguardano anche la personalizzazione del danno e la componente morale, rispetto alle quali la TUN prevede parametri più restrittivi. Ciò mette in discussione la tenuta costituzionale del principio di integrale risarcimento, ex art. 32 Cost. e art. 2059 c.c.

I quesiti sottoposti alla Corte di Cassazione

Il Tribunale ha articolato tre quesiti, tutti centrati sul corretto parametro di riferimento che il giudice deve adottare nella liquidazione del danno non patrimoniale.

1. Obbligatorietà delle Tabelle milanesi :

se, per evitare la violazione di legge, il giudice debba continuare ad applicare le Tabelle dell’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano (Ed. 2024), considerate parametro di conformità ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c. dalla Cassazione (sent. n. 12408/2011 e n. 10579/2021).;

2. Obbligatorietà della TUN:

se, dopo l’emanazione del D.P.R. 12/2025, debba invece considerarsi la TUN il nuovo parametro legale, prevalente anche per fatti anteriori, in forza del principio di uniformità e legalità risarcitoria;

3. Libertà di scelta motivata del giudice:

se il giudice possa optare, con adeguata motivazione, tra TUN e Tabelle milanesi, in funzione delle peculiarità del caso concreto, conservando un margine di discrezionalità valutativa;

Considerazioni conclusive e scenari futuri

Il rinvio pregiudiziale sollecita un intervento chiarificatore e sistematico della Cassazione. L’auspicio è che la Suprema Corte possa fornire una soluzione netta, capace di bilanciare l’esigenza di uniformità risarcitoria con quella di tutela effettiva del diritto alla salute e del principio di personalizzazione del danno.

La questione tocca anche aspetti costituzionali e sovranazionali, implicando un confronto con il principio di tutela integrale e personalizzata del danno alla persona, riconosciuto anche dalla Corte EDU.

Una decisione troppo rigida potrebbe mettere a rischio il principio di equità sostanziale, mentre un’eccessiva apertura all’autonomia del giudice potrebbe vanificare gli sforzi di standardizzazione legislativa. È dunque su questo crinale che si gioca il futuro equilibrio tra certezza del diritto e giustizia del caso concreto.

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“LE RESPONSABILITÀ SANITARIE”, DUEPUNTOZERO EDIZIONI

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Negli ultimi decenni, la responsabilità medico-sanitaria si è progressivamente affermata come un settore autonomo della responsabilità civile, distaccandosi dalla tradizionale configurazione incentrata esclusivamente sulla figura del medico. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha portato a una rielaborazione complessiva dell’intero sistema della responsabilità in ambito sanitario, culminata nella disciplina organica introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco). Tale intervento legislativo ha segnato il superamento del classico binomio medico-paziente, introducendo un approccio sistemico che coinvolge tutte le professioni sanitarie, nella consapevolezza dell’indispensabile apporto di figure quali il personale infermieristico, gli assistenti sanitari e i tecnici delle diverse branche della medicina.

La legge Gelli-Bianco ha ridefinito i confini della responsabilità sanitaria nei suoi molteplici aspetti – civile, penale ed erariale – disegnando specifici statuti di responsabilità per le strutture e per gli esercenti la professione sanitaria. A partire dal cd. decalogo di San Martino del 2018, la giurisprudenza ha cercato di sistematizzare i principi applicabili, contribuendo a chiarire – pur tra luci e ombre – il quadro normativo e interpretativo.

Il presente lavoro si propone, in primo luogo, di ripercorrere l’evoluzione storica del concetto di responsabilità sanitaria, evidenziandone la progressiva estensione a tutti i soggetti coinvolti nella relazione di cura. In secondo luogo, si intendono analizzare i distinti regimi di responsabilità che trovano applicazione nei confronti delle strutture sanitarie e degli esercenti la professione, valorizzando l’apporto della giurisprudenza e della dottrina nella loro definizione.

Ampio spazio sarà dedicato, inoltre, all’esame del nuovo obbligo assicurativo introdotto dalla legge Gelli-Bianco, la cui attuazione è stata demandata a fonti regolamentari di secondo livello, tra cui il decreto ministeriale 232/2023, destinato a entrare pienamente in vigore entro dicembre 2025. In tale contesto verranno evidenziate le principali criticità e le potenzialità di un sistema assicurativo ancora in fase di consolidamento.

Infine, l’analisi non potrà prescindere dal confronto con i più recenti progetti di riforma, che, pur nel tentativo di razionalizzare e semplificare la materia, rischiano di mettere in discussione alcuni delicati equilibri faticosamente raggiunti con la legge Gelli-Bianco.

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TRIBUTARIO: LA CONSULTA DICHIARA L’ILLEGITTIMITÀ DI ALCUNI ATTI DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA

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La Corte costituzionale e la giurisdizione sugli atti di recupero dei contributi a fondo perduto: commento alla sentenza n. 124/2025

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 124 del 23 giugno 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale di alcune disposizioni normative che attribuivano alla giurisdizione tributaria le controversie relative al recupero dei contributi a fondo perduto erogati durante l’emergenza da Covid-19. Il presente contributo analizza il contenuto della decisione, soffermandosi sul principio del giudice naturale precostituito per legge, sull’unitarietà della giurisdizione ordinaria in materia di diritti soggettivi e sulla razionalità del sistema di riparto tra le giurisdizioni.

Introduzione

Durante la pandemia da Covid-19, il legislatore ha previsto l’erogazione di contributi a fondo perduto alle imprese e ai professionisti colpiti dalle restrizioni sanitarie. Le norme impugnate (art. 1, comma 10, del d.l. n. 137/2020 e art. 25, comma 12, del d.l. n. 34/2020) stabilivano che le controversie concernenti gli atti di recupero dei contributi non spettanti fossero devolute alla giurisdizione tributaria.

La Corte costituzionale, sollecitata da più ordinanze di rimessione, ha censurato questa scelta legislativa, rilevando un’irragionevole disparità di trattamento e una violazione dell’art. 102, comma 1, Cost., che vieta l’istituzione di giudici speciali.

1. Il quadro normativo: contributi emergenziali e giurisdizione tributaria

Il decreto Ristori (d.l. n. 137/2020) e il decreto Rilancio (d.l. n. 34/2020) hanno introdotto contributi a fondo perduto destinati a soggetti economici penalizzati dalla crisi pandemica. In caso di indebita percezione, l’Agenzia delle entrate era autorizzata al recupero delle somme.

Tuttavia, il legislatore ha previsto che la giurisdizione sulle liti relative agli atti di recupero spettasse alle commissioni tributarie, estendendo di fatto la giurisdizione tributaria a materie di natura non strettamente tributaria.

2. Le censure sollevate: violazione del divieto di giudici speciali e disparità di trattamento

Le ordinanze di rimessione hanno denunciato che le disposizioni censurate:

affidano alla giurisdizione tributaria questioni aventi natura civilistica, come il diritto alla restituzione di somme indebitamente erogate; creano una frattura irrazionale nel sistema, perché la spettanza originaria del contributo è devoluta alla giurisdizione ordinaria, mentre il recupero è affidato alla giurisdizione tributaria; determinano una disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche (richieste e recuperi di contributi) in ragione di una differente qualificazione meramente processuale.

La questione principale è stata dunque la compatibilità con il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1, Cost.) e con il divieto di istituire giudici speciali (art. 102, comma 1, Cost.).

3. La decisione della Corte costituzionale: illegittimità parziale per irragionevolezza

Con la sentenza n. 124/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale delle norme impugnate, nella parte in cui devolvono alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti gli atti di recupero dei contributi a fondo perduto.

3.1. Giurisdizione e natura civilistica della controversia

La Corte ha ribadito che la giurisdizione tributaria può essere estesa solo a controversie connesse all’obbligazione tributaria, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546/1992. Nel caso di specie, il contributo a fondo perduto non ha natura tributaria, ma rappresenta una prestazione patrimoniale di sostegno economico, soggetta alle regole del diritto civile.

3.2. Disparità di trattamento e irrazionalità del riparto

La Corte ha evidenziato che la normativa impugnata produce un effetto distorsivo: la fase di concessione del contributo è sottoposta al giudice ordinario, mentre la fase di recupero è affidata al giudice tributario. Questa duplicazione irragionevole del riparto giurisdizionale mina l’unitarietà del sistema e genera confusione, compromettendo l’effettività della tutela giurisdizionale.

4. Profili sistematici: verso una razionalizzazione del riparto giurisdizionale

La sentenza si colloca nel solco di una giurisprudenza costituzionale attenta a garantire coerenza e razionalità nel riparto tra giurisdizione ordinaria e speciale, come già evidenziato nelle pronunce relative all’ambito previdenziale, sanitario e delle prestazioni economiche pubbliche.

In linea generale, la giurisdizione speciale può essere giustificata solo in presenza di un rapporto funzionale con l’obbligazione fiscale. In mancanza di tale presupposto, la devoluzione al giudice speciale viola il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di giusto processo (art. 111 Cost.).

Conclusioni

La sentenza n. 124/2025 rappresenta un importante passo verso una razionalizzazione del sistema giurisdizionale, riaffermando i principi fondamentali della tutela dei diritti soggettivi e del giudice naturale. La Corte costituzionale ha correttamente ristabilito la coerenza tra natura del rapporto giuridico sostanziale e giurisdizione competente, ponendo un limite all’estensione impropria della giurisdizione tributaria a controversie estranee alla materia fiscale.

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Corte Costituzionale, sentenza n. 124/2025 integrale, in formato pdf:

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“SOCIETAS”: L’EX CONSULENTE DI TRUMP GEORGE LOMBARDI CI PARLA DEL RUSSIAGATE E DELL’AMMINISTRAZIONE USA

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In questa puntata, affrontiamo con l’imprenditore italo-americano George Lombardi (già consulente di Donald Trump), le ultime notizie sull’indagine denominata Russiagate e sulle novità della politica dell’Amministrazione Trump.

Puntata integrale di Societas

Russiagate, la CIA ammette l’errore: il dossier del 2016 era politicizzato

Un rapporto interno della CIA diffuso nel 2025 smentisce il dossier del Russiagate: accuse a Trump basate su fonti fragili e pressioni politiche. Brennan e Comey nel mirino della giustizia.


Il Russiagate era una costruzione politica? Le nuove rivelazioni della CIA

A quasi dieci anni dalle elezioni presidenziali del 2016, uno sconvolgente rapporto interno della CIA rimette in discussione le basi dell’intero caso Russiagate. Diffuso il 26 giugno 2025 dalla giornalista Miranda Devine sul New York Post, il documento fa luce su gravi manipolazioni procedurali e pressioni politiche interne all’intelligence americana.

Un’inchiesta interna che cambia la narrativa

Il rapporto, commissionato dall’ex direttore della CIA John Ratcliffe, esamina il documento dell’Intelligence Community Assessment (ICA) pubblicato nel dicembre 2016, che accusava la Russia di voler influenzare le elezioni a favore di Donald Trump. Le conclusioni sono clamorose: l’intera accusa si basava su fonti fragili, dossier screditati e analisi condotte in modo non imparziale.

Le responsabilità di Brennan e Comey

Secondo l’inchiesta, John Brennan, all’epoca direttore della CIA, avrebbe selezionato un ristretto gruppo di analisti delle sole CIA, FBI, NSA e ODNI, escludendo 13 delle 17 agenzie federali. Un’operazione senza contraddittorio, che ha condotto a conclusioni già allora oggetto di forti critiche interne.

James Comey, ex capo dell’FBI, avrebbe invece cambiato posizione sull’ipotesi di collusione dopo pressioni interne, nonostante in precedenza alti funzionari dell’FBI avessero affermato al New York Times che non esistevano prove concrete di un legame tra Trump e il Cremlino.

Il controverso dossier Steele e il ruolo della Clinton

Elemento centrale dell’ICA fu il dossier Steele, redatto dall’ex agente dell’intelligence britannica Christopher Steele, su iniziativa della campagna Clinton e attraverso lo studio legale Perkins Coie. Il documento, già screditato all’epoca, venne inserito nel rapporto nonostante forti obiezioni interne.

Una email interna del 29 dicembre 2016, firmata dal vicedirettore dell’analisi CIA, avvertiva che l’inclusione del dossier avrebbe minato la credibilità dell’intero rapporto. Ma le proteste vennero ignorate.

La posizione della NSA: scetticismo mascherato

Anche la NSA, guidata allora da Mike Rogers, espresse solo una “moderata fiducia” nelle conclusioni dell’ICA. In gergo dell’intelligence, questo equivale a un rifiuto velato. Secondo fonti interne, Putin avrebbe potuto non preferire Trump, percepito come “imprevedibile”, rispetto a Hillary Clinton, considerata più “gestibile”.

I protagonisti sotto indagine

Ad oggi, John Brennan e James Comey sarebbero formalmente indagati per irregolarità nella conduzione dell’inchiesta: dichiarazioni false al Congresso, uso distorto delle fonti, e mancato rispetto delle procedure interne.

Anche Christopher Steele è tornato sotto i riflettori: nella sua deposizione del 2019, aveva ammesso di aver usato informazioni non verificate, provenienti da fonti legate alla propaganda russa.

Il prezzo della propaganda: chi pagherà?

Il Russiagate ha dominato il dibattito pubblico e politico per anni, alimentando campagne mediatiche contro chiunque osasse dubitare della narrativa ufficiale. Oggi, questo nuovo rapporto CIA impone una rivalutazione storica dell’intera vicenda, sollevando interrogativi sull’uso politico delle agenzie di intelligence.

Come osservato da Simona Mangiante, avvocato e moglie di George Papadopoulos (ex consigliere di Trump coinvolto nel Russiagate), le rivelazioni contenute nel dossier Ratcliffe potrebbero segnare una svolta epocale nella percezione pubblica del caso.

Conclusioni: Russiagate, indagine o operazione politica?

Alla luce dei nuovi elementi, è lecito chiedersi: quanto del Russiagate fu vera indagine, e quanto fu costruzione politica? E soprattutto, chi pagherà per le gravi distorsioni emerse?

L’opinione pubblica, sempre più scettica verso le versioni ufficiali, attende risposte. Se confermate a livello istituzionale, queste rivelazioni potrebbero rappresentare uno spartiacque nella storia delle relazioni tra intelligence e politica negli Stati Uniti.


George Lombardi e Donald Trump

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REATI TRIBUTARI: CASS. PEN., SEZ. III, N. 26898/2025 CHIARISCE CHE I TERMINI DELLA PRESCRIZIONE DIFFERISCONO A SECONDA CHE LE SCRITTURE CONRABILI SIANO DISTRUTTE O OCCULTATE

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La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 26898/2025, offre un’importante chiarificazione sulla qualificazione giuridica dei reati di distruzione e occultamento di scritture contabili ai fini della decorrenza della prescrizione penale. In particolare, viene riaffermata la distinzione tra reato istantaneo e reato permanente, con effetti significativi sull’individuazione del dies a quo della prescrizione.


1. Introduzione

Nel diritto penale tributario, la definizione della natura del reato – istantanea o permanente – incide in modo determinante sulla determinazione del termine di prescrizione. La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente affinato i criteri interpretativi, specialmente in relazione ai delitti previsti dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, tra cui si annoverano i reati di cui all’art. 10 (Occultamento o distruzione di documenti contabili).

La sentenza n. 26898 del 2025 si inserisce in questo filone interpretativo, delineando con chiarezza i criteri distintivi tra distruzione e occultamento delle scritture contabili e i rispettivi effetti sulla decorrenza della prescrizione.


2. Il fatto e la qualificazione giuridica

Nel caso esaminato, il ricorrente era stato imputato per aver posto in essere condotte di distruzione e/o occultamento di scritture contabili obbligatorie, impedendo così la ricostruzione del volume d’affari ai fini fiscali. L’elemento dirimente è consistito nell’individuazione del momento consumativo del reato al fine di stabilire se lo stesso fosse prescritto.

La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire un principio oramai consolidato:

«Il reato di distruzione di scritture contabili ha natura istantanea, e la prescrizione decorre dal momento in cui si realizza la condotta distruttiva; al contrario, il reato di occultamento presenta natura permanente, la cui consumazione perdura sino alla conclusione dell’attività ispettiva o accertativa dell’Amministrazione finanziaria.»


3. Il reato di distruzione di scritture contabili: natura istantanea

Secondo l’orientamento consolidato, confermato dalla sentenza in esame, la distruzione delle scritture contabili configura un reato istantaneo, in quanto l’offesa all’interesse protetto (trasparenza fiscale e possibilità di controllo) si verifica e si esaurisce nel momento in cui i documenti vengono fisicamente distrutti.

3.1. Conseguenze in termini di prescrizione

Ne deriva che la prescrizione decorre dal momento in cui avviene la distruzione, anche se l’illecito viene scoperto successivamente:

«Il momento consumativo coincide con l’esaurirsi della condotta materiale di distruzione, non rilevando l’epoca della scoperta del reato».

Questo orientamento è coerente con quanto stabilito, tra le altre, in Cass. pen., Sez. III, n. 36083/2017, che ha ribadito la natura istantanea del delitto, non suscettibile di protrazione nel tempo.


4. L’occultamento di scritture contabili: reato permanente

Diversamente, il reato di occultamento è qualificato come reato permanente: la sua consumazione non si esaurisce nell’atto iniziale di sottrazione o occultamento, ma perdura fino a quando il documento rimane celato e non accessibile all’autorità tributaria.

4.1. Il dies a quo della prescrizione

La Cassazione n. 26898/2025 chiarisce che la prescrizione, in questo caso, inizia a decorrere dalla conclusione dell’accertamento fiscale:

«La permanenza del reato si arresta solo nel momento in cui l’Amministrazione conclude l’attività ispettiva e l’occultamento diventa inidoneo a impedire l’accertamento».

Tale impostazione si riallaccia a quanto già affermato in Cass. pen., Sez. III, n. 31617/2018, dove si è ritenuto che la natura permanente consente l’estensione del termine prescrizionale fino all’ultimo atto utile dell’ispezione.


5. Profili critici e riflessi pratici

La distinzione tra le due fattispecie assume particolare rilevanza nei procedimenti penali a distanza di tempo rispetto alla commissione del fatto. Infatti, la qualificazione del reato come permanente consente al pubblico ministero di esercitare l’azione penale anche a distanza di anni, mentre l’attribuzione della natura istantanea può determinare l’improcedibilità per intervenuta prescrizione.

Inoltre, la sentenza rafforza l’obbligo per i professionisti e le imprese di custodire le scritture contabili in modo accessibile e verificabile, rafforzando il principio di trasparenza e tracciabilità dell’attività economica.


6. Conclusioni

La Cassazione n. 26898/2025 si inserisce nel solco della giurisprudenza più attenta alla distinzione tra reati istantanei e permanenti. Essa consolida il principio secondo cui la natura della condotta (distruzione vs occultamento) è decisiva nel determinare il momento di consumazione del reato e, conseguentemente, il dies a quo della prescrizione. Tale ricostruzione, oltre a garantire la coerenza sistematica del diritto penale tributario, ha importanti riflessi operativi in fase di indagine e di giudizio.

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LAVORO: LA CONSULTA DICHIARA INCOSTITUZIONALE IL TETTO MASSIMO DI SEI MENSILITÀ PER L’INDENNITÀ SPETTANTE NELLE PICCOLE IMPRESE

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Corte costituzionale


La Corte costituzionale, con la sentenza n. 118/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui imponeva, per le piccole imprese, un limite massimo inderogabile di sei mensilità per l’indennità spettante in caso di licenziamento illegittimo. Il presente contributo analizza le implicazioni giuridiche della pronuncia, i riferimenti normativi e giurisprudenziali, e il rapporto con i principi costituzionali di proporzionalità, adeguatezza e tutela effettiva del lavoratore.


1. Introduzione

Il tema delle tutele in caso di licenziamento illegittimo nel contesto delle micro e piccole imprese è da anni al centro del dibattito giuslavoristico. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 118 del 2025, torna a pronunciarsi sul d.lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), segnando un nuovo e rilevante passo verso la personalizzazione del risarcimento e la salvaguardia dell’equità sostanziale nei rapporti di lavoro, anche in realtà aziendali di dimensioni contenute.


2. La norma censurata: art. 9, comma 1, d.lgs. 23/2015

L’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 prevedeva che, nei casi di licenziamento dichiarato illegittimo da parte di datori di lavoro al di sotto della soglia dimensionale di cui all’art. 18, L. n. 300/1970, l’indennità risarcitoria dovesse essere determinata in misura pari alla metà di quanto previsto per le imprese maggiori, e comunque “non superiore a sei mensilità”.

Tale limite operava in modo fisso e insuperabile, a prescindere dalla natura della violazione (formale, procedurale o sostanziale), restringendo di fatto l’ambito del potere valutativo del giudice e la tutela effettiva del lavoratore.


3. La decisione della Corte costituzionale

Con la sentenza n. 118/2025, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del limite massimo di sei mensilità, rilevando la violazione di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, in particolare:

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori licenziati illegittimamente da datori di diverse dimensioni aziendali;
  • Art. 24 Cost., per la compressione dell’effettività della tutela giurisdizionale;
  • Art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che impone una “tutela adeguata” in caso di licenziamento ingiustificato.

Secondo la Consulta, l’imposizione di un tetto rigido e predefinito impedisce al giudice di modulare l’indennizzo sulla base della concreta entità del pregiudizio subito, vanificando la funzione sia compensativa che dissuasiva della sanzione.


4. Le conseguenze applicative della pronuncia

La pronuncia comporta un profondo mutamento del sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per le piccole imprese. Ferma restando la regola del dimezzamento dell’indennizzo rispetto a quanto previsto per le imprese soggette all’art. 18 St. lav., viene eliminato il tetto massimo di sei mensilità, permettendo ora al giudice di riconoscere un’indennità compresa tra un minimo di tre e un massimo di diciotto mensilità.

Si delinea, così, un sistema maggiormente conforme ai criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, che consente al giudice di valutare in concreto la gravità della condotta datoriale, la durata del rapporto, le condizioni del lavoratore e il danno effettivamente patito.


5. Profili sistematici e giurisprudenziali

La decisione si pone in linea di continuità con la precedente sentenza n. 183/2022, con cui la Consulta aveva già sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale del medesimo art. 9, sollecitando il legislatore a un intervento correttivo. L’inerzia parlamentare ha dunque determinato l’intervento diretto della Corte.

Non si tratta, peraltro, di una posizione isolata: già numerosi giudici del lavoro avevano sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione, lamentando la compressione dell’autonomia valutativa e l’inadeguatezza delle soglie imposte dal legislatore delegato.


6. Il ruolo del numero dei dipendenti e la sostenibilità dell’indennizzo

La Corte ha sottolineato come il criterio meramente quantitativo della soglia occupazionale non possa essere assunto quale unico indicatore della capacità economica dell’impresa. In ambito europeo – e in settori ordinamentali contigui, come la crisi d’impresa – il numero dei dipendenti rappresenta un parametro importante, ma non esclusivo per misurare la sostenibilità dell’obbligo risarcitorio.


7. Spunti di riflessione e prospettive de iure condendo

Il venir meno del tetto massimo rappresenta un passo importante verso una maggiore equità del sistema sanzionatorio, ma resta aperto il problema della disomogeneità tra il regime ordinario e quello delle tutele crescenti, nonché la mancata estensione delle tutele reintegratorie, che in molti casi appaiono ancora precluse, anche in presenza di licenziamenti palesemente discriminatori o gravemente viziati.

L’auspicio espresso dalla Corte circa un intervento del legislatore è chiaro: un riordino sistematico della disciplina dei licenziamenti, che superi le attuali disarmonie e garantisca tutele proporzionate, effettive e conformi agli standard internazionali e costituzionali.


8. Conclusioni

La sentenza n. 118/2025 si inserisce nel solco di una giurisprudenza costituzionale sempre più attenta alla concretezza delle tutele del lavoratore e alla necessità di sanzioni risarcitorie effettivamente deterrenti. La decisione non solo rafforza la posizione del lavoratore nei confronti del datore, ma sollecita il legislatore a colmare un vuoto normativo ormai divenuto insostenibile sul piano della legittimità costituzionale e della giustizia sociale.


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REATI TRIBUTARI: LA CASS. PEN., SEZ. III, SENT. N. 2654572025 SULLA COMPETENZA DICHIARATIVA AI FINI DELLE IMPOSTE SUI REDDITI NEI PERIODI POST-FALLIMENTARI SPETTANTE AL CURATORE

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TITOLO SEO-OTTIMIZZATO:
Reati Tributari e Fallimento: La Competenza Dichiarativa del Curatore nei Periodi Post-Fallimentari – Nota a Cass. pen., Sez. III, n. 26545/2025



La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 26545/2025 affronta la questione della titolarità dell’obbligo dichiarativo ai fini delle imposte sui redditi in caso di fallimento dell’imprenditore. La Corte ha chiarito che, a decorrere dalla sentenza dichiarativa di fallimento, la competenza a presentare le dichiarazioni fiscali – compresa quella relativa all’anno in cui il fallimento è stato dichiarato – spetta al curatore fallimentare. Si approfondiscono i riflessi penal-tributari della pronuncia, con particolare attenzione all’omessa dichiarazione ex art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, e alle ricadute pratiche per la gestione del passivo fiscale fallimentare.


1. Introduzione: il reato di omessa dichiarazione nel contesto del fallimento

L’art. 5 del d.lgs. n. 74/2000 punisce il contribuente che omette di presentare, entro il termine previsto dalla legge, la dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi o dell’IVA, qualora l’imposta evasa superi determinate soglie di punibilità. Tale norma assume connotati particolari quando l’obbligato si trovi in stato di fallimento.

In questo contesto si inserisce la sentenza Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2025, n. 26545, che si pronuncia sul soggetto legittimato a presentare la dichiarazione fiscale per i periodi d’imposta successivi – e compreso quello in cui è intervenuta – la sentenza di fallimento. La pronuncia si sofferma sul rapporto tra obblighi dichiarativi e subentro del curatore fallimentare nella gestione del patrimonio del fallito, contribuendo a chiarire un punto nevralgico della responsabilità penale in materia tributaria.


2. La vicenda processuale e il principio di diritto affermato

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguarda un’imputazione per omessa dichiarazione dei redditi ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, contestata all’imprenditore dichiarato fallito. La difesa dell’imputato ha sostenuto l’inapplicabilità della norma al fallito, ritenendo che l’obbligo di presentazione della dichiarazione, per l’anno in cui è stata pronunciata la sentenza di fallimento e per quelli successivi, dovesse ritenersi trasferito in capo al curatore.

La Corte ha accolto tale impostazione, affermando il seguente principio di diritto:

“La competenza alla presentazione delle dichiarazioni fiscali, per i periodi di imposta successivi alla sentenza di fallimento – compreso quello in cui la stessa è intervenuta – spetta al curatore fallimentare, in quanto unico soggetto legittimato alla gestione del patrimonio del fallito e all’adempimento degli obblighi fiscali riferiti alla procedura concorsuale.”


3. La posizione del curatore fallimentare e l’estinzione della soggettività fiscale del fallito

Ai sensi degli artt. 31 ss. l. fall., il curatore assume la gestione dell’intero patrimonio del fallito, subentrando nella titolarità degli obblighi fiscali connessi all’attività imprenditoriale pregressa. In particolare, la Circolare Agenzia delle Entrate n. 38/E/2008 ha chiarito che il curatore è tenuto a presentare le dichiarazioni fiscali relative all’annualità in cui è intervenuta la dichiarazione di fallimento, nonché a quelle successive, anche se riferite a redditi o operazioni maturati in parte prima della procedura.

Pertanto, sul piano penalistico, la titolarità dell’obbligo dichiarativo si sposta dal soggetto fallito al curatore. Ne deriva che l’omessa presentazione della dichiarazione, da parte del curatore, potrà dar luogo a responsabilità penale solo in capo a quest’ultimo, ove ne ricorrano gli estremi soggettivi.


4. Le conseguenze in punto di responsabilità penale

La pronuncia in commento si pone in linea con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, a seguito della dichiarazione di fallimento, il fallito perde la capacità di disporre del proprio patrimonio e di compiere atti giuridicamente rilevanti anche nei confronti dell’erario.

Il reato di omessa dichiarazione, che presuppone la sussistenza di un obbligo personale in capo al soggetto agente, non può pertanto essere contestato all’imprenditore fallito per i periodi post-fallimentari, in quanto tale obbligo grava, ex lege, sul curatore.

Si delinea così una linea di demarcazione netta tra i periodi ante e post fallimento, che assume rilievo non solo sotto il profilo della titolarità dell’obbligo fiscale, ma anche ai fini dell’individuazione del soggetto penalmente responsabile in caso di omissioni dichiarative.


5. Riflessioni critiche e implicazioni pratiche

La sentenza n. 26545/2025 rappresenta un importante punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario e concorsuale. In primo luogo, rafforza la centralità del curatore fallimentare quale soggetto titolare degli obblighi dichiarativi post-fallimentari, confermando un principio già accolto dalla prassi amministrativa.

In secondo luogo, chiarisce i confini della responsabilità penale per omessa dichiarazione, escludendola in capo al fallito nei casi in cui il periodo d’imposta sia coperto, anche solo parzialmente, dalla procedura concorsuale.

Ciò impone al curatore una maggiore attenzione nella gestione dei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, dovendo egli assicurare la tempestiva presentazione delle dichiarazioni anche in presenza di carenza documentale o incertezza circa la composizione attiva e passiva del patrimonio del fallito.


6. Conclusioni

La Cassazione penale, Sez. III, n. 26545/2025 si inserisce in un filone interpretativo volto a delimitare con precisione la responsabilità penale tributaria nel contesto della procedura fallimentare. Ribadendo che la competenza alla dichiarazione fiscale post-fallimentare spetta al curatore, la Corte esclude la punibilità del fallito per l’omessa presentazione della dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000, a meno che l’omissione si riferisca a un periodo d’imposta integralmente precedente alla dichiarazione di fallimento.

Tale indirizzo appare coerente con i principi della materia concorsuale e con il principio di personalità della responsabilità penale, restituendo certezza applicativa in un settore caratterizzato da frequenti incertezze interpretative.

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Corte di Cassazione, Sez. III penale, Sent. n. 26545/2025 integrale, in formato pdf:


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