Nella nuova puntata di Societas si esplora l’originale connubio tra diritto e arte, attraverso l’esperienza dello studio legale Fairlegals, che apre le sue porte a mostre di arte moderna accessibili non solo all’Avvocatura, ma all’intera cittadinanza. Un progetto che trasforma lo spazio giuridico in un luogo di cultura e dialogo.
Digitare il seguente link per vedere l’intera puntata:
SOCIETAS: Il diritto dell’arte.
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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:
STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma
📌 Con l’ordinanza n. 4084/2025, la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) ha confermato la responsabilità di ABB Spa per il decesso di un lavoratore causato da mesotelioma pleurico, conseguente a un’esposizione ultratrentennale ad amianto. Il lavoratore, impiegato come tubista manutentore tra il 1963 e il 1994, operava in ambienti ad alto rischio senza che l’azienda adottasse misure di protezione.
La Corte ha ribadito due principi fondamentali:
1. Nesso causale: basta che l’esposizione lavorativa sia una delle concause della malattia, anche se non esclusiva.
2. Dovere di prevenzione: il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le cautele conosciute e tecnicamente possibili, anche prima della messa al bando dell’amianto.
La responsabilità civile del datore non deriva dall’attività pericolosa in sé, ma dall’omissione colposa delle misure di sicurezza. La sentenza valorizza il principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” previsto dall’art. 2087 c.c. e ribadisce che già le norme vigenti negli anni ’60–’80 (D.P.R. 303/1956) imponevano cautele adeguate contro le polveri nocive, incluse quelle invisibili dell’amianto.
Per la Cassazione, non rileva che l’attività si svolgesse per conto terzi (appalto): la responsabilità per la salute dei lavoratori resta in capo al datore.
Questa decisione si inserisce nel filone giurisprudenziale che amplia la tutela per le malattie professionali e rafforza l’obbligo di vigilanza attiva e informata del datore di lavoro.
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Cass. Sez. Lav. Ord. n. 4084/2025 integrale, in formato pdf:
La bancarotta fraudolenta è un grave reato previsto e punito dall’art. 216 della Legge Fallimentare (ora Legge fallimentare, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), che si applica agli imprenditori dichiarati falliti e prevede pene severe, tra cui la reclusione da 3 a 10 anni per le condotte più gravi e da 1 a 5 anni per la bancarotta preferenziale.
Fattispecie previste dall’art. 216 L.F.:
Bancarotta patrimoniale (comma 1, n. 1): Riguarda l’imprenditore che ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato i propri beni, o ha esposto o riconosciuto passività inesistenti allo scopo di recare pregiudizio ai creditori.
Bancarotta documentale (comma 1, n. 2): Si verifica quando l’imprenditore sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.
Bancarotta preferenziale (comma 3): L’imprenditore, prima o durante la procedura fallimentare, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione a favore di alcuni creditori a danno degli altri.
Sanzioni e conseguenze:
Pena detentiva: Reclusione da 3 a 10 anni per la bancarotta patrimoniale e documentale, e da 1 a 5 anni per la bancarotta preferenziale.
Sanzioni accessorie: La condanna per bancarotta fraudolenta importa, per la durata di dieci anni, l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa (anche se la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale durata per alcune parti della norma).
Procedibilità: Il reato di bancarotta fraudolenta è procedibile d’ufficio, ovvero l’azione penale viene avviata automaticamente dall’Autorità Giudiziaria, senza necessità di querela di parte.
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Cassazione Penale n. 23167/2025 – La contabilità informatica non basta se non è trasparente
👨⚖️ A cura del team legale Studio legale Bonanni Saraceno
📌 Cosa ha deciso la Cassazione
Con la sentenza n. 23167/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio destinato a fare scuola:
È configurabile la bancarotta fraudolenta documentale anche quando la contabilità è tenuta in forma informatica, se questa non consente la ricostruzione del patrimonio aziendale.
In pratica, non importa che l’impresa utilizzi software o gestionali digitali: se i dati non sono completi, leggibili o verificabili, scatta la responsabilità penale.
💡 Contabilità digitale: un’arma a doppio taglio
Molte imprese oggi gestiscono la propria contabilità con strumenti digitali. Ma attenzione: la digitalizzazione non equivale automaticamente a regolarità contabile.
Nel caso deciso dalla Cassazione, la contabilità informatica:
era incompleta, non tracciava correttamente le movimentazioni finanziarie, non permetteva al curatore fallimentare di ricostruire il patrimonio.
Il risultato? Condanna per bancarotta fraudolenta documentale, ai sensi dell’art. 216, comma 1, n. 2, L.F.
⚖️ Il principio giuridico: non conta il mezzo, ma la funzione
Il sistema contabile – digitale o cartaceo – deve sempre garantire chiarezza, trasparenza e tracciabilità. Se non lo fa, l’imprenditore può essere ritenuto responsabile per avere dolosamente occultato o distrutto le scritture contabili.
🛠️ Cosa devono fare aziende e professionisti
👉 Per le imprese:
Verificate che il software contabile utilizzato consenta effettivamente la ricostruzione dei flussi economici e patrimoniali. Mantenete una documentazione integrata e accessibile anche in caso di controllo o crisi.
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La bancarotta fraudolenta è un reato che si verifica quando un imprenditore, dichiarato fallito, compie atti volti a danneggiare i creditori, come la distrazione, l’occultamento, la dissipazione o la distruzione del patrimonio aziendale, o la simulazione di passività. Si distingue dalla bancarotta semplice, che può essere causata da negligenza o imprudenza, mentre la bancarotta fraudolenta implica un’azione dolosa e intenzionale per danneggiare i creditori.
Elementi costitutivi della bancarotta fraudolenta:
Elemento soggettivo (dolo): La volontà di arrecare pregiudizio ai creditori attraverso azioni che alterano il patrimonio aziendale.
Elemento oggettivo: Le condotte che possono integrare il reato, tra cui:
Distrazione, occultamento, dissipazione, distruzione del patrimonio.
Esposizione o riconoscimento di passività inesistenti.
Sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili.
Simulazione di titoli di prelazione per favorire alcuni creditori.
Pene:
La bancarotta fraudolenta è punita con la reclusione da tre a dieci anni.
In caso di condanna, sono previste anche pene accessorie, come l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità di assumere uffici direttivi presso qualsiasi impresa per un periodo fino a dieci anni.
Differenze tra bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice:
La bancarotta semplice è una forma meno grave di bancarotta, che può derivare da negligenza o imprudenza nell’amministrazione dell’azienda.
La bancarotta fraudolenta, invece, richiede un’azione dolosa e intenzionale per danneggiare i creditori.
Prescrizione:
Il reato di bancarotta fraudolenta si prescrive in dieci anni, ma questo termine può aumentare in presenza di atti interruttivi della prescrizione.
Esempi di condotte che possono integrare la bancarotta fraudolenta:
Un imprenditore che, prima del fallimento, vende beni aziendali a prezzi sottostimati per sottrarli ai creditori.
Un imprenditore che occulta scritture contabili per nascondere la reale situazione patrimoniale dell’azienda.
Un imprenditore che simula crediti inesistenti per favorire alcuni creditori a discapito di altri.
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Fornite ai vostri clienti strumenti e indicazioni che garantiscano la tenuta regolare delle scritture. Ricordate che l’uso di sistemi digitali non esclude la responsabilità penale, se questi non assolvono alla funzione probatoria prevista dalla legge.
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Introduzione: la rilevanza della successione ereditaria e delle azioni giudiziarie
Nel diritto successorio italiano, uno dei temi più dibattuti riguarda la possibilità, per i discendenti, di far valere i diritti ereditari del proprio genitore defunto. In particolare, ci si interroga spesso su quando l’accettazione tacita dell’eredità possa ritenersi compiuta, specie in presenza di un’azione giudiziaria volta a ottenere un risarcimento spettante al de cuius.
In questo articolo analizzeremo un principio giurisprudenziale rilevante, secondo il quale il figlio può dimostrare l’accettazione tacita dell’eredità anche attraverso l’esercizio di un’azione risarcitoria, purché sia dimostrato o non contestato il suo status di erede.
L’accettazione tacita dell’eredità, ai sensi dell’art. 476 del Codice Civile, si verifica quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare, senza una formale dichiarazione.
Esempi tipici sono:
La vendita di un bene ereditario;
Il pagamento di un debito del defunto;
L’inizio di una causa per rivendicare un diritto spettante al defunto.
L’azione giudiziaria come prova dell’accettazione tacita
Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza, l’avvio di un’azione legale per far valere i diritti patrimoniali del genitore defunto può costituire prova dell’accettazione tacita dell’eredità.
Tuttavia, è necessario che nel corso di tale giudizio venga dimostrato – o comunque non contestato – che l’attore sia effettivamente figlio del de cuius. Questo elemento è fondamentale per legittimare l’azione e, di conseguenza, per fare presumere l’accettazione dell’eredità.
Il ruolo dello status di figlio nel contesto ereditario
Lo status di figlio non è soltanto un dato anagrafico: rappresenta un presupposto giuridico essenziale. Infatti, per far valere in giudizio un diritto risarcitorio del defunto, occorre che il soggetto attore sia considerato, anche giuridicamente, erede legittimo.
Se questo status non è accertato, il rischio è che l’azione venga dichiarata inammissibile per carenza di legittimazione attiva. La prova della filiazione diventa dunque un elemento cruciale nella strategia difensiva e nella costruzione della domanda.
Conclusione: cosa devono sapere gli eredi
Per chi intende agire in giudizio per far valere un diritto del proprio genitore defunto, è importante:
Verificare il proprio status giuridico di figlio;
Valutare se l’azione intrapresa possa costituire accettazione tacita dell’eredità;
Considerare le conseguenze dell’accettazione, specie in presenza di debiti ereditari.
Responsabilità Civile e Accettazione Tacita dell’Eredità: Cosa Dice la Cassazione n. 16594
Introduzione: la responsabilità civile e il ruolo degli eredi
Nel diritto italiano, la responsabilità civile non si estingue con la morte della persona offesa. In determinate circostanze, i diritti risarcitori possono essere esercitati dagli eredi, che agiscono per conto del defunto. Ma cosa accade quando l’erede non ha ancora formalmente accettato l’eredità? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16594, ha chiarito un punto fondamentale: anche l’esercizio di un’azione giudiziaria può valere come accettazione tacita dell’eredità, a precise condizioni.
In questo articolo analizziamo il principio espresso dalla Suprema Corte e le implicazioni pratiche per chi intende agire in giudizio per far valere una pretesa risarcitoria ereditata.
Cassazione n. 16594/2024: il principio di diritto
Con l’ordinanza n. 16594, la Corte di Cassazione ha affermato che:
Chi agisce in giudizio per far valere una pretesa risarcitoria che sarebbe spettata al proprio genitore defunto può dimostrare l’accettazione tacita dell’eredità attraverso l’esercizio stesso dell’azione giudiziaria, purché sia provato – o comunque non contestato – il suo status di figlio del de cuius.
Cosa significa in termini pratici?
Questo principio introduce un’importante semplificazione probatoria per gli eredi. In pratica, se il figlio agisce per ottenere un risarcimento spettante al genitore, l’atto stesso di agire in giudizio può costituire accettazione tacita dell’eredità. Tuttavia, tale effetto si produce solo se viene dimostrata la qualità di figlio, cioè il legame di filiazione con il defunto, elemento imprescindibile per la legittimazione.
Accettazione tacita dell’eredità: un concetto chiave nel diritto successorio
L’accettazione tacita dell’eredità si verifica quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare, anche senza una dichiarazione formale. In base all’art. 476 del Codice Civile, rientrano tra questi atti:
La disposizione di beni ereditari;
L’assunzione di debiti del defunto;
L’esercizio di azioni giudiziarie derivanti dai diritti del de cuius.
Con la sentenza n. 16594, la Cassazione conferma che agire in giudizio per un risarcimento spettante al defunto è un atto inequivoco, che può valere come accettazione tacita dell’eredità.
Il ruolo determinante dello status di figlio
Come evidenziato dalla Cassazione, l’esercizio dell’azione giudiziaria non basta da solo. Perché si possa configurare un’accettazione tacita, è necessario provare lo status di figlio, ovvero dimostrare il legame familiare con il defunto. Se tale status è incontestato nel processo o comunque provato con documenti (ad esempio certificato di nascita, stato di famiglia), allora l’azione è legittima e produce anche effetti successori.
Le implicazioni per chi intende agire in giudizio
Questa pronuncia è particolarmente rilevante per chi:
Vuole ottenere un risarcimento per danni subiti dal proprio genitore defunto (es. responsabilità medica, incidenti stradali, mobbing);
Non ha ancora formalmente accettato l’eredità, ma intende agire;
Si trova a dover provare la propria qualità di erede in giudizio.
La strategia legale deve quindi includere anche la valutazione del profilo successorio, per evitare eccezioni di legittimazione attiva o decadenze.
