PENALE: LA CASS. PEN., SEZ. III, N. 26355/2025 CHIARISCE CHE IL REATO DI TRUFFA AGGRAVATA AI DANNI DELLO STATO E’ ASSORBITO NEL REATO TRIBUTARIO

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Truffa aggravata:
art. 640, II comma, Cod. Pen.

1. Introduzione

In materia di reati tributari, la distinzione rispetto ai reati comuni contro la pubblica amministrazione ha sempre costituito terreno fertile per il dibattito giurisprudenziale. Un punto centrale di tale discussione riguarda il rapporto tra la truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.) e le fattispecie penal-tributarie introdotte dal d.lgs. 74/2000. Con la recente sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 26355 del 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato ma talvolta disatteso: il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato risulta assorbito nel reato tributario, quando l’azione illecita si esaurisce nell’indebita percezione di un vantaggio fiscale.


2. Il fatto e la questione giuridica

Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte riguardava un imprenditore imputato per frode fiscale mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, condotta qualificata tanto ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 74/2000 quanto dell’art. 640, comma 2, n. 1 c.p., per aver indotto in errore l’Amministrazione finanziaria con artifici e raggiri al fine di ottenere un risparmio d’imposta.

La questione giuridica principale atteneva alla possibilità di contestare cumulativamente i due reati, ovvero alla necessità di ritenere il reato comune di truffa aggravata assorbito dalla fattispecie speciale prevista dalla normativa penal-tributaria.


3. Il principio di specialità e l’assorbimento del reato

Nel motivare la propria decisione, la Cassazione ha richiamato il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., sottolineando che, in presenza di una norma speciale, questa prevale su quella generale, impedendo la configurazione di un concorso apparente di norme.

Nel caso di specie, l’art. 2 del d.lgs. 74/2000 tipizza in modo completo ed esaustivo la condotta di falsificazione documentale finalizzata alla frode fiscale, contemplando anche l’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria. Pertanto, non vi è spazio per un’autonoma rilevanza penale del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, che resta assorbito nella più specifica figura del reato tributario.

«Il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato si considera assorbito nella fattispecie di cui all’art. 2 del d.lgs. 74/2000, quando l’induzione in errore dell’amministrazione finanziaria avviene mediante l’utilizzo di documentazione oggettivamente o soggettivamente falsa, al fine di conseguire un indebito vantaggio fiscale» (Cass. pen., Sez. III, n. 26355/2025).


4. L’indebito vantaggio fiscale e la lesione del bene giuridico

Dal punto di vista della struttura del reato, il delitto di truffa aggravata richiede l’induzione in errore di un ente pubblico con dolo specifico di profitto e un danno patrimoniale per lo Stato. Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che, nei casi in cui l’induzione in errore sia finalizzata esclusivamente ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, il bene giuridico leso sia integralmente tutelato dal reato tributario.

Ne deriva che la finalità fiscale costituisce un criterio di delimitazione del perimetro punitivo, escludendo l’autonomia del reato comune.


5. Concorso tra reato tributario e altri reati: i limiti

La sentenza in esame si inserisce nel solco tracciato dalla consolidata giurisprudenza della Cassazione, secondo cui il concorso tra reato tributario e reato di truffa è ammesso solo in presenza di ulteriori condotte fraudolente non esaurite nell’evasione fiscale, come nel caso di contributi pubblici indebitamente ottenuti mediante falsificazioni contabili. In assenza di tale plusvalenza fraudolenta, il reato di truffa non si configura autonomamente.


6. Considerazioni conclusive

La pronuncia della Corte di Cassazione n. 26355/2025 rafforza l’orientamento volto a preservare la tipicità e l’autosufficienza delle norme penal-tributarie, evitando sovrapposizioni punitive che violerebbero il principio del ne bis in idem e comprometterebbero la coerenza del sistema sanzionatorio.

Dal punto di vista sistematico, essa contribuisce alla definizione dei confini tra il diritto penale comune e il diritto penale dell’economia, affermando che la truffa aggravata ai danni dello Stato deve considerarsi assorbita dal reato tributario, quando l’illecito riguarda esclusivamente il rapporto fiscale.



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Cass. Pen., Sez. III, Sent. 26355/2025 integrale, in formato pdf:

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VIGILI DEL FUOCO: ANGELI GETTATI NELL’INFERNO DELL’ESPOSIZIONE CANCEROGENA

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Vigile del Fuoco esposto all’amianto di un edificio crollato in un terremoto.

Dietro la divisa dei vigili del fuoco si nasconde una verità che per anni è rimasta ignorata, sepolta sotto le macerie degli edifici crollati e tra i fumi degli incendi domati: un rischio mortale, silenzioso, ineluttabile.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha spezzato finalmente l’omertoso silenzio, riconoscendo ufficialmente ciò che molti temevano da tempo: la lotta antincendio è una delle professioni a più alto rischio cancerogeno.

Tale giudizio è il frutto di un approfondito studio dell’AIRCl’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro – che generato nuova luce sulla relazione tra esposizione all’amianto e l’insorgenza di tumori tra i vigili del fuoco.

Pertanto, i dati sono eloquenti: chi combatte contro le fiamme ha un rischio aumentato del 58% di sviluppare mesotelioma maligno, un tumore raro e aggressivo causato dall’esposizione a fibre di amianto.

Invero, fino a poco tempo fa, i vigili del fuoco erano inseriti nel gruppo 2B dell’AIRC, ovvero tra le professioni “possibilmente cancerogene per l’uomo”, dopo questo approfondito studio scientifico sono passati nel Gruppo 1, insieme ad agenti come l’amianto stesso, il fumo di sigaretta e il benzene: “cancerogeni certi per l’uomo”.

La riclassificazione è il risultato di una ricerca condotta da 24 scienziati provenienti da otto Paesi, le cui evidenze raccolte sono state inequivocabili: tra i vigili del fuoco si registrano tassi anomali non solo di mesotelioma, ma anche di cancro alla vescica.

Inoltre, sussistono inoltre prove limitate – ma non per questo trascurabili – dell’aumento di incidenza di tumori al colon, alla prostata, ai testicoli, al melanoma e al linfoma non-Hodgkin.

Il mesotelioma, lo ricordiamo, è una malattia lunga e subdola e il suo periodo di latenza può estendersi fino a 60 anni, rendendo quasi impossibile individuare con precisione il momento dell’esposizione.

Per i vigili del fuoco, tuttavia, la risposta è sotto gli occhi di tutti: incendi in vecchi edifici commerciali e residenziali costruiti prima del bando dell’amianto.

Fino agli anni ’90, questa fibra minerale era usata in tutto – dai pannelli isolanti ai tetti – per la sua resistenza al fuoco, ma quando le fiamme lo colpiscono, l’amianto si sbriciola e rilascia nell’aria fibre invisibili, tossiche, cancerogene e persistenti.

“Il rischio non è solo del passato (avvertono i ricercatori), ma anche oggi, con i moderni dispositivi di protezione, i vigili del fuoco continuano a essere esposti a sostanze chimiche tossiche, spesso in assenza di adeguate misure di decontaminazione post-intervento.”

Il riconoscimento ufficiale dell’OMS non è solo un fatto scientifico, si tratta di un passaggio epocale con ricadute concrete: giuridiche, previdenziali, sanitarie.

Quindi è un diritto costituzionale (ex art. 32 Cost.) chiedere il riconoscimento delle malattie professionali legate all’amianto nei vigili del fuoco e un rafforzamento delle tutele economiche e previdenziali.

Infatti, per molti ex vigili del fuoco la diagnosi di mesotelioma arriva quando è ormai troppo tardi, e le battaglie per il risarcimento si trasformano in estenuanti guerre contro lo Stato.

In finale, la domanda resta sospesa, amara, urgente: chi protegge chi ci protegge?

Mentre celebriamo il coraggio dei vigili del fuoco, occorre guardare oltre l’eroismo: occorre denunciare, tutelare, prevenire, soprattutto dopo l’accertamento di tutto ciò da parte della comunità scientifica.

A riprova e conferma di quanto finora esposto si riportano le analisi dell’esperto in materia Dott. Omero Negrisolo, il quale in modo chiaro e documentato rassegna degli studi scientifici sconvolgenti, inerenti alla ‘attività svolta dai vigili del fuoco:

<<Molteplici studi scientifici, validati dalla Comunità Scientifica Internazionale, dimostrano una pericolosità certa alla salute umana delle sostanze chimiche pericolose e degli agenti fisici pericolosi che comunque coinvolgono i Vigili del Fuoco durante le loro specifiche attività lavorative. Non a caso la IARC-WHO (International Agency for Research on Cancer – World Health Organization) ha realizzato ben due distinte Monografie sui Vigili del Fuoco (Firefighters) di tutto il mondo! La prima, la Monografia Volume 98 – pubblicata nel 2010 – nella sua “Overall evaluation” asseriva testualmente che: “Occupational exposure as a firefighter is possibly carcinogenic to humans (Group 2B)”; cfr. pagina 559. La seconda, la Monografia Volume 132 – pubblicata nel 2010, a distanza di tredici anni – e intitolata “Occupational Exposure as a firefighter”, nella sua “Overall evaluation” che asseriva testualmente addirittura: “Occupational exposure as a firefighter is carcinogenic to humans (Group 1)”. Sempre la IARC-WHO, nella sua “Lista di classificazione di neoplasie che colpiscono i Vigili del Fuoco” – ultimo aggiornamento del 27 giugno 2025, scrive “nero su bianco” che vi è sufficiente o limitata evidenza di insorgenza di neoplasie alla prostata, ai testicoli, al colon, alla pelle, alla vescica, nonché di insorgenza di mesotelioma alla pleura, al peritoneo “ed altri tessuti mesoteliali”. Inutile ricordare che ad oggi la IARC – WHO ha realizzato ben 136 Monografie su situazioni, lavorazioni, agenti fisici e sostanze chimiche che sono cancerogeni certi, o probabili, o possibili. La lista delle sostanze chimiche pericolose e degli agenti chimici e biologici pericolosi alle/ai quali possono essere esposti i Vigili del Fuoco durante le loro quotidiane attività è infinita e comprende almeno: amianto ed altre fibre, particulate matters (PM10, PM5, PM2,5 o anche minori), sostanze benzeniche, composti organici alifatici ed aromatici, composti organoclorurati e/o alogenati, metalli di ogni tipo, leggeri e pesanti, infiniti prodotti inorganici ed organici derivanti da combustioni comunque sempre incomplete: idrocarburi policiclici aromatici. diossine e sostanze “diossin-like”. Di conseguenza, anche tutte le malattie emolinfopoietiche (leucemie, mielomi, linfomi) insorte in Vigili del Fuoco possono con certezza essere valutate come causate da esposizione a “noises” specifici trattati dalla Comunità Scientifica Internazionale. Idem per tutte le neoplasie che comunque colpiscono tutti i tessuti umani. Da pochi anni, meglio, da dopo il 2013, si è iniziato a prendere in debita considerazione anche “il mondo dei PFAS: Per-and PolyFluorinated Alkilated Substances (Sostanze Alchilate Perfluorurate e Polifuorurate)”. Si tratta di sostanze impiegate negli ultimi cinquanta anni in migliaia di produzioni industriali ed applicazioni, le più svariate. L’elenco, mai esaustivo, comprende almeno fitofarmaci e pesticidi per l’agricoltura, farmaci, tessuti e loro impermeabilizzazione, applicazioni “antiaderenti”, contenitori di ogni tipo, anche peralimenti, sostanze estinguenti schiumogene (non a caso esistono molteplici studi sulle schiume antincendio e sui loro effetti subìti dai vigili del fuoco australiani). Comunque, appare di assoluta e quotidiana evidenza quanto “accade” durante e soprattutto dopo un incendio, di un fabbricato, di un veicolo, di un bosco, di una coltivazione agricola, di un accumulo di rifiuti, di un complesso artigianale o industriale! Appare sempre di grande problematicità gestire gli eluati provenienti dall’acqua di spegnimento, i fanghi che si formano, i sottoprodotti derivanti dalla combustione incompleta, le ceneri di vario tipo derivanti da combustioni a temperature medio-alte, ecc. Non da meno, necessita considerate il “Lavoro a Turni” (Shift-Work) ed il “Lavoro Notturno” (Night-Work) che inevitabilmente coinvolge sente il Vigiledel Fuoco, entrambi i tipi di lavoro sono stati oggetto di distinte Monografie IARC-WHO.

Se sei un vigile del fuoco (o un familiare) colpito da patologie asbesto-correlate, puoi contattarci per condividere la tua testimonianza e ricevere assistenza legale.

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“SOCIETAS“: IL RAPPORTO TRA CRISTIANESIMO, ISLAM, EBRAISMO

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Digitare per la visione integrale della puntata di SOCIETAS

Durante la puntata di Societas è intervenuto lo scrittore e ricercatore dell’Università Pontificia della Santa Croce, Gerardo Ferrara, con il quale si è affrontato lo storico tema, nonché alquanto attuale, del rapporto tra le tre religioni abramitiche: Cristianesimo, Islam, Ebraismo.

Il rapporto storico tra le tre religioni abramitiche — ebraismo, cristianesimo e islam — è complesso e articolato, caratterizzato da connessioni teologiche, influenze culturali, periodi di coesistenza pacifica e momenti di conflitto. Queste tre fedi condividono un’origine comune che risale alla figura del patriarca Abramo, da cui il termine “abramitiche”. Di seguito una sintesi storico-analitica:

1. Origini comuni

Abramo è considerato una figura fondante per tutte e tre le religioni: Nell’ebraismo, è il patriarca dell’alleanza con Dio. Nel cristianesimo, è visto come il padre della fede, anticipazione della fede cristiana in Cristo. Nell’islam, è riconosciuto come profeta (Ibrāhīm), modello di sottomissione a Dio. Le tre religioni credono in un Dio unico, creatore e giusto, e in una rivelazione progressiva, trasmessa tramite profeti (Mosè, Gesù, Maometto).

2. Ebraismo e Cristianesimo

Il cristianesimo nasce nel I secolo d.C. come movimento interno all’ebraismo, fondato sulla figura di Gesù di Nazareth, ebreo vissuto in Palestina sotto dominazione romana. La separazione tra ebraismo e cristianesimo si accentua: per la divinizzazione di Gesù, rifiutata dagli ebrei, per la predicazione ai gentili (non ebrei), per la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., che porta alla trasformazione dell’ebraismo in senso rabbinico e del cristianesimo in religione separata. Nei secoli successivi, si sviluppano tensioni: Accuse teologiche reciproche (es. “deicidio” da parte cristiana), Persecuzioni antiebraiche nel mondo cristiano, culminate in espulsioni, conversioni forzate, ghetti e, infine, nella Shoah.

3. Islam ed Ebraismo / Cristianesimo

L’islam nasce nel VII secolo nella Penisola Arabica. Maometto si considera l’ultimo profeta, in continuità con Mosè e Gesù. Il Corano riconosce e rispetta: Gli ebrei come “popolo del Libro”, I cristiani come “gente della Scrittura”, Ma critica anche le deviazioni dottrinali (es. la Trinità o la divinizzazione di Gesù). In molte società islamiche medievali (es. Spagna andalusa, Impero Ottomano), ebrei e cristiani godevano di un status protetto (dhimmi): inferiori giuridicamente ai musulmani, ma liberi di praticare la loro fede dietro pagamento di un tributo (jizya). Tuttavia, vi furono anche episodi di persecuzione e tensioni, specie in epoche di crisi politica o fanatismo religioso.

4. Conflitti e dialoghi

Conflitti

Le Crociate (XI-XIII secolo): campagne militari cristiane anche contro musulmani ed ebrei. La Reconquista e l’Inquisizione spagnola: conversioni forzate e persecuzioni di musulmani ed ebrei. In epoca moderna e contemporanea: conflitti legati alla questione israelo-palestinese, letti anche in chiave religiosa.

Dialoghi

Età medievale: momenti di dialogo filosofico e teologico (es. Maimonide, Averroè, Tommaso d’Aquino). XX-XXI secolo: intensificarsi del dialogo interreligioso, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II con la dichiarazione Nostra Aetate (1965), che riconosce le radici ebraiche del cristianesimo e promuove il rispetto verso l’islam. Oggi: numerose iniziative accademiche, religiose e diplomatiche per promuovere la tolleranza e il mutuo rispetto.

Conclusione

Il rapporto tra le tre religioni abramitiche è una storia intrecciata di comunanza e separazione, che riflette:

una radice spirituale comune, una divergenza dottrinale e storica, una sfida contemporanea di dialogo e coesistenza.

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DIRITTO DELLA CRISI: PRIME INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI SULLA “PASSERELLA” TRA CONCORDATO PREVENTIVO E COMPOSIZIONE NEGOZIATA

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Introduzione

Con l’introduzione dell’art. 25-quinquies nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il legislatore ha aperto nuovi scenari nella gestione della crisi d’impresa, superando il rigido divieto originario previsto dal D.L. n. 118/2021. Oggi è possibile, per l’imprenditore che abbia rinunciato a una procedura giudiziale (quale il concordato preventivo o la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione), accedere alla composizione negoziata della crisi dopo un periodo di attesa di quattro mesi, la c.d. quarantena.

Questo contributo analizza l’evoluzione normativa e le prime applicazioni giurisprudenziali, soffermandosi in particolare sull’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha offerto spunti significativi in tema di proponibilità dell’istanza ex art. 17 CCI in costanza del termine di “quarantena”.


L’art. 25-quinquies CCI e la “passerella” dalla procedura giudiziale alla composizione negoziata

L’articolo 25-quinquies del Codice della crisi d’impresa disciplina una importante apertura verso la flessibilità nella gestione del dissesto: dopo la rinuncia a una procedura giudiziale, il debitore può accedere alla composizione negoziata della crisi, purché sia decorso un termine minimo di quattro mesi.

La previsione legislativa rappresenta un significativo mutamento rispetto all’impostazione originaria del legislatore del 2021, che escludeva tale possibilità per ragioni di coerenza sistemica e di tutela della buona fede. Il presupposto originario era che l’accesso a strumenti come il concordato implicasse una valutazione negativa circa la praticabilità del risanamento, incompatibile con la natura stragiudiziale e fiduciaria della composizione negoziata.

Con la novella, invece, si riconosce il possibile mutamento delle condizioni economico-patrimoniali o strategiche dell’impresa, valorizzando la flessibilità e la tempestività nella ricalibratura degli strumenti di risanamento.


La giurisprudenza e il caso dell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (31 luglio 2024)

Una delle prime applicazioni giurisprudenziali di rilievo si rinviene nell’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 luglio 2024, che ha affrontato il tema della tempestività dell’istanza di nomina dell’esperto in presenza di una “passerella” anticipata rispetto al termine quadrimestrale.

La società ricorrente, pur consapevole del mancato decorso integrale del termine, ha dedotto il carattere non perentorio della scadenza e ha illustrato le ragioni sostanziali della rinuncia anticipata alla precedente procedura giudiziale: tra queste, l’emersione – a seguito del cambio dei consulenti – di un’ingente posta debitoria inizialmente omessa nel piano di concordato.

La scelta di accedere in via anticipata alla composizione negoziata è stata giustificata in funzione della tutela dei creditori e dell’esigenza di rimediare alle criticità della precedente impostazione, rese evidenti solo in una fase successiva.


La natura ordinatoria del termine quadrimestrale e i limiti all’eccezione di inammissibilità

Il Tribunale ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’istanza ex art. 17 CCI sollevata dai creditori, ritenendo che il mancato rispetto del termine di quattro mesi non potesse essere valutato in sede giudiziale. Trattandosi di una fase stragiudiziale, una simile valutazione avrebbe comportato l’introduzione di una sanzione processuale in una fase che, per sua natura, sfugge alla giurisdizione ordinaria.

Tuttavia, pur negando rilevanza giuridica al profilo processuale della tempistica, i giudici hanno ritenuto sostanzialmente legittima la condotta del debitore, valorizzando la rinuncia alla procedura giudiziale quale indice di affidabilità e razionalità del nuovo percorso negoziale.


Profili di buona fede e limiti all’abuso degli strumenti di regolazione della crisi

Il legislatore ha introdotto la c.d. “quarantena” per evitare che l’alternanza tra strumenti di regolazione della crisi sia usata abusivamente, con il solo fine di dilazionare il procedimento o evitare la dichiarazione di liquidazione giudiziale.

Il requisito della buona fede nell’accesso agli strumenti di composizione della crisi è fondamentale, non solo sotto il profilo etico, ma anche quale parametro di valutazione della serietà e sostenibilità del percorso di risanamento. Tuttavia, secondo il Tribunale sammaritano, l’inosservanza del termine quadrimestrale non comporta l’inammissibilità dell’istanza ai sensi dell’art. 17, ma può rilevare – eventualmente – solo nella successiva fase giudiziale (es. accesso al concordato semplificato), laddove emerga un comportamento strumentale o dilatorio del debitore.


Misure protettive e strumentalità rispetto alla trattativa

L’ordinanza in commento si chiude con la concessione delle misure protettive richieste dalla società debitrice, ritenute essenziali alla buona riuscita delle trattative in sede di composizione negoziata. Il Tribunale ha infatti affermato che il ricorso anticipato alla composizione negoziata, pur non perfettamente aderente al dato normativo, è giustificabile qualora appaia funzionale alla tutela del ceto creditorio e al riequilibrio dell’impresa.


Conclusioni

La “passerella” introdotta dall’art. 25-quinquies CCI rappresenta un’importante innovazione nell’ambito degli strumenti di risanamento d’impresa, consentendo un passaggio ragionato e strategico dalla procedura giudiziale a quella negoziale. Tuttavia, il rispetto del termine di quattro mesi deve essere letto non in termini rigidamente formalistici, ma alla luce dei principi di proporzionalità, buona fede e tutela dell’interesse dei creditori.

La pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si inserisce in questa nuova logica di favor per la composizione negoziata, riconoscendo che la flessibilità interpretativa, se ben motivata e ancorata a dati economico-finanziari concreti, può prevalere sul formalismo procedurale, rafforzando l’efficacia del sistema di regolazione della crisi.


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RESPONSABILITA’ SANITARIA: CASS. CIV., ORD. N. 17881/2025 RIBADISCE CHE IL LUCRO CESSANTE DEVE ESSERE RISARCITO, IN CASO DI ACCERTATA NEGLIGENZA MEDICA

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Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte Suprema interviene sulla corretta liquidazione del danno patrimoniale in ambito sanitario

In tema di responsabilità medica, il danno patrimoniale subito dal paziente non si esaurisce nel solo danno emergente, ma può includere anche il lucro cessante, ovvero il mancato guadagno derivante dalle conseguenze invalidanti di un errore sanitario. Con l’ordinanza n. 17881/2025, la Corte di Cassazione ha censurato la decisione della Corte d’appello che aveva negato il risarcimento del lucro cessante sulla base di un ragionamento giuridicamente errato.

⚖️ Il principio stabilito dalla Cassazione

Secondo la Sezione III civile della Suprema Corte, il giudice di merito non può escludere il risarcimento del lucro cessante derivante da responsabilità sanitaria con motivazione incongrua o fondata su un errato inquadramento giuridico.

“La Corte d’appello, in materia di responsabilità sanitaria, non può negare il lucro cessante sulla base di un ragionamento scorretto, inidoneo a escludere il nesso causale tra la condotta sanitaria colposa e la perdita di chance reddituali del danneggiato.”
(Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025)

📌 Cosa si intende per lucro cessante nella responsabilità sanitaria?

Il lucro cessante rappresenta quella componente del danno patrimoniale futuro che consiste nel mancato guadagno che il soggetto avrebbe potuto conseguire in assenza del fatto illecito. In ambito medico, si pensi al caso di un paziente che, a causa di una condotta colposa del sanitario, subisca una invalidità permanente tale da impedirgli di svolgere la propria attività lavorativa o da comprometterne significativamente il reddito.

🔍 Il caso concreto: vizio motivazionale e errore di diritto

Nel caso oggetto della pronuncia, la Corte territoriale aveva rigettato la domanda risarcitoria relativa al lucro cessante senza adeguata valutazione delle risultanze probatorie e senza applicare correttamente i criteri di liquidazione del danno patrimoniale. La Cassazione ha quindi accolto il ricorso della parte danneggiata, ritenendo la motivazione della sentenza impugnata illogica e contraria ai principi di diritto consolidati.

📚 Riferimenti normativi e giurisprudenziali

  • Art. 1223 c.c. – Il risarcimento del danno per inadempimento o fatto illecito comprende sia la perdita subita (danno emergente) sia il mancato guadagno (lucro cessante).
  • Art. 2043 c.c. – Responsabilità extracontrattuale.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 28989/2019 – Ha riconosciuto il diritto al risarcimento per perdita della capacità lavorativa specifica.
  • Cass. civ., Sez. III, n. 10424/2021 – Ha precisato che la perdita di chance reddituale costituisce danno patrimoniale risarcibile, anche in ambito sanitario.

🔎 Profili applicativi: il ruolo del giudice e la prova del danno

Secondo la giurisprudenza costante, il lucro cessante va dimostrato con ragionevole certezza, attraverso l’allegazione:

  • della capacità lavorativa specifica preesistente all’evento dannoso,
  • della incidenza dell’evento lesivo sulla possibilità di produrre reddito,
  • e della prognosi economico-funzionale del soggetto leso.

Il giudice deve quindi motivare in modo logico e coerente l’eventuale esclusione di tale voce di danno, senza basarsi su presunzioni generiche o su automatismi giuridici.

✅ Conclusioni

L’ordinanza n. 17881/2025 rappresenta un importante richiamo all’esigenza di tutela piena del danneggiato in ambito sanitario, imponendo al giudice di merito un rigoroso rispetto dei principi civilistici sul risarcimento integrale del danno.

Negare il lucro cessante in presenza di un danno documentato e causalmente collegato alla condotta medica colposa costituisce violazione del diritto alla piena riparazione, con conseguente vizio della motivazione e cassazione della sentenza.


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Cass., Sez. III civ., ord. n. 17881/2025 integrale, in versione pdf:

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PENALE: CASS. PEN., SENT. N. 26129/2025 CHIARISCE CHE LA DETENZIONE DOMICILIARE E LA MESSA ALLA PROVA POSSONO COESISTERE, CON PRESCRIZIONI COMPATIBILI

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La Suprema Corte chiarisce i rapporti tra misura alternativa e giustizia riparativa. Un passo importante verso l’efficienza dell’esecuzione penale

Detenzione domiciliare e messa alla prova non sono istituti necessariamente alternativi tra loro. Con la recente sentenza n. 26129 del 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Penale, ha affermato un principio di grande rilievo per l’applicazione pratica delle misure penali: le due misure possono coesistere anche se disposte in procedimenti distinti, a condizione che le relative prescrizioni siano armonizzabili.

Detenzione domiciliare e messa alla prova: cosa dice la Cassazione

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un soggetto stava eseguendo una detenzione domiciliare ex art. 47-ter dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), mentre in un altro procedimento penale aveva ottenuto la messa alla prova ai sensi dell’art. 168-bis c.p.. Il dubbio interpretativo riguardava la compatibilità operativa delle due misure: è possibile assoggettare un imputato a un programma di messa alla prova, che prevede attività esterne (lavoro di pubblica utilità, incontri con i servizi sociali, etc.), mentre questi si trova agli arresti domiciliari?

La risposta della Cassazione è positiva, purché venga effettuata una verifica concreta della compatibilità delle prescrizioni imposte con entrambe le misure.

🔍 Il principio giuridico: compatibilità delle prescrizioni

Secondo la Cassazione, non sussiste un’incompatibilità strutturale o automatica tra:

  • la misura alternativa della detenzione domiciliare (in esecuzione penale),
  • e la sospensione del procedimento con messa alla prova (nell’ambito di altro processo).

“È possibile dare esecuzione congiunta a entrambe le misure, a patto che le prescrizioni imposte siano concretamente compatibili e armonizzabili tra loro.”
(Cass. pen., Sez. I, sent. 26129/2025)

La valutazione di compatibilità spetta al giudice che dispone la messa alla prova, il quale dovrà accertare che le attività previste dal programma non violino le condizioni della detenzione domiciliare. In caso contrario, la misura riparativa non potrà essere concessa.

⚖️ Verso una giustizia penale più funzionale e flessibile

Questa decisione si inserisce nel più ampio contesto delle riforme del sistema penale volte alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio e alla promozione di modelli di giustizia riparativa, come previsto dalla riforma Cartabia (D.lgs. 150/2022).

La pronuncia valorizza i principi di:

  • economicità e funzionalità del processo,
  • favor rei nel ricorso a strumenti alternativi alla pena detentiva,
  • recupero e reinserimento sociale del condannato.

📚 Giurisprudenza correlata

La sentenza n. 26129/2025 trova conferma in altri precedenti, tra cui:

  • Cass. pen., Sez. I, n. 29947/2023, che ha ammesso la compatibilità tra messa alla prova e misure cautelari;
  • Cass. pen., Sez. I, n. 12205/2021, che ha ribadito la centralità dell’effettività del programma di messa alla prova.

🔎 Conclusioni

La Corte di Cassazione, con questa sentenza, offre una lettura sistematica e coerente dell’ordinamento penitenziario e della giustizia riparativa, in linea con i principi costituzionali di rieducazione della pena (art. 27, co. 3, Cost.) e di tutela del contraddittorio nel processo penale.

La compatibilità tra detenzione domiciliare e messa alla prova rappresenta un passaggio evolutivo nell’ottica di un sistema penale più umano, razionale e orientato al reinserimento.


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Cass. Pen., Sent. N. 26129/2025 integrale, in formato pdf:

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DIRITTO AMBIENTALE: LA CORTE EDU CONDANNA L’ITALIA PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE (ART. 8 CEDU)

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La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’inquinamento nella Valle dell’Irno

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Fonderie Pisano e inquinamento a Salerno: la CEDU condanna l’Italia per violazione del diritto alla vita privata


La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’inquinamento nella Valle dell’Irno: violato l’articolo 8 CEDU per mancata tutela della salute dei residenti.


Inquinamento industriale a Salerno: la CEDU condanna l’Italia per la violazione del diritto alla vita privata

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la mancata tutela dei cittadini residenti nei pressi delle Fonderie Pisano, impianto industriale attivo nella Valle dell’Irno, vicino Salerno. Con la sentenza L.F. e altri c. Italia (ricorso n. 52854/18), depositata il 6 maggio 2025, Strasburgo ha accertato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Una sentenza che fotografa un’emergenza ambientale dimenticata

La decisione della Corte si inserisce in un contesto di croniche emergenze ambientali italiane: dopo la storica pronuncia sulla Terra dei Fuochi (Cannavacciuolo e altri c. Italia, 30 gennaio 2025), la CEDU torna a puntare i riflettori su un altro caso emblematico di inazione statale di fronte a gravi rischi sanitari ed ecologici.

Nel caso specifico, i ricorrenti — 153 cittadini — vivevano a ridosso dell’impianto che produceva fino a 300 tonnellate al giorno in un’area divenuta nel tempo residenziale a causa di modifiche urbanistiche. Nonostante i ripetuti allarmi, esposti e ricorsi presentati nel corso degli anni, lo stabilimento non è mai stato delocalizzato. Al contrario, sono state autorizzate nuove costruzioni in quella stessa area contaminata.

Un’esposizione prolungata senza tutele né informazione

Secondo la Corte, le autorità italiane erano perfettamente a conoscenza dei rischi ambientali connessi alla permanenza delle Fonderie Pisano in quell’area urbana densamente popolata. Tuttavia, non sono state adottate misure efficaci né sono state informate le popolazioni coinvolte. Solo a partire dal 2016 sono iniziati dei monitoraggi ambientali, ma i dati raccolti non sono stati resi pubblici fino al 2021, impedendo ai residenti di difendersi adeguatamente.

Uno studio del 2021 ha confermato la gravità dell’inquinamento e la maggiore incidenza di patologie respiratorie, cardiovascolari e neurologiche nella popolazione residente nel raggio di 6 chilometri dallo stabilimento.

Perché non è stata riconosciuta la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita)?

I ricorrenti avevano denunciato anche la violazione dell’articolo 2 CEDU, affermando di aver subito danni alla salute documentati da analisi mediche che attestavano la presenza di metalli nel sangue e gravi patologie correlate. Tuttavia, la Corte ha ritenuto non sufficientemente provato il nesso causale diretto tra inquinamento ambientale e insorgenza delle malattie, in base allo standard di prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” richiesto per l’articolo 2.

Diverso il discorso per l’articolo 8, dove è sufficiente dimostrare che l’inquinamento abbia avuto un impatto significativo sulla qualità della vita. E così è stato.

La responsabilità dello Stato: mancata prevenzione e inefficacia normativa

La Corte ha sottolineato che l’Italia ha fallito nell’adozione di misure positive, come richiesto dall’articolo 8 CEDU. Ha permesso lo sviluppo urbanistico in aree inquinate, non ha proceduto alla delocalizzazione dell’impianto, e ha mantenuto un quadro sanzionatorio inadeguato almeno fino all’entrata in vigore della legge n. 68 del 2015 sui reati ambientali.

Nonostante la consapevolezza della situazione, le misure adottate sono arrivate troppo tardi e non hanno avuto effetti riparatori sui danni già subiti dai cittadini.

Il precedente Di Sarno e la continuità giurisprudenziale

La decisione si inserisce nel solco tracciato dalla sentenza Di Sarno e altri c. Italia (2012), nella quale la Corte aveva riconosciuto che un grave deterioramento ambientale può costituire una violazione dell’articolo 8, anche in assenza di un rischio immediato per la salute. L’elemento centrale è l’impatto sulla qualità della vita.

Nel caso di Salerno, Strasburgo ha ritenuto che le prove indirette e le presunzioni accumulate — comprese le perizie giudiziarie e i dati epidemiologici — bastino per dimostrare una compromissione sostanziale del benessere dei residenti.

Nessuna sentenza pilota, ma obbligo di attuazione

I ricorrenti avevano chiesto l’adozione di una sentenza pilota, stante l’elevato numero di persone coinvolte. Tuttavia, la Corte ha scelto di non imporre misure generali, lasciando allo Stato italiano la libertà di determinare come conformarsi alla sentenza, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione.

Anche la richiesta di 20.000 euro per danni morali è stata respinta: per la Corte, la semplice constatazione della violazione rappresenta un’equa soddisfazione.


Conclusioni: un’Italia fragile sul fronte della giustizia ambientale

Il caso delle Fonderie Pisano conferma quanto la tutela dei diritti fondamentali sia ancora vulnerabile nei contesti di emergenza ambientale in Italia. La pronuncia di Strasburgo non è soltanto un atto di accusa verso la gestione locale e nazionale del territorio, ma anche un monito: la tutela dell’ambiente è un diritto umano fondamentale.

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Nel vuoto di risposte efficaci, la CEDU diventa sempre più spesso l’unico presidio di giustizia per cittadini esposti a rischi ambientali gravi e sistemici.


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PENALE – FALLIMENTO: CASS. PEN., SEZ. V, SENT. N. 25825/2025 CHIARISCE CHE IL REATO È UNICO SE LA DICHIARAZIONE È UNICA

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Introduzione

Con la sentenza n. 25825/2025, la Corte di Cassazione penale affronta una questione fondamentale in materia di reati contro la fede pubblica e, in particolare, di dichiarazioni mendaci e uso di documenti falsