DIRITTO DELLA CRISI: PRIME INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI SULLA “PASSERELLA” TRA CONCORDATO PREVENTIVO E COMPOSIZIONE NEGOZIATA

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Introduzione

Con l’introduzione dell’art. 25-quinquies nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il legislatore ha aperto nuovi scenari nella gestione della crisi d’impresa, superando il rigido divieto originario previsto dal D.L. n. 118/2021. Oggi è possibile, per l’imprenditore che abbia rinunciato a una procedura giudiziale (quale il concordato preventivo o la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione), accedere alla composizione negoziata della crisi dopo un periodo di attesa di quattro mesi, la c.d. quarantena.

Questo contributo analizza l’evoluzione normativa e le prime applicazioni giurisprudenziali, soffermandosi in particolare sull’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha offerto spunti significativi in tema di proponibilità dell’istanza ex art. 17 CCI in costanza del termine di “quarantena”.


L’art. 25-quinquies CCI e la “passerella” dalla procedura giudiziale alla composizione negoziata

L’articolo 25-quinquies del Codice della crisi d’impresa disciplina una importante apertura verso la flessibilità nella gestione del dissesto: dopo la rinuncia a una procedura giudiziale, il debitore può accedere alla composizione negoziata della crisi, purché sia decorso un termine minimo di quattro mesi.

La previsione legislativa rappresenta un significativo mutamento rispetto all’impostazione originaria del legislatore del 2021, che escludeva tale possibilità per ragioni di coerenza sistemica e di tutela della buona fede. Il presupposto originario era che l’accesso a strumenti come il concordato implicasse una valutazione negativa circa la praticabilità del risanamento, incompatibile con la natura stragiudiziale e fiduciaria della composizione negoziata.

Con la novella, invece, si riconosce il possibile mutamento delle condizioni economico-patrimoniali o strategiche dell’impresa, valorizzando la flessibilità e la tempestività nella ricalibratura degli strumenti di risanamento.


La giurisprudenza e il caso dell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (31 luglio 2024)

Una delle prime applicazioni giurisprudenziali di rilievo si rinviene nell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha affrontato il tema della tempestività dell’istanza di nomina dell’esperto in presenza di una “passerella” anticipata rispetto al termine quadrimestrale.

La società ricorrente, pur consapevole del mancato decorso integrale del termine, ha dedotto il carattere non perentorio della scadenza e ha illustrato le ragioni sostanziali della rinuncia anticipata alla precedente procedura giudiziale: tra queste, l’emersione – a seguito del cambio dei consulenti – di un’ingente posta debitoria inizialmente omessa nel piano di concordato.

La scelta di accedere in via anticipata alla composizione negoziata è stata giustificata in funzione della tutela dei creditori e dell’esigenza di rimediare alle criticità della precedente impostazione, rese evidenti solo in una fase successiva.


La natura ordinatoria del termine quadrimestrale e i limiti all’eccezione di inammissibilità

Il Tribunale ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’istanza ex art. 17 CCI sollevata dai creditori, ritenendo che il mancato rispetto del termine di quattro mesi non potesse essere valutato in sede giudiziale. Trattandosi di una fase stragiudiziale, una simile valutazione avrebbe comportato l’introduzione di una sanzione processuale in una fase che, per sua natura, sfugge alla giurisdizione ordinaria.

Tuttavia, pur negando rilevanza giuridica al profilo processuale della tempistica, i giudici hanno ritenuto sostanzialmente legittima la condotta del debitore, valorizzando la rinuncia alla procedura giudiziale quale indice di affidabilità e razionalità del nuovo percorso negoziale.


Profili di buona fede e limiti all’abuso degli strumenti di regolazione della crisi

Il legislatore ha introdotto la c.d. “quarantena” per evitare che l’alternanza tra strumenti di regolazione della crisi sia usata abusivamente, con il solo fine di dilazionare il procedimento o evitare la dichiarazione di liquidazione giudiziale.

Il requisito della buona fede nell’accesso agli strumenti di composizione della crisi è fondamentale, non solo sotto il profilo etico, ma anche quale parametro di valutazione della serietà e sostenibilità del percorso di risanamento. Tuttavia, secondo il Tribunale sammaritano, l’inosservanza del termine quadrimestrale non comporta l’inammissibilità dell’istanza ai sensi dell’art. 17, ma può rilevare – eventualmente – solo nella successiva fase giudiziale (es. accesso al concordato semplificato), laddove emerga un comportamento strumentale o dilatorio del debitore.


Misure protettive e strumentalità rispetto alla trattativa

L’ordinanza in commento si chiude con la concessione delle misure protettive richieste dalla società debitrice, ritenute essenziali alla buona riuscita delle trattative in sede di composizione negoziata. Il Tribunale ha infatti affermato che il ricorso anticipato alla composizione negoziata, pur non perfettamente aderente al dato normativo, è giustificabile qualora appaia funzionale alla tutela del ceto creditorio e al riequilibrio dell’impresa.


Conclusioni

La “passerella” introdotta dall’art. 25-quinquies CCI rappresenta un’importante innovazione nell’ambito degli strumenti di risanamento d’impresa, consentendo un passaggio ragionato e strategico dalla procedura giudiziale a quella negoziale. Tuttavia, il rispetto del termine di quattro mesi deve essere letto non in termini rigidamente formalistici, ma alla luce dei principi di proporzionalità, buona fede e tutela dell’interesse dei creditori.

La pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si inserisce in questa nuova logica di favor per la composizione negoziata, riconoscendo che la flessibilità interpretativa, se ben motivata e ancorata a dati economico-finanziari concreti, può prevalere sul formalismo procedurale, rafforzando l’efficacia del sistema di regolazione della crisi.


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RESPONSABILITA’ SANITARIA: CASS. CIV., ORD. N. 17881/2025 RIBADISCE CHE IL LUCRO CESSANTE DEVE ESSERE RISARCITO, IN CASO DI ACCERTATA NEGLIGENZA MEDICA

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Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte Suprema interviene sulla corretta liquidazione del danno patrimoniale in ambito sanitario

In tema di responsabilità medica, il danno patrimoniale subito dal paziente non si esaurisce nel solo danno emergente, ma può includere anche il lucro cessante, ovvero il mancato guadagno derivante dalle conseguenze invalidanti di un errore sanitario. Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte di Cassazione ha censurato la decisione della Corte d’appello che aveva negato il risarcimento del lucro cessante sulla base di un ragionamento giuridicamente errato.

⚖️ Il principio stabilito dalla Cassazione

Secondo la Sezione III civile della Suprema Corte, il giudice di merito non può escludere il risarcimento del lucro cessante derivante da responsabilità sanitaria con motivazione incongrua o fondata su un errato inquadramento giuridico.

“La Corte d’appello, in materia di responsabilità sanitaria, non può negare il lucro cessante sulla base di un ragionamento scorretto, inidoneo a escludere il nesso causale tra la condotta sanitaria colposa e la perdita di chance reddituali del danneggiato.”
(Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025)

📌 Cosa si intende per lucro cessante nella responsabilità sanitaria?

Il lucro cessante rappresenta quella componente del danno patrimoniale futuro che consiste nel mancato guadagno che il soggetto avrebbe potuto conseguire in assenza del fatto illecito. In ambito medico, si pensi al caso di un paziente che, a causa di una condotta colposa del sanitario, subisca una invalidità permanente tale da impedirgli di svolgere la propria attività lavorativa o da comprometterne significativamente il reddito.

🔍 Il caso concreto: vizio motivazionale e errore di diritto

Nel caso oggetto della pronuncia, la Corte territoriale aveva rigettato la domanda risarcitoria relativa al lucro cessante senza adeguata valutazione delle risultanze probatorie e senza applicare correttamente i criteri di liquidazione del danno patrimoniale. La Cassazione ha quindi accolto il ricorso della parte danneggiata, ritenendo la motivazione della sentenza impugnata illogica e contraria ai principi di diritto consolidati.

📚 Riferimenti normativi e giurisprudenziali

  • Art. 1223 c.c. – Il risarcimento del danno per inadempimento o fatto illecito comprende sia la perdita subita (danno emergente) sia il mancato guadagno (lucro cessante).
  • Art. 2043 c.c. – Responsabilità extracontrattuale.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 28989/2019 – Ha riconosciuto il diritto al risarcimento per perdita della capacità lavorativa specifica.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 10424/2021 – Ha precisato che la perdita di chance reddituale costituisce danno patrimoniale risarcibile, anche in ambito sanitario.

🔎 Profili applicativi: il ruolo del giudice e la prova del danno

Secondo la giurisprudenza costante, il lucro cessante va dimostrato con ragionevole certezza, attraverso l’allegazione:

  • della capacità lavorativa specifica preesistente all’evento dannoso,
  • della incidenza dell’evento lesivo sulla possibilità di produrre reddito,
  • e della prognosi economico-funzionale del soggetto leso.

Il giudice deve quindi motivare in modo logico e coerente l’eventuale esclusione di tale voce di danno, senza basarsi su presunzioni generiche o su automatismi giuridici.

✅ Conclusioni

L’ordinanza n. 17881/2025 rappresenta un importante richiamo all’esigenza di tutela piena del danneggiato in ambito sanitario, imponendo al giudice di merito un rigoroso rispetto dei principi civilistici sul risarcimento integrale del danno.

Negare il lucro cessante in presenza di un danno documentato e causalmente collegato alla condotta medica colposa costituisce violazione del diritto alla piena riparazione, con conseguente vizio della motivazione e cassazione della sentenza.


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Foto

Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025 integrale, in versione pdf:

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PENALE: CASS. PEN., SENT. N. 26129/2025 CHIARISCE CHE LA DETENZIONE DOMICILIARE E LA MESSA ALLA PROVA POSSONO COESISTERE, CON PRESCRIZIONI COMPATIBILI

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La Suprema Corte chiarisce i rapporti tra misura alternativa e giustizia riparativa. Un passo importante verso l’efficienza dell’esecuzione penale

Detenzione domiciliare e messa alla prova non sono istituti necessariamente alternativi tra loro. Con la recente sentenza n. 26129 del 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Penale, ha affermato un principio di grande rilievo per l’applicazione pratica delle misure penali: le due misure possono coesistere anche se disposte in procedimenti distinti, a condizione che le relative prescrizioni siano armonizzabili.

Detenzione domiciliare e messa alla prova: cosa dice la Cassazione

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un soggetto stava eseguendo una detenzione domiciliare ex art. 47-ter dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), mentre in un altro procedimento penale aveva ottenuto la messa alla prova ai sensi dell’art. 168-bis c.p.. Il dubbio interpretativo riguardava la compatibilità operativa delle due misure: è possibile assoggettare un imputato a un programma di messa alla prova, che prevede attività esterne (lavoro di pubblica utilità, incontri con i servizi sociali, etc.), mentre questi si trova agli arresti domiciliari?

La risposta della Cassazione è positiva, purché venga effettuata una verifica concreta della compatibilità delle prescrizioni imposte con entrambe le misure.

🔍 Il principio giuridico: compatibilità delle prescrizioni

Secondo la Cassazione, non sussiste un’incompatibilità strutturale o automatica tra:

  • la misura alternativa della detenzione domiciliare (in esecuzione penale),
  • e la sospensione del procedimento con messa alla prova (nell’ambito di altro processo).

“È possibile dare esecuzione congiunta a entrambe le misure, a patto che le prescrizioni imposte siano concretamente compatibili e armonizzabili tra loro.”
(Cass. pen., Sez. I, sent. 26129/2025)

La valutazione di compatibilità spetta al giudice che dispone la messa alla prova, il quale dovrà accertare che le attività previste dal programma non violino le condizioni della detenzione domiciliare. In caso contrario, la misura riparativa non potrà essere concessa.

⚖️ Verso una giustizia penale più funzionale e flessibile

Questa decisione si inserisce nel più ampio contesto delle riforme del sistema penale volte alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio e alla promozione di modelli di giustizia riparativa, come previsto dalla riforma Cartabia (D.lgs. 150/2022).

La pronuncia valorizza i principi di:

  • economicità e funzionalità del processo,
  • favor rei nel ricorso a strumenti alternativi alla pena detentiva,
  • recupero e reinserimento sociale del condannato.

📚 Giurisprudenza correlata

La sentenza n. 26129/2025 trova conferma in altri precedenti, tra cui:

  • Cass. pen., Sez. I, n. 29947/2023, che ha ammesso la compatibilità tra messa alla prova e misure cautelari;
  • Cass. pen., Sez. I, n. 12205/2021, che ha ribadito la centralità dell’effettività del programma di messa alla prova.

🔎 Conclusioni

La Corte di Cassazione, con questa sentenza, offre una lettura sistematica e coerente dell’ordinamento penitenziario e della giustizia riparativa, in linea con i principi costituzionali di rieducazione della pena (art. 27, co. 3, Cost.) e di tutela del contraddittorio nel processo penale.

La compatibilità tra detenzione domiciliare e messa alla prova rappresenta un passaggio evolutivo nell’ottica di un sistema penale più umano, razionale e orientato al reinserimento.


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Cass. Pen., Sent. N. 26129/2025 integrale, in formato pdf:

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