CASS. ORD. N. 27572/24 SULL’AMIANTO: RIBADITO IL PRINCIPIO DELL’EQUIVALENZA CAUSALE ANCHE IN PRESENZA E DELLA RESPONSABILITÀ PROPORZIONALE PER CONSUMO DI TABACCO DELLA VITTIMA

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Schema del principio dell’equivalenza delle condizioni

L’ordinanza n. 27572/2024 della Cassazione rappresenta un importante intervento in materia di responsabilità del datore di lavoro e risarcimento del danno, in contesti caratterizzati da esposizione a sostanze nocive e da fattori personali di rischio, quali il tabagismo.

In questo specifico caso, il lavoratore impiegato in uno stabilimento siderurgico ha subito un’esposizione prolungata all’amianto, una sostanza riconosciuta come cancerogena, che ha contribuito all’insorgenza di una neoplasia polmonare. La Corte d’Appello di Lecce aveva già accertato il nesso causale tra l’attività lavorativa e la patologia tumorale, stabilendo la responsabilità dell’azienda e condannando quest’ultima al pagamento di un risarcimento significativo a favore degli eredi del lavoratore deceduto.

Una delle questioni centrali sottolineate dalla Cassazione riguarda il tabagismo del lavoratore, che, pur essendo considerato un fattore concausale, non interrompe il nesso causale con l’esposizione all’amianto. Questo implica che, sebbene il fumo possa aver contribuito allo sviluppo della malattia, resta prevalente la responsabilità del datore di lavoro per la condotta negligente nell’esposizione a sostanze nocive.

Tuttavia, la Corte ha anche evidenziato l’importanza di considerare la condotta del danneggiato ai fini della quantificazione del risarcimento. Secondo la Corte, il comportamento di fumo costituisce un atto libero e consapevole, e pertanto è giustificato un adeguamento del risarcimento in base all’entità del contributo causale del tabagismo rispetto all’evento dannoso.

Questo approccio riflette il principio di personalizzazione del danno e la responsabilità proporzionale, che richiede una valutazione accurata del rapporto tra le varie cause che hanno portato alla situazione dannosa. Così, in caso di concorso di cause, sarà compito della Corte di Appello di Bari determinare specificamente l’ammontare del risarcimento tenendo conto di tutti i fattori coinvolti.

In sintesi, l’ordinanza della Cassazione chiarisce non solo l’obbligo del datore di lavoro di risarcire per danni derivanti da esposizione professionale a sostanze nocive, ma anche la necessità di una valutazione equilibrata dei fattori personali che possono influenzare il danno subito, segnalando come la responsabilità civile si basi su un’analisi complessiva delle cause.

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Per la lettura integrale della ordinanza della Cassazione n. 27572/2024, digitare il Download sottostante:

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INIBIZIONE DELL’ATTIVITÀ STRAGIUDIZIALE PER L’AVVOCATO SOSPESO

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La sentenza n. 216/2024 del Consiglio Nazionale Forense (CNF) ribadisce che un avvocato sospeso non può esercitare la propria attività professionale, nemmeno in ambito stragiudiziale. Questo principio è stato dimostrato attraverso la vicenda di un’avvocatessa sanzionata con un anno di sospensione dalla professione dal Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Milano. I motivi della sospensione includevano violazioni disciplinari, tra cui l’invio di un atto di diffida durante il periodo di sospensione e l’assenza ingiustificata da un’udienza penale.

Nel ricorso al CNF, la professionista ha contestato la sanzione, sostenendo di non essere stata ascoltata e di aver agito in buona fede riguardo all’atto di diffida. Tuttavia, il CNF ha ribadito che la mancata comparizione all’udienza disciplinare è una scelta personale e non costituisce violazione del diritto di difesa, a meno che non ci siano validi motivi per l’assenza. La Corte ha anche evidenziato che l’avvocato, durante la sospensione, ha l’obbligo di astenersi da qualsiasi attività professionale, in quanto il riconoscimento della sanzione implica anche la consapevolezza delle sue conseguenze.

In conclusione, il CNF ha confermato la sanzione del CDD di Milano, considerandola congrua e adeguata alla gravità delle violazioni contestate, segnando così un intervento significativo sulla condotta professionale degli avvocati in temporanea sospensione.

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VIOLAZIONE DELLA PRIVACY: ACCEDE ABUSIVAMENTE CHIUNQUE E DI QUALSIASI RUOLO, UTILIZZI PASSWORD SENZA AUTORIZZAZIONE

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La sentenza n. 40295 della Cassazione, depositata recentemente, stabilisce chiaramente che il reato si configura anche nel caso in cui a utilizzare le credenziali di accesso sia un superiore del dipendente che ha fornito le credenziali stesse. Questo principio sottolinea l’importanza della responsabilità nell’accesso ai sistemi informatici e tutela la sicurezza e la riservatezza delle informazioni aziendali. In questo contesto, la giurisprudenza della Cassazione sembra voler inviare un messaggio forte e chiaro sulla gravità di tali comportamenti, indipendentemente dalla posizione gerarchica dell’autore del reato.

La sentenza della Cassazione in oggetto analizza un caso di “accesso abusivo ad un sistema informatico” all’interno di un contesto lavorativo, chiarendo i limiti dell’accesso ai sistemi informatici aziendali anche per i dipendenti in posizioni gerarchicamente superiori. La Corte ha stabilito che, anche se un dipendente è in una posizione di comando rispetto ad un altro, non può accedere ai dati senza l’autorizzazione specifica del datore di lavoro. La richiesta di credenziali a un subordinato per accedere a sistemi protetti è già di per sé una violazione, a prescindere dalle intenzioni del dipendente.

In particolare, nel caso esaminato, un direttore di un albergo di Chianciano Terme si era fatto rivelare le credenziali di accesso al sistema informatico dell’azienda per controllare il lavoro di una sua collaboratrice. La Suprema Corte ha evidenziato che il fatto di essere un superiore gerarchico non conferisce automaticamente il diritto di accedere a informazioni protette. Ogni dipendente ha la propria “chiave” di accesso, che rappresenta l’autorizzazione all’entrata nel sistema, e quell’accesso deve essere giustificato dal datore di lavoro.

La Corte ha anche sottolineato che la protezione dei dati con credenziali implica una chiara volontà del datore di limitare l’accesso a determinate informazioni. La difesa del ricorrente, che affermava di avere in passato accesso a quei dati, è stata respinta come insufficiente a giustificare l’accesso abusivo, evidenziando che il cambiamento nella politica aziendale era esplicito nel fatto che dovesse ricevere le credenziali da un’altra dipendente.

In conclusione, la Corte ha ribadito che l’accesso a dati protetti senza autorizzazione costituisce reato, indipendentemente dalla posizione del dipendente, stabilendo un principio significativo in materia di cybersicurezza e protezione dei dati nell’ambiente di lavoro.

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