Conclusione: un orientamento che tutela gli eredi
La Cassazione, con l’ordinanza n. 16594, ha ribadito l’importanza del principio di continuità giuridica tra defunto ed erede. Il figlio, agendo per far valere un diritto risarcitorio maturato in capo al genitore, può essere considerato erede a tutti gli effetti, purché dimostri di esserlo. L’azione giudiziaria stessa può fungere da prova implicita dell’accettazione dell’eredità, semplificando le modalità con cui l’erede può far valere i propri diritti.
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Cassazione, ordinanza n. 16594/2025 integrale, in formato pdf:
Importante ordinanza della Cassazione sul risarcimento del danno da lucro cessante dopo sinistro stradale
Con l’ordinanza n. 6604/2025, depositata il 23 giugno 2025, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha dettato importanti principi di diritto in tema di danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, chiarendo i criteri di accertamento e liquidazione del lucro cessante in caso di lesioni personali conseguenti a sinistro stradale.
Il caso: perdita del lavoro a seguito di un incidente stradale
La vicenda riguarda una lavoratrice dipendente di un’impresa di pulizie, coinvolta in un incidente stradale che le ha provocato una lesione all’omero. Il prolungarsi della convalescenza ha determinato il licenziamento e, in seguito, l’impossibilità di riprendere l’attività lavorativa a causa di postumi permanenti.
La donna ha quindi chiesto alla compagnia assicurativa e alla responsabile del sinistro il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, deducendo sia la perdita del reddito da lavoro svolto sia la ridotta possibilità di trovare un’occupazione futura.
La decisione della Corte d’appello e la censura della Cassazione
Liquidazione equitativa ridotta per mancata ricerca di un nuovo lavoro
La Corte d’appello, riformando il rigetto di primo grado, aveva riconosciuto il nesso causale tra incidente e licenziamento, ma ha liquidato il danno equitativamente, limitandolo agli stipendi persi nei sei mesi successivi al licenziamento, ritenendo che la vittima avrebbe potuto trovare una nuova occupazione in tale arco temporale, se si fosse attivata con diligenza.
Il principio errato secondo la Cassazione
La Cassazione ha ritenuto errata tale impostazione, precisando che la mancata prova della ricerca di un nuovo lavoro non può giustificare l’esclusione totale del risarcimento del danno da perdita di capacità lavorativa. Il giudice di merito, si legge nella pronuncia, ha invertito l’ordine logico degli accertamenti, omettendo la necessaria verifica circa:
la perdita totale o parziale della capacità lavorativa; la possibilità di svolgere un lavoro alternativo; la quantificazione del danno economico, detraendo l’eventuale reddito ancora percepibile.
I tre principi fondamentali enunciati dalla Cassazione
Dovere di attivazione del danneggiato: “Ogni persona, anche se disabile, ha il dovere ex art. 4 Cost. di attivarsi per trovare un’occupazione. Pertanto, nella liquidazione del danno patrimoniale da perdita di reddito da lavoro è doveroso tener conto della possibilità di reimpiego delle residue forze lavorative in altra attività compatibile.” Condotta colposa e aggravamento del danno: “Chi, pur in grado di lavorare, non cerca un’occupazione compatibile con le proprie condizioni fisiche, può aggravare il danno ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., ma solo se ricorrono i presupposti di legge, e previa eccezione di parte.” Obbligo di accertamento del danno prima della riduzione equitativa: “Il giudice deve prima accertare il danno patrimoniale nella sua interezza, poi valutare la possibilità di reimpiego e procedere ad eventuali riduzioni. Non è legittimo rigettare la domanda in assenza di prova della vana ricerca di lavoro.”
L’invalidità lavorativa non comporta automaticamente danno patrimoniale
Un altro profilo chiarito dalla Corte riguarda la non automaticità del danno patrimoniale in presenza di un accertamento medico-legale di incapacità lavorativa specifica.
Contrasto tra orientamenti giurisprudenziali
Due gli orientamenti emersi:
Uno ritiene che il nesso tra postumi permanenti e perdita di reddito debba essere provato caso per caso. L’altro (non condiviso dalla Cassazione) presume la perdita patrimoniale se l’invalidità supera determinate soglie (es. 10%, 25%, 30%).
Il principio corretto: serve accertamento concreto
La Cassazione ha ribadito che la quantificazione del danno patrimoniale deve basarsi su:
accertamento dei postumi permanenti; valutazione della loro compatibilità con l’attività lavorativa; verifica dell’impatto sul reddito effettivamente percepito.
È erroneo – secondo la Suprema Corte – presumere il danno sulla base della sola percentuale di invalidità, senza un accertamento concreto della diminuzione del reddito.
I tre principi conclusivi: come accertare il danno da perdita di reddito
Accertamento analitico: “Per accertare il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno occorre: a) accertare i postumi permanenti; b) valutare la compatibilità tra postumi e mansioni; c) determinare se vi sia una riduzione del reddito.” Inammissibilità di automatismi percentuali: “Non è ammissibile presumere il danno patrimoniale dalla sola percentuale di invalidità accertata dal medico-legale.” Inconfigurabilità di un obbligo alla ricerca di lavoro retribuito allo stesso livello: “La mancata dimostrazione della ricerca di un lavoro con retribuzione pari a quella precedente non è ostativa alla liquidazione del danno da lucro cessante.”
Conclusioni: un chiarimento rilevante per la liquidazione del danno da infortunio
L’ordinanza n. 6604/2025 della Cassazione rappresenta un riferimento giurisprudenziale fondamentale in materia di risarcimento del danno patrimoniale da infortunio, soprattutto in ambito lavorativo. Viene ribadito che:
la perdita della capacità lavorativa non comporta automaticamente danno economico; il giudice ha l’obbligo di un accertamento concreto e articolato; la mancata attivazione del danneggiato rileva solo in presenza di colpa e prova processuale adeguata.
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Terza sezione civile, ordinanza n. 6604 depositata integrale, in formato pdf:
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16523 del 2025, ha ribadito un principio fondamentale in tema di diritto societario e processuale: una società cancellata dal Registro delle Imprese è priva della capacità di stare in giudizio, sia come parte attrice sia come convenuta.
La vicenda: società estinta e processo pendente
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un contenzioso promosso nei confronti di una società ormai cancellata dal Registro delle Imprese. Il ricorrente aveva agito in giudizio senza considerare che l’ente si era estinto precedentemente, a seguito della cancellazione, avvenuta in base all’art. 2495 c.c. La Corte ha ritenuto inammissibile la domanda, sottolineando l’inesistenza della capacità processuale della società.
Il principio di diritto: nessuna legittimazione dopo la cancellazione
Secondo la Cassazione, la cancellazione della società produce l’effetto estintivo, comportando il venir meno della sua soggettività giuridica e, con essa, della capacità di essere parte in un processo. Ne consegue che:
Non è possibile convenire in giudizio una società cancellata, poiché si tratta di un soggetto giuridicamente inesistente; La società estinta non può agire in giudizio, non avendo più né soggettività né legittimazione attiva; Gli eventuali rapporti giuridici residui si trasferiscono automaticamente ai soci, secondo quanto previsto dal secondo comma dell’art. 2495 c.c.
Conseguenze pratiche e processuali
Questa pronuncia conferma un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che richiama gli operatori del diritto a verificare attentamente lo stato dell’impresa presso il Registro, prima di iniziare o proseguire un’azione legale. Qualsiasi atto processuale rivolto a una società già estinta è da ritenersi nullo o improduttivo di effetti.
Conclusioni
L’ordinanza n. 16523/2025 della Corte di Cassazione rafforza un principio ormai consolidato: la cancellazione dal Registro delle Imprese segna la fine della capacità giuridica e processuale della società. Un monito importante per avvocati e creditori: prima di citare in giudizio una società, è fondamentale accertarne l’attuale esistenza giuridica.
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Per ulteriori approfondimenti su questo tema o sulle relative implicazioni pratiche potete contattare:
STUDIO LEGALE BONANNI SARACENO Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno Piazza Giuseppe Mazzini, 27 – 00195 – Roma
Nella nuova puntata intitolata “Lo stato dell’arte del gratuito patrocinio” della trasmissione Societas (canale 81 del dgt), è intervenuto il Consigliere dell’Ordine Avvocati di Roma, l’Avv. Vincenzo Comi, con il quale si sono affrontati i gravosi problemi riguardanti il gratuito patrocinio e gli uffici giudiziari.
Sempre più avvocati si stanno rimuovendo dagli elenchi di difensori per i non abbienti o d’ufficio, aggravando il rischio che persone in difficoltà economica restino senza tutela legale. Le Camere Penali avvertono che il vero problema non è il costo dell’istituto, ma la sua progressiva erosione, con compensi irrisori e tempi lunghissimi per ottenere le parcelle .
Interventi immediati:
sbloccare immediatamente i pagamenti arretrati; Separare in bilancio i fondi destinati al patrocinio da altre voci; Prevedere risorse adeguate nelle leggi finanziarie future
In sintesi:
sussiste un grave stallo finanziario nell’erogazione del gratuito patrocinio: avvocati non pagati da mesi, fondi mischiati, crisi professionale e perdita del diritto di difesa per i cittadini. Si chiede una riforma urgente e risorse adeguate, per evitare la paralisi di un diritto costituzionale sancito dall’art. 24.
Per vedere l’intera puntata digitare il seguente link:
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Differenze tra appalti, concessioni e partenariati: cosa cambia davvero con il correttivo al Codice degli appalti
Il nuovo sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti, ridefinito in modo significativo dal decreto legislativo 209/2024, continua a far discutere tra operatori pubblici e privati.
Il Decreto Legislativo 209/2024, noto anche come “correttivo” al Codice dei Contratti Pubblici, introduce modifiche significative al D.Lgs. 36/2023, mirate a migliorare l’efficienza, la trasparenza e la digitalizzazione nel settore degli appalti pubblici. Tra le principali novità, si segnalano cambiamenti in materia di qualificazione delle stazioni appaltanti, semplificazione amministrativa, digitalizzazione delle procedure, tutela delle PMI e sostenibilità ambientale.
Ecco alcuni dettagli sulle principali modifiche introdotte dal D.Lgs. 209/2024:
Qualificazione delle Stazioni Appaltanti:
Il decreto apporta modifiche all’Allegato II.4 del Codice, riguardanti i requisiti per l’attribuzione dei punteggi per la qualificazione delle stazioni appaltanti e centrali di committenza.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha fornito chiarimenti e anticipazioni sulle soluzioni adottate per alcuni aspetti suscettibili di diverse interpretazioni.
Digitalizzazione e Semplificazione:
Il decreto spinge verso una maggiore digitalizzazione delle procedure di gara, con l’obbligo di utilizzare piattaforme elettroniche.
Si mira a ridurre gli oneri burocratici e ad accelerare i processi amministrativi, migliorando la competitività tra le imprese.
Tutela del Lavoro e Sostenibilità:
Il decreto rafforza la tutela dei lavoratori, introducendo nuove linee guida per l’individuazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicabile agli appalti pubblici.
Viene data maggiore importanza alla sostenibilità ambientale e sociale, con criteri che premiano le imprese che adottano pratiche eco-sostenibili.
Subappalto:
Il decreto apporta modifiche all’articolo 41, che regola il subappalto, con l’obiettivo di renderlo più trasparente e coerente con i principi europei.
In sintesi, il D.Lgs. 209/2024 mira a modernizzare il sistema degli appalti pubblici, rendendolo più efficiente, trasparente, digitale e attento alla sostenibilità.
A fornire un chiarimento importante è l’Ufficio legale di supporto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT), con il parere n. 3462/2025, che si sofferma sulle novità introdotte dal correttivo, in particolare per quanto riguarda concessioni e partenariati pubblico-privati (PPP).
Un sistema più rigido per concessioni e PPP
La questione centrale riguarda la possibilità di qualificazione limitata alla fase esecutiva, come previsto per i contratti di appalto. Il dubbio nasce con riferimento alle modifiche apportate all’Allegato II.4 del Codice dei contratti pubblici (articolo 62), e in particolare ai nuovi commi 5 dell’articolo 3 e 5 dell’articolo 5, inseriti proprio dal d.lgs. 209/2024.
In sintesi, per gli appalti pubblici è possibile ottenere la qualificazione per singole fasi (progettazione, affidamento o esecuzione). Diversamente, per concessioni e PPP, la normativa impone una qualificazione unitaria che copre tutte le fasi del ciclo di vita del contratto, dalla progettazione all’esecuzione.
Cosa dice il parere del MIT
Secondo il MIT, le nuove soglie introdotte – che stabiliscono che per le concessioni di servizi inferiori a 140.000 euro e per i lavori sotto i 500.000 euro non è richiesta qualificazione rafforzata – non modificano la natura complessiva della qualificazione per concessioni e PPP sopra tali soglie.
Per le concessioni e i partenariati superiori a 140.000 euro, le stazioni appaltanti devono:
Avere almeno una qualificazione SF2; Disporre di un soggetto con almeno tre anni di esperienza nella gestione di piani economico-finanziari e nella valutazione dei rischi.
Analogamente, per le concessioni e i PPP relativi a lavori di importo pari o superiore a 500.000 euro, è richiesta:
Una qualificazione di livello L2; La presenza di un professionista esperto nei profili economico-finanziari, sempre con almeno tre anni di esperienza documentata.
Impatti operativi per le stazioni appaltanti
Il parere del MIT mette in luce una criticità pratica: molti enti qualificati nella progettazione e nell’affidamento non sono disponibili a seguire direttamente la fase di esecuzione, spesso per motivi organizzativi o logistici. Questo genera un problema gestionale: il soggetto delegante dovrebbe trovare un altro ente qualificato per seguire l’esecuzione oppure inserire nel quadro economico della procedura una voce di spesa per un direttore dell’esecuzione esterno, che comunque operi sotto il coordinamento dell’ente qualificato.
Questa seconda soluzione, tuttavia, necessita – come precisato nel parere – di un intervento ufficiale di chiarimento, che possa confermare la sua ammissibilità in termini regolamentari.
Pertanto. il nuovo quadro delineato dal d.lgs. 209/2024 rafforza la differenza tra appalti (più flessibili) e concessioni/PPP (più stringenti), con l’obiettivo di aumentare la professionalità e la competenza nella gestione integrale dei contratti complessi. Tuttavia, resta da valutare se le amministrazioni pubbliche – specie quelle di minori dimensioni – riusciranno a rispondere a questi requisiti senza un supporto operativo adeguato.
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Nel panorama della giurisprudenza italiana, il tema dei benefici economici per le vittime del dovere è tornato al centro dell’attenzione grazie all’ordinanza n. 1666/2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che ha rigettato il ricorso presentato dal Ministero della Difesa contro la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila.
La vicenda trae origine dal caso di Luca Acquafredda, figlio di Raffaele Acquafredda, già riconosciuto come vittima del dovere. In particolare, la Corte d’Appello aveva accolto il ricorso del figlio (difeso dallo Studio legale dell’Avv. Ezio Bonanni e rappresentato nella succitata udienza dall’Avv. Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno), riconoscendogli il diritto ai benefici economici previsti dal d.P.R. n. 243/2006, in quanto familiare a carico della vittima. Il Ministero della Difesa aveva contestato tale decisione, sollevando questioni di prescrizione e di errata applicazione delle norme relative alla rivalutazione e agli interessi legali.
Il rigetto del ricorso e i chiarimenti della Suprema Corte
La Cassazione, con ordinanza del 27 marzo 2025, ha dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso per carenza di autosufficienza, sottolineando come il Ministero non avesse adeguatamente trascritto le parti rilevanti dell’appello in cassazione, rendendo impossibile valutare la censura di omessa pronuncia. Questo punto rafforza un principio giurisprudenziale consolidato: anche dopo l’apertura interpretativa delle Sezioni Unite (sent. n. 8950/2022), resta necessario indicare con precisione i contenuti del gravame.
Più interessante, dal punto di vista sostanziale, è il secondo motivo, che ruotava attorno alla natura della rivalutazione annuale degli assegni vitalizi e alla possibilità di cumulo con gli interessi legali. Il Ministero sosteneva che l’art. 8 della legge n. 302/1990 fosse norma speciale, da applicarsi in via esclusiva, impedendo così l’applicazione dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724/1994 sugli interessi.
La Corte ha respinto questa tesi, chiarendo che le due disposizioni hanno presupposti e finalità differenti: la prima regola la rivalutazione in caso di adempimento tempestivo, la seconda interviene in caso di ritardo o inadempimento dell’Amministrazione. Non si configura quindi un concorso tra norme ma due discipline distinte e compatibili.
Un precedente importante per i familiari delle vittime del dovere
Questa ordinanza si colloca nel solco di un orientamento favorevole ai familiari delle vittime del dovere, ribadendo il diritto a ricevere provvidenze economiche anche con gli interessi legali in caso di ritardo da parte della pubblica amministrazione. La decisione ha anche il merito di chiarire i limiti del principio di specialità tra norme e l’importanza di una corretta redazione del ricorso per cassazione, specialmente nei casi in cui si invoca l’omessa pronuncia del giudice d’appello.
Conclusioni: benefici economici per le vittime del dovere e garanzie per i familiari
L’ordinanza della Cassazione n. 1666/2025 costituisce un precedente rilevante per tutti coloro che hanno diritto ai benefici economici per le vittime del dovere, in particolare per i figli e familiari a carico. Il rigore nella valutazione dei ricorsi e l’attenzione ai diritti assistenziali rafforzano la protezione giuridica di queste categorie e pongono limiti precisi alla discrezionalità dell’amministrazione.
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Suprema Corte di Cassazione. Sez Lavoro, ordinanza n. 1666/2025 integrale, in formato pdf:
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La cartella clinica come atto pubblico: completezza, veridicità e responsabilità giuridica
La cartella clinica non è un mero documento amministrativo: si configura giuridicamente come atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale, e perciò dotato di fede privilegiata in ordine ai fatti attestati come avvenuti in sua presenza. Questo principio, ribadito più volte dalla Corte di Cassazione, implica che le annotazioni del medico nella cartella clinica debbano essere complete, veritiere e cronologicamente ordinate, senza possibilità di rinvio implicito ad altri documenti o registri (es. cartella anestesiologica).
La recente sentenza n. 17647 del 2025 ha riaffermato tale orientamento, annullando con rinvio una pronuncia della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva assolto un ginecologo accusato di falso ideologico per avere alterato la ricostruzione di un intervento cesareo dagli esiti tragici.
Il caso giudiziario: falso ideologico e omissione di informazioni nella cartella clinica
Il procedimento penale aveva preso le mosse dalla contestazione, da parte del Pubblico Ministero, di incongruenze tra quanto riportato nella cartella clinica e le dichiarazioni rese dai membri dell’equipe medica. In particolare, secondo l’accusa, il ginecologo avrebbe:
attribuito all’anestesista l’esecuzione del primo soccorso (massaggio cardiaco), mentre in realtà sarebbe stato lo specializzando ad intervenire; indicato erroneamente la presenza dell’anestesista al capezzale della paziente, circostanza smentita da altri testimoni.
Tali difformità, secondo la Procura, miravano a scaricare la responsabilità dell’accaduto su altri membri dell’equipe, eludendo il ruolo apicale del ginecologo quale capo dell’intervento.
La difesa, invece, aveva sostenuto che la cartella chirurgica non dovesse riportare circostanze di tipo anestesiologico, rimettendo la rappresentazione di tali dati alla cartella anestesiologica.
L’intervento della Cassazione: obbligo di rappresentazione e dolo generico
La Corte di Cassazione ha ritenuto tale argomentazione giuridicamente infondata e ha annullato la sentenza di assoluzione, chiarendo che:
la cartella clinica redatta dal medico ha valore probatorio privilegiato, in quanto atto pubblico ai sensi dell’art. 479 c.p.; ai fini della configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico, è sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza di alterare il vero (Cass. pen., Sez. I, 11 settembre 2020, n. 27230); il medico ha il dovere giuridico di verificare e controllare l’esattezza delle informazioni inserite nella cartella clinica (Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20101), la cui incompletezza può essere utilizzata dal giudice per inferire il nesso causale tra condotta e danno subito dal paziente (Cass. civ., Sez. I, 21 novembre 2017, n. 27561).
Il dictum della Cassazione ha evidenziato come sia erroneo limitare il contenuto della cartella clinica alle sole informazioni chirurgiche, escludendo gli eventi occorsi in ambito anestesiologico. Il medico redattore ha infatti l’onere di rappresentare tutti gli aspetti rilevanti dell’intervento e del decorso immediato, a prescindere dalla specializzazione coinvolta.
Conclusioni: implicazioni per il medico pubblico
Questa sentenza ribadisce l’importanza per ogni medico che opera in una struttura sanitaria pubblica di mantenere standard elevati nella compilazione della documentazione clinica, consapevole che ogni omissione, alterazione o imprecisione può rilevare sia sotto il profilo penale che civilistico.
Non è sufficiente delegare la documentazione ad altri membri dell’equipe, né è ammissibile l’argomentazione secondo cui determinati aspetti clinici debbano essere riportati solo in atti specialistici differenti (es. cartella anestesiologica). L’unitarietà del fascicolo clinico impone al responsabile dell’intervento un obbligo personale di controllo, verifica e veridica attestazione dei fatti, pena l’integrazione di gravi responsabilità giuridiche.
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Corte di Cassazione, sentenza n. 17647 del 2025 integrale, in formato Pdf: