Cassazione n. 3698: sussiste cessione d’azienda anche se il complesso ceduto ha un’attitudine all’esercizio dell’impresa
La Corte di Cassazione, con la ordinanza n. 3698 del 2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di cessione d’azienda, affermando che la cessione sussiste anche quando il complesso di beni trasferito ha un’attitudine potenziale all’esercizio dell’impresa, indipendentemente dal fatto che l’attività sia effettivamente in corso al momento del trasferimento.
Principi giuridici della sentenza
La Cassazione ha confermato che, per configurare una cessione d’azienda ai sensi dell’art. 2555 c.c., è sufficiente che il complesso di beni ceduto sia idoneo allo svolgimento di un’attività imprenditoriale, anche solo potenzialmente. Non è necessario che l’impresa sia operativa al momento della cessione, né che il cessionario la attivi immediatamente dopo l’acquisto.
Conseguenze fiscali e giuslavoristiche
Dal punto di vista fiscale, il trasferimento di un complesso aziendale ha implicazioni differenti rispetto alla cessione di singoli beni, in particolare per quanto riguarda l’applicazione dell’IVA e delle imposte dirette. Sul piano giuslavoristico, la cessione d’azienda determina l’applicazione dell’art. 2112 c.c., con la continuità dei rapporti di lavoro e il mantenimento dei diritti acquisiti dai lavoratori.
Precedenti giurisprudenziali e orientamenti dell’Agenzia delle Entrate
Questa interpretazione è in linea con precedenti decisioni della Cassazione e con l’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, che nella risposta n. 149/2024 aveva chiarito che la cessione d’azienda deve riguardare un insieme organizzato di beni e rapporti giuridici, non singoli asset isolati.
Implicazioni pratiche
Questa sentenza è particolarmente rilevante per operazioni di riorganizzazione aziendale, concordati preventivi e operazioni straordinarie, poiché consente di qualificare come cessione d’azienda anche trasferimenti di beni non immediatamente operativi, purché idonei all’attività d’impresa.
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Cassazione Civile, ordinanza n. 3698 integrale, in versione PDF:
L’individuazione del soggetto legittimato a votare nel concordato preventivo, in caso di crediti bancari garantiti da enti pubblici, è una questione controversa.
La giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 18148/2023) ha stabilito che il credito sorge al momento del rilascio della garanzia ed è condizionato sospensivamente all’inadempimento del garantito. Tuttavia, rimangono dubbi sull’esistenza del credito del fondo di garanzia statale:
• Ipotesi 1: Il credito esiste ex ante, al momento dell’erogazione del finanziamento garantito. In questo caso, la banca sarebbe titolare solo della parte di credito non coperta dalla garanzia e voterebbe esclusivamente per questa.
• Ipotesi 2: Il credito sorge ex post, a seguito dell’escussione della garanzia. Qui la banca, fino al pagamento del garante, sarebbe considerata titolare del 100% del credito ed eserciterebbe il diritto di voto per l’intero, se l’escussione avvenisse dopo il voto.
La decisione del Tribunale di Firenze
Un recente intervento giurisprudenziale è rappresentato dalla sentenza del Tribunale di Firenze (8 gennaio 2025).
Nel caso esaminato, la debitrice aveva suddiviso i crediti garantiti da Mediocredito Centrale (MCC) e SACE in due classi distinte:
• Classe 7: Creditori privilegiati (MCC e SACE), con un pagamento dell’88,58% del credito.
• Classe 17: Gli stessi creditori, ma per la parte degradata al chirografo per incapienza, con un pagamento del 5,13%.
La proposta concordataria, dunque, aveva anticipato l’escussione della garanzia, classificando i crediti MCC/SACE tra i privilegiati, indipendentemente dal momento dell’escussione della garanzia e del pagamento da parte del Fondo.
Tuttavia, la proposta non ha considerato l’eventualità che, in caso di mancata escussione o contestazione della garanzia, il privilegio non avrebbe operato e i crediti sarebbero stati classificati come chirografari. Questa incertezza ha portato i garanti pubblici a esprimere dubbi sulla titolarità del diritto di voto.
Per risolvere il problema, il Tribunale di Firenze ha ammesso al voto anche le banche garantite per l’intero credito.
Le conseguenze della decisione
Dopo la decisione del Tribunale:
• SACE ha dichiarato la propria titolarità del diritto di voto ed espresso il voto per l’intero credito garantito. Di conseguenza, nessuna delle banche garantite ha votato per la parte di credito coperta dalla garanzia.
• MCC, invece, ha dichiarato di non ritenersi titolare del diritto di voto, lasciando che fossero le banche garantite a votare per l’intero importo del credito.
Questa scelta ha generato un “rimbalzo” del voto tra garanti e creditori garantiti, con effetti opposti ma sincronizzati.
Implicazioni e scenari futuri
Nel caso specifico, la decisione ha garantito una piena partecipazione al voto, ma non è detto che questa soluzione sia sempre efficace. Se dovessero insorgere conflitti tra garante e garantito sulla titolarità del credito, potrebbero verificarsi due scenari critici:
1. Voto multiplo per lo stesso credito.
2. Mancata espressione del voto in caso di conflitto negativo.
In tali situazioni, troverebbe applicazione l’articolo 108, comma 1, del Codice della crisi d’impresa, che disciplina l’ammissione provvisoria al voto per i crediti contestati. In particolare, in caso di apertura del subprocedimento previsto dall’articolo 107, comma 4, il giudice può ammettere il creditore ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze.
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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle implicazioni pratiche potete contattare:
STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno Piazza Mazzini, 27 – 00195 – Roma
L’articolo 17 della Legge 203/2024 introduce deroghe al divieto di applicazione del regime forfettario per le persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro. In particolare, la norma estende l’applicazione di questo regime, a determinate condizioni, anche:
• alle persone fisiche iscritte ad albi e/o repertori professionali;
• alle persone fisiche esercenti attività di lavoro autonomo.
Modifiche alla disciplina dei contratti di lavoro
Uno degli interventi più significativi del cosiddetto Collegato lavoro riguarda i contratti di lavoro. In questo ambito, la Legge 203/2024 introduce diverse novità:
• Somministrazione di lavoro: l’articolo 10 amplia le esenzioni dai limiti applicativi di questa tipologia contrattuale.
• Attività stagionali: l’articolo 11 introduce un’interpretazione autentica sulla loro esclusione dai termini dilatori per la riassunzione a tempo determinato.
• Periodo di prova nei contratti a tempo determinato: modifiche apportate dall’articolo 13.
• Comunicazioni obbligatorie sul lavoro agile: nuova disciplina prevista dall’articolo 14.
• Modifiche ai contratti di apprendistato e al sistema duale: novità introdotte dagli articoli 18 e 19.
• Risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata: disciplina innovata dall’articolo 19.
Di seguito, un’analisi dettagliata delle principali modifiche.
Modifiche alla disciplina della somministrazione di lavoro
Soppressione della disciplina transitoria (art. 10, comma 1, lett. a, n. 1)
L’articolo 10 della Legge 203/2024 elimina una disciplina transitoria relativa alla durata complessiva delle missioni a tempo determinato presso un soggetto utilizzatore.
Attualmente, fino al 30 giugno 2025, una missione può superare il limite di 24 mesi (anche non continuativi) se:
1. il contratto di lavoro tra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore è a tempo determinato;
2. l’agenzia comunica all’utilizzatore l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore.
Con la soppressione di questa norma, il limite di 24 mesi diventerà generalizzato, applicandosi a tutte le missioni senza eccezioni specifiche.
Nuove esenzioni dai limiti quantitativi (art. 10, comma 1, lett. a, n. 2)
Vengono introdotte due nuove esenzioni dal computo dei limiti quantitativi sulla somministrazione a tempo determinato:
1. Contratti a tempo indeterminato tra lavoratore e agenzia di somministrazione.
2. Missioni equiparabili a contratti a tempo determinato già esclusi dai limiti quantitativi previsti per altri settori.
Queste esenzioni si aggiungono a quelle già previste per:
• soggetti in mobilità;
• disoccupati percettori di ammortizzatori sociali da almeno sei mesi;
• lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati (Regolamento UE n. 651/2014).
Esclusione di alcune fattispecie dalle “causali” (art. 10, comma 1, lett. b)
Viene ampliata la platea di contratti a tempo determinato tra agenzie di somministrazione e lavoratori che non devono rispettare le “causali” (presupposti per contratti di durata superiore ai 12 mesi, fino a un massimo di 24).
Le nuove esclusioni riguardano:
• disoccupati percettori di ammortizzatori sociali da almeno sei mesi;
• lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, come definiti dal Regolamento UE n. 651/2014.
Conferma del limite quantitativo del 30%
La Legge 203/2024 mantiene il tetto massimo di lavoratori assunti a tempo determinato o in somministrazione:
• Il numero di lavoratori somministrati o a tempo determinato non può superare il 30% dei dipendenti a tempo indeterminato presenti presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipulazione del contratto.
• Il calcolo considera anche i lavoratori a tempo determinato assunti direttamente dall’utilizzatore.
• Sono fatte salve eventuali deroghe previste dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore.
Conclusione
Le modifiche introdotte dalla Legge 203/2024 sulla somministrazione di lavoro e sui contratti a tempo determinato hanno un impatto significativo sulle imprese e sui lavoratori. In particolare:
• L’ampliamento delle esenzioni dai limiti quantitativi facilita l’uso della somministrazione a tempo determinato in determinati casi.
• L’eliminazione della disciplina transitoria uniforma il limite massimo di 24 mesi per tutte le missioni.
• Le nuove esclusioni dalle causali favoriscono l’occupabilità di categorie svantaggiate.
Resta da verificare se queste modifiche produrranno l’effetto desiderato di maggiore flessibilità senza compromettere la stabilità lavorativa.
Deroghe al regime forfetario (art. 17)
L’articolo 17 introduce deroghe al divieto di applicazione del regime forfetario per le persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro. A talune condizioni, la norma estende l’applicazione del regime anche a:
• persone fisiche iscritte ad albi e/o repertori professionali,
• persone fisiche esercenti attività di lavoro autonomo.
Modifiche ai contratti di lavoro
Il Collegato lavoro interviene in diversi ambiti della disciplina contrattuale:
• Somministrazione di lavoro (art. 10): ampliamento delle esenzioni dai limiti quantitativi.
• Contratti a termine e attività stagionali (art. 11): norma di interpretazione autentica sull’esclusione delle attività stagionali dai termini dilatori per la riassunzione.
• Periodo di prova nei contratti a tempo determinato (art. 13): nuova durata proporzionale alla durata del contratto.
• Lavoro agile (art. 14): nuovo termine per le comunicazioni obbligatorie.
• Contratti misti (art. 17): deroghe al divieto di applicazione del regime forfetario.
• Apprendistato e sistema duale (art. 18): revisione delle discipline relative.
• Risoluzione per assenza ingiustificata (art. 19): innovazione rilevante nella gestione del rapporto di lavoro.
Somministrazione di lavoro (art. 10)
Soppressione della disciplina transitoria
L’articolo 10, comma 1, lettera a), numero 1), elimina la norma transitoria sulla durata delle missioni a tempo determinato presso lo stesso utilizzatore. Attualmente, la durata massima di 24 mesi (anche non continuativi) era superabile in presenza di un contratto a tempo determinato convertito successivamente a tempo indeterminato. La soppressione generalizza il limite di 24 mesi per tutte le missioni.
Nuove esenzioni dai limiti quantitativi
Il numero 2) della lettera a) introduce due nuove esenzioni dal computo dei limiti quantitativi per la somministrazione a tempo determinato:
• lavoratori con contratto a tempo indeterminato presso il somministratore,
• missioni corrispondenti a contratti a termine già esclusi da limiti quantitativi in altri settori.
Esclusione di alcune fattispecie dalle causali
La lettera b) esclude alcune tipologie di contratti a termine tra agenzie di somministrazione e lavoratori dall’applicazione delle cosiddette causali (presupposti per durate superiori a 12 mesi). L’esclusione riguarda:
• disoccupati con almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione o ammortizzatori sociali,
• lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi del regolamento UE 651/2014.
3. Maggiore flessibilità nel sistema duale dell’apprendistato (Art. 18).
Limiti quantitativi e computo delle esclusioni
Il numero complessivo di lavoratori assunti a tempo determinato o in somministrazione a termine non può superare il 30% del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di stipula. Questo limite include anche i contratti a tempo determinato diretti dello stesso utilizzatore.
Attualmente, le categorie già escluse dal computo sono:
• soggetti in mobilità,
• disoccupati con almeno sei mesi di disoccupazione o ammortizzatori sociali,
• lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati.
Contratti a termine e attività stagionali (art. 11)
L’articolo 11 introduce una norma di interpretazione autentica (con effetto retroattivo) sulla esclusione delle attività stagionali dai termini dilatori per la riassunzione a tempo determinato.
Attualmente, l’articolo 21, comma 2, del Dlgs 81/2015 stabilisce che il secondo contratto a termine si trasforma in indeterminato se la riassunzione avviene:
• entro 10 giorni dalla scadenza di un contratto fino a 6 mesi,
L’obiettivo della norma è garantire maggiore flessibilità e semplificazione nella programmazione delle risorse, consentendo alle Regioni e alle Province autonome di finanziare più liberamente le attività formative.
• entro 20 giorni dalla scadenza di un contratto superiore a 6 mesi.
La norma conferma che le attività stagionali individuate dai contratti collettivi restano escluse da tali termini.
Periodo di prova nei contratti a tempo determinato (art. 13)
L’articolo 13 modifica l’articolo 7, comma 2, del Dlgs 104/2022, stabilendo che il periodo di prova sia proporzionale alla durata del contratto, con i seguenti limiti:
• Contratti fino a 6 mesi: tra 2 e 15 giorni di prova,
• Contratti superiori a 6 mesi e inferiori a 12 mesi: tra 2 e 30 giorni di prova.
Resta fermo che:
• il periodo di prova non può essere rinnovato per lo stesso lavoratore e mansione,
• in caso di malattia, infortunio, congedo di maternità/paternità, il periodo di prova è sospeso e prolungato per la durata dell’assenza.
Comunicazioni obbligatorie per il lavoro agile (art. 14)
L’articolo 14 modifica l’articolo 23, comma 1, della legge 81/2017, stabilendo che il datore di lavoro debba comunicare al Ministero del Lavoro:
• i nominativi dei lavoratori in lavoro agile,
• la data di inizio e fine delle prestazioni,
• eventuali modifiche della durata o cessazione.
Queste informazioni vanno comunicate entro 5 giorni dall’inizio del lavoro agile o dalla variazione.
Le modalità restano quelle stabilite dal DM 22 agosto 2022, n. 149, con l’utilizzo del modello di “Comunicazione Accordo di Lavoro Agile”.
1. Politiche formative nell’apprendistato (Art. 15, Legge 203/2024).
La Legge 203/2024 amplia l’utilizzo delle risorse del Fondo sociale per occupazione e formazione (15 milioni di euro annui) per la formazione in apprendistato, estendendole a tutte le tipologie di apprendistato (e non solo a quello professionalizzante).
In precedenza, le risorse del Fondo erano vincolate esclusivamente all’apprendistato professionalizzante (art. 1, comma 110, lettera c), Legge 205/2017), lasciando fuori l’apprendistato duale e quello di alta formazione e ricerca. Ora, invece, si amplia l’ambito di applicazione del finanziamento.
2. Contratti misti e regime forfettario (Art. 17, Legge 203/2024)
L’articolo 17 introduce un’eccezione alla causa ostativa che impediva di applicare il regime forfettario ai lavoratori autonomi che operano prevalentemente con il proprio datore di lavoro.
Ora possono accedere al regime forfettario anche i liberi professionisti e collaboratori iscritti ad albi professionali che abbiano un contratto di lavoro subordinato a tempo parziale (40-50% del full-time) con un datore di lavoro con più di 250 dipendenti.
Inoltre, il regime forfettario può essere applicato anche a lavoratori autonomi non iscritti ad albi, se ciò avviene in base a specifiche intese collettive aziendali o territoriali.
Prima della Legge 203/2024, la causa ostativa (art. 1, comma 57, lettera d-bis, Legge 190/2014) escludeva dal regime forfettario chi lavorava prevalentemente con un ex datore di lavoro degli ultimi due anni o con soggetti a lui riconducibili.
Ora questa esclusione viene attenuata, permettendo un doppio regime di lavoro (subordinato part-time + partita IVA forfettaria), ma solo se il datore di lavoro ha almeno 250 dipendenti.
3. Unico contratto di apprendistato duale (Art. 18, Legge 203/2024).
L’articolo 18 modifica la disciplina dell’apprendistato duale, consentendo la trasformazione del contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma non solo in apprendistato professionalizzante, ma anche in apprendistato di alta formazione e ricerca.
Prima della Legge 203/2024, il contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma (art. 43, D.lgs. 81/2015) poteva solo essere convertito in apprendistato professionalizzante. Ora, invece, si aggiunge anche la possibilità di transizione verso l’apprendistato di alta formazione e ricerca, rendendo il sistema più flessibile.
4. Risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata (Art. 19, Legge 203/2024).
Viene introdotta una norma che prevede la risoluzione automatica del rapporto di lavoro se un lavoratore si assenta ingiustificatamente per più di 15 giorni (o per il termine stabilito dal CCNL applicato).
La risoluzione viene considerata volontaria da parte del lavoratore, senza necessità di dimissioni telematiche, salvo casi di forza maggiore.
Il datore di lavoro dovrà comunicare l’assenza all’Ispettorato del Lavoro, che potrà effettuare verifiche.
Confronto con la normativa precedente
Prima di questa norma, per interrompere un rapporto di lavoro in caso di assenza ingiustificata era necessario un procedimento disciplinare o una contestazione formale seguita da licenziamento per giusta causa. Inoltre, la normativa sulle dimissioni prevedeva l’obbligo delle dimissioni telematiche.
Ora, invece:
• Si velocizza la procedura → dopo 15 giorni di assenza, il rapporto si considera risolto automaticamente per volontà del lavoratore.
• Si escludono le dimissioni telematiche → il datore non deve attendere che il lavoratore formalizzi le dimissioni.
• Si garantisce un controllo ispettivo → per evitare abusi da parte dei datori di lavoro.
Conclusioni
La Legge 203/2024 introduce diverse semplificazioni e flessibilità in materia di apprendistato, regime forfettario e gestione dei rapporti di lavoro.
Le principali novità sono:
1. Maggior libertà di finanziamento per la formazione in apprendistato (Art. 15).
2. Possibilità per alcuni lavoratori di combinare lavoro dipendente e regime forfettario (Art. 17).
4. Procedura automatizzata per la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di assenza ingiustificata (Art. 19).
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Le clausole di un contratto di assicurazione contro gli infortuni nell’ambito di un rapporto di lavoro devono essere valutate nel loro insieme. Se, considerate nel complesso, presentano un margine di ambiguità, vanno interpretate a favore del contraente che non le ha predisposte, ovvero il lavoratore.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 3013/2025, che ha accolto (con rinvio) il ricorso di un dirigente d’azienda contro Generali Italia. La compagnia gli aveva negato l’indennizzo sostenendo che non vi fosse prova che la perdita del posto fosse dovuta a una malattia professionale.
Il caso: un dirigente colpito da infarto perde il lavoro
Il ricorrente, un manager assunto dall’Anas con un contratto biennale, godeva di un’assicurazione contro il rischio di infortuni e malattie. Prima della scadenza del contratto, aveva ricevuto un’offerta di assunzione a tempo indeterminato, ma prima di perfezionare il passaggio è stato colpito da un infarto. A causa delle conseguenze dell’evento, l’assunzione non è andata in porto.
Quando ha chiesto l’indennizzo, Generali lo ha rifiutato, sostenendo che il contratto prevedeva il pagamento solo nel caso in cui l’infortunio o la malattia avesse causato la cessazione del rapporto di lavoro. Nel caso specifico, invece, il rapporto era terminato per la naturale scadenza del termine.
Il giudizio: Cassazione ribalta la sentenza d’Appello
Il manager ha presentato ricorso e il Tribunale gli ha dato ragione. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ribaltato il verdetto, ritenendo che non vi fosse prova del nesso tra la malattia e la cessazione del rapporto, che sarebbe invece avvenuta per ragioni organizzative.
In Cassazione, il ricorrente ha contestato l’erronea interpretazione del contratto, sostenendo che non subordinava il pagamento dell’indennizzo alla risoluzione del rapporto di lavoro.
L’ambiguità contrattuale e il principio di interpretazione contro il predisponente
La Terza sezione civile ha accolto il ricorso, evidenziando che il contratto conteneva ambiguità non spiegabili.
• L’art. 1 subordinava il pagamento dell’indennizzo alla cessazione del rapporto di lavoro a causa dell’evento lesivo.
• L’art. 16, però, richiedeva la prova della cessazione solo “se avvenuta”, suggerendo che l’indennizzo potesse spettare anche in caso contrario.
• L’art. 18 consentiva all’assicuratore di accertare l’invalidità anche nel caso in cui il rapporto di lavoro non fosse cessato, in apparente contraddizione con l’art. 1.
Queste incongruenze, secondo la Cassazione, dimostrano che la Corte d’Appello ha commesso due errori:
1. Non ha valutato il contratto nel suo complesso, esaminando solo alcune clausole.
2. Non ha applicato il principio di interpretazione contro il predisponente (art. 1370 c.c.), che impone di risolvere le ambiguità a favore della parte che non ha scritto il contratto, in questo caso il lavoratore.
Conclusione
La Cassazione ha quindi annullato la sentenza d’Appello e rinviato la causa, chiarendo che, in caso di incertezza, le clausole ambigue devono essere interpretate in senso favorevole al contraente più debole: << Interpretatio est contra eum facienda, qui clarius loqui debuisset >>
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Cassazione, ordinanza n. 3013/2025 integrale, in formato PDF:
Con l’ordinanza n. 1254/2025, la Cassazione ha confermato l’orientamento di merito, riconoscendo valore probatorio alla messaggistica digitale WhatsApp nei procedimenti civili.
Il caso
La vicenda è nata da un’opposizione a un decreto ingiuntivo ottenuto da una società per il pagamento di serramenti.
• Primo grado: il Tribunale ha accolto l’opposizione, ritenendo insufficiente la prova del credito.
• Appello: la Corte d’appello ha riformato la decisione, riconoscendo che un messaggio WhatsApp provava l’esistenza del debito legato alla fattura.
• Cassazione: il debitore ha impugnato la sentenza, contestando l’uso di una copia fotografica del messaggio e mettendo in dubbio l’autenticità e la provenienza.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando che i messaggi WhatsApp salvati nella memoria del telefono hanno valore probatorio.
L’art. 633 del Codice di procedura civile, che disciplina l’ammissibilità della tutela monitoria, prevede l’ingiunzione di pagamento su istanza del creditore se il diritto è provato per iscritto, senza specificare se la prova debba essere cartacea o digitale.
WhatsApp come prova documentale
La Cassazione ha chiarito che:
• I messaggi WhatsApp rientrano tra le prove documentali e possono essere acquisiti tramite riproduzione fotografica, come screenshot delle chat.
• La loro validità dipende dalla verifica di provenienza e affidabilità.
• Sono considerati documenti elettronici, in quanto atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti (art. 2712 c.c.).
• Hanno efficacia probatoria, salvo contestazione specifica della conformità ai fatti rappresentati.
Implicazioni pratiche
L’uso di WhatsApp è ormai diffuso anche nei contesti lavorativi e commerciali. I messaggi salvati nella memoria del telefono possono essere utilizzati come prova digitale, a condizione che ne sia garantita l’autenticità.
Per un decreto ingiuntivo basato su messaggi WhatsApp, è necessaria:
• La trascrizione delle conversazioni che attestano il riconoscimento del debito.
• La copia stampata degli screenshot, considerata una riproduzione meccanica.
• In caso di contestazione, l’acquisizione del supporto telematico originale o una relazione tecnica che ne attesti la veridicità.
Riconoscimento del debito e promessa di pagamento
Un messaggio WhatsApp in cui si ammette di avere un debito equivale a un riconoscimento dello stesso e configura una vera e propria promessa di pagamento.
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Cassazione Civile, ordinanza n. 1254/2025integrale in versione PDF:
L’obbligo di disporre la confisca di tutti i beni utilizzati per commettere un reato societario, anche nella forma per equivalente, può portare a sanzioni manifestamente sproporzionate ed è quindi incompatibile con la Costituzione.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 7, depositata ieri e redatta da Francesco Viganò. La decisione ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 2641, primo e secondo comma, del Codice civile, che imponeva tale obbligo.
– Dispositivo dell’art. 2641 Codice Civile
<< In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei reati previsti dal presente titolo è ordinata la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo.
Quando non è possibile l’individuazione o l’apprensione die beni indicati nel comma primo, la confisca ha ad oggetto una somma di denaro o beni di valore equivalente.
Per quanto non stabilito nei commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 240 del codice penale. >>
Il caso: la crisi della Banca Popolare di Vicenza
La questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione nel processo relativo alla crisi della Banca Popolare di Vicenza.
In primo grado, il Tribunale di Vicenza aveva disposto la confisca di 963 milioni di euro nei confronti di quattro imputati, ritenendo che tale somma corrispondesse al denaro utilizzato per commettere i reati di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea.
Il calcolo dell’importo confiscato si basava sulla somma di tutti i finanziamenti concessi dalla banca a terzi per acquistare azioni della stessa, senza dichiararli secondo la normativa vigente.
In appello, la Corte di Venezia aveva confermato in parte la responsabilità penale degli imputati, ma aveva revocato la confisca. Secondo i giudici, la misura risultava in contrasto con il principio di proporzionalità delle pene sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il nodo dell’obbligatorietà
Un elemento chiave nella decisione della Consulta è stato l’obbligatorietà della confisca, che impedisce al giudice di modularne l’importo in base al caso concreto.
La confisca, sia diretta sia per equivalente, dei beni utilizzati per commettere reati societari previsti dal Codice civile ha natura di sanzione patrimoniale. Poiché viene disposta dal giudice penale, deve rispettare il principio di proporzionalità della pena.
Questo principio, applicato alle misure patrimoniali, richiede che la sanzione non sia eccessiva rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche dell’autore.
Il problema della sproporzione
La norma contestata imponeva un sacrificio patrimoniale non proporzionato, perché determinato esclusivamente dal valore dei beni utilizzati per commettere il reato.
Secondo la Corte, tale obbligo:
• Non tiene conto dell’effettivo vantaggio economico ottenuto dal reato.
• Non permette al giudice di valutare se l’imputato disponga delle risorse per affrontare la confisca.
• Non considera l’impatto della misura sulla vita futura del soggetto.
Le conseguenze della sentenza
La Corte costituzionale ha escluso la possibilità di sostituire la confisca obbligatoria con una facoltativa, sia nella previsione che nell’importo.
Spetterà ora al legislatore valutare un eventuale intervento normativo.
Resta invece in vigore l’obbligo di confiscare integralmente i profitti ottenuti dal reato, sia in forma diretta sia per equivalente. Inoltre, rimane valida la facoltà del giudice di disporre la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, come previsto dall’articolo 240 del Codice penale, nel rispetto del principio di proporzionalità.
– Dispositivo dell’art. 240 Codice Penale
<< Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto [c.p.p. 676, 733, 316 ss., 321 ss., 86 disp. att. c.p.p.].
È sempre ordinata la confisca:
1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato;
1-bis) dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli articoli 615 ter, 615 quater, 615 quinquies, 617 bis, 617 ter, 617 quater, 617 quinquies, 617 sexies, 635 bis, 635 ter, 635 quater, 635 quinquies, 640, secondo comma, numero 2-ter), 640 ter e 640 quinquies nonché dei beni che ne costituiscono il profitto o il prodotto ovvero di somme di denaro, beni o altre utilità di cui il colpevole ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto, se non è possibile eseguire la confisca del profitto o del prodotto diretti;
2) delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna.
Le disposizioni della prima parte e dei numeri 1 e 1-bis del capoverso precedente non si applicano se la cosa o il bene o lo strumento informatico o telematico appartiene a persona estranea al reato(5). La disposizione del numero 1-bis del capoverso precedente si applica anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale.
La disposizione del numero 2 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa. >>
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STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno Piazza Mazzini, 27 – 00195 – Roma
La Corte di Cassazione ha chiarito che la richiesta di trasfusioni di sangue esclusivamente da donatori non vaccinati contro il Covid-19 “appare essenzialmente una scelta di coscienza religiosa […] che non può essere imposta al minore”. Con l’ordinanza n. 2549, depositata oggi, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dei genitori di un bambino di due anni contro il decreto del giudice tutelare di Modena. Il provvedimento aveva nominato il direttore generale dell’ospedale come curatore del minore, affinché esprimesse il consenso alla trasfusione al posto dei genitori.
Il caso: genitori contrari a trasfusioni con sangue da vaccinati
I ricorrenti sono i genitori di un bambino nato nel gennaio 2020 con una grave malformazione cardiaca. Per il piccolo era stato programmato un intervento chirurgico a gennaio 2022, con elevata probabilità di necessità di trasfusioni di sangue.
I genitori avevano dato il consenso alla trasfusione solo a condizione che il sangue provenisse da donatori non vaccinati contro il Covid-19. Si erano anche attivati per raccogliere personalmente la disponibilità di donatori che rispondessero a questo requisito. La loro posizione era motivata da due ragioni:
• Il timore per la presunta pericolosità della proteina Spike contenuta nel vaccino.
• Motivi religiosi, legati all’uso di linee cellulari provenienti da feti abortiti nella produzione dei vaccini.
Il ruolo dell’ospedale e l’intervento del giudice
L’azienda ospedaliera aveva comunicato ai genitori che non era possibile garantire la provenienza del sangue da donatori non vaccinati, né aderire alla loro richiesta. Per questo motivo, ha presentato ricorso al Giudice tutelare di Modena, chiedendo l’autorizzazione urgente alla trasfusione.
Il Giudice tutelare, con decreto di febbraio 2022, ha nominato il direttore generale dell’ospedale curatore del minore, rilevando che il consenso condizionato equivale a un “non consenso”. Il provvedimento è stato poi confermato dal Tribunale per i minorenni, portando i genitori a ricorrere in Cassazione.
La decisione della Cassazione
La Prima Sezione Civile della Cassazione, dopo un approfondito esame normativo, ha confermato la decisione del giudice tutelare. La Corte ha sottolineato che:
• Esprimere il consenso a un trattamento sanitario imponendo una condizione irrealizzabile equivale a non esprimerlo.
• Le aziende sanitarie seguono protocolli standard per le donazioni di sangue, basati sulle raccomandazioni del Consiglio d’Europa.
Il nodo dell’obiezione di coscienza religiosa
La Cassazione ha affrontato anche il tema dell’obiezione di coscienza religiosa, motivata dalla possibile origine dei vaccini da linee cellulari di feti abortiti. A tal proposito, la Corte ha richiamato la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, che considera questa cooperazione al male “remota”, e ha ricordato che lo stesso Papa Francesco ha incoraggiato la vaccinazione.
Inoltre, i giudici hanno chiarito che il concetto di “identità religiosa del figlio” non è applicabile in questo caso, poiché il bambino è troppo piccolo per avere una propria fede definita. La sua identità religiosa potrebbe evolversi in futuro e non può essere vincolata dalle scelte dei genitori.
Pertanto, “non è accettabile che i genitori adottino decisioni per il minore in cui la loro fede religiosa sia assolutamente condizionante e prevalga in ogni caso sempre e comunque sugli altri interessi del minore”.
Il principio di cautela e la proteina Spike
Infine, la Corte ha respinto anche l’argomento legato alla presunta pericolosità della proteina Spike. La Cassazione ha evidenziato che:
• Non esiste alcuna evidenza scientifica a sostegno di questa tesi.
• Verificare lo stato vaccinale dei donatori non avrebbe garantito il bambino dalla trasmissione della proteina Spike. Anzi, paradossalmente, lo avrebbe potenzialmente esposto a un rischio maggiore.
Durante la pandemia, infatti, tra i “non vaccinati” vi erano sia persone che rifiutavano il vaccino per scelta, sia individui che avevano già contratto il Covid-19 e che, quindi, potevano essere portatori della proteina Spike.
Conclusioni
La Cassazione ha quindi confermato l’impossibilità per i genitori di imporre il rifiuto di sangue da donatori vaccinati per motivi religiosi o sanitari non scientificamente provati. La decisione riafferma il principio secondo cui l’interesse del minore alla salute prevale sulle convinzioni personali dei genitori.
Il sindacato giurisdizionale sugli atti di alta amministrazione
Interesse pubblico e azione giudiziale
Il legittimo perseguimento dell’interesse pubblico prefissato dall’organo politico attraverso l’adozione di atti di alta amministrazione non può essere in contrasto con l’esercizio dell’azione giudiziale volta all’accertamento dei presupposti prescritti dalla legge per l’emanazione dell’atto.
Per consentire al giudice amministrativo di svolgere il sindacato di natura estrinseca e formale su tali atti, occorre che il ricorrente soddisfi le condizioni dell’azione: interesse ad agire e legittimazione ad agire.
Questo aspetto è ancora più rilevante quando il ricorrente è un ente locale, il cui ricorso non può trasformarsi in un controllo generalizzato sulla legalità dell’azione amministrativa, a meno che non vi sia un interesse personale, attuale e concreto all’annullamento dell’atto.
La controversia: il caso del Comune di Caltanissetta
Contesto della decisione
Nel 2022, la Giunta Regionale della Sicilia ha concesso in comodato gratuito un immobile di proprietà dell’ASP di Caltanissetta per realizzare un centro direzionale regionale. Il Comune di Caltanissetta ha impugnato la delibera, sostenendo che l’immobile aveva un ruolo centrale per la comunità, prima come ospedale e poi come sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Palermo.
Il TAR ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo comunque infondato.
Le motivazioni del TAR
La sentenza ribadisce i requisiti necessari per l’impugnazione di un atto amministrativo da parte di un ente locale:
• Interesse ad agire, che deve essere:
• Personale, corrispondente a un vantaggio concreto per il ricorrente;
• Attuale, riferito al momento della proposizione del ricorso;
• Concreto, relativo a un pregiudizio effettivo subito dal ricorrente.
• Legittimazione ad agire, ossia la titolarità di una situazione giuridica qualificata, suscettibile di lesione dall’atto impugnato.
Nel caso in esame, il Comune non ha dimostrato un interesse ad agire concreto, limitandosi a prospettare la mancata destinazione dell’immobile a un polo universitario, senza prove di un danno diretto alla comunità.
Il sindacato sugli atti di alta amministrazione
Il TAR ha esaminato anche il tema della sindacabilità degli atti di alta amministrazione, sottolineando che:
• Questi atti fungono da raccordo tra indirizzo politico e attività amministrativa;
• Sono caratterizzati da ampia discrezionalità, ma devono rispettare leggi, statuti e regolamenti;
• Il sindacato del giudice amministrativo si limita a vizi di eccesso di potere, illogicità, contraddittorietà o difetto di motivazione, senza entrare nel merito delle scelte politiche.
La delibera impugnata rientra tra gli atti di alta amministrazione, in quanto connessa alla riqualificazione dell’edilizia sanitaria dismessa e all’allocazione di risorse da parte degli organi di vertice politico.
Condizioni dell’azione vs. azione popolare
La sentenza del TAR evidenzia anche la distinzione tra azione di annullamento e azione popolare:
• L’azione di annullamento richiede sempre interesse e legittimazione ad agire;
• L’azione popolare, invece, consente il ricorso senza interesse diretto, solo per garantire la legalità amministrativa, ed è ammessa in casi specifici (es. giudizi elettorali).
Il ricorso del Comune non rientrava nell’azione popolare, poiché mancava un interesse concreto.
Differenza tra atti di alta amministrazione e atti politici
Gli atti di alta amministrazione si distinguono dagli atti politici, che sono espressione della libertà di azione politica degli organi di governo.
• Atti di alta amministrazione: caratterizzati da discrezionalità amministrativa, ma sottoposti a sindacato giurisdizionale nei limiti della legalità.
• Atti politici: adottati da organi costituzionali dello Stato, liberi nella scelta dei fini e non sindacabili dal giudice amministrativo.
Esempi di atti di alta amministrazione:
• Concessione della cittadinanza per motivi di opportunità politico-amministrativa;
• Revoca di un assessore, basata sul rapporto di fiducia con l’amministrazione;
• Perimetrazione di un parco nazionale, fondata su valutazioni discrezionali di tutela ambientale.
La giurisprudenza ha delineato queste categorie per garantire l’equilibrio tra potere politico e tutela giurisdizionale, assicurando che gli atti di alta amministrazione non siano sottratti al controllo di legalità.
Conclusioni
La sentenza del TAR Sicilia chiarisce che, per impugnare un atto di alta amministrazione, è necessario dimostrare un interesse qualificato e non un generico controllo di legalità.
Nel caso esaminato, il Comune di Caltanissetta non ha fornito elementi sufficienti per dimostrare un danno diretto alla comunità. Inoltre, il giudice ha ribadito che il sindacato sugli atti di alta amministrazione non può entrare nel merito delle scelte discrezionali, limitandosi a verificare la loro conformità ai principi di legittimità amministrativa.
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Migranti in Albania: la Corte d’Appello di Roma sospende la convalida dei trattenimenti e rimette gli atti alla Corte di Giustizia UE
I giudici della Corte d’Appello di Roma hanno sospeso il giudizio di convalida dei trattenimenti per 43 migranti trasferiti in Albania, rimettendo gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Con questa decisione, allo scadere dei termini per la convalida, i migranti, provenienti da Bangladesh ed Egitto, potranno essere riportati in Italia.
La sospensione è in linea con le decisioni già adottate dal 18 ottobre scorso, quando la sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Roma aveva negato la convalida dei trattenimenti emessi dalla Questura per i primi migranti trasferiti nel centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader.
Il quesito alla Corte di Giustizia UE
I giudici della Corte d’Appello hanno deciso di sottoporre alla Corte di Giustizia un quesito pregiudiziale sulla possibilità di designare un Paese come sicuro quando le condizioni per tale qualificazione non sono soddisfatte per alcune categorie di persone.
“Numerosi giudici italiani hanno sollevato dubbi sulla possibilità di qualificare un Paese di origine come sicuro in presenza di esenzioni per categorie soggettive”, si legge nel provvedimento della Corte d’Appello di Roma.
La Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria del 30 dicembre 2024, ha rinviato la causa a nuovo ruolo, in attesa della decisione della Corte di Giustizia. La Cassazione ha ritenuto di contribuire al dibattito senza esprimere principi di diritto, considerandolo prematuro prima del pronunciamento europeo.
Effetti della sospensione e rilascio dei migranti
La Corte d’Appello ha chiarito che la sospensione del giudizio impedisce il rispetto del termine di 48 ore previsto per la convalida, rendendo necessaria la liberazione dei migranti trattenuti.
“La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che, in casi analoghi, la mancata convalida nei termini previsti comporta la perdita di efficacia del trattenimento”, si legge nel provvedimento. Tale principio è sancito dall’articolo 14, comma 4, del decreto legislativo 286/1998.
Le criticità sulla sicurezza del Bangladesh
Uno dei motivi alla base della mancata convalida riguarda le condizioni di sicurezza in Bangladesh. Secondo fonti ministeriali, il Paese non garantisce protezione per tutte le categorie di persone.
In particolare, le schede governative del maggio 2024, utilizzate per l’elenco dei Paesi di origine sicuri, evidenziano eccezioni per:
• Comunità LGBTQI+
• Vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili
• Minoranze etniche e religiose
• Persone accusate di crimini politici
• Condannati a morte
Poiché queste condizioni sollevano dubbi sulla sicurezza del Bangladesh per alcune categorie di migranti, i giudici hanno ritenuto necessario sospendere la convalida e attendere il pronunciamento della Corte di Giustizia UE.
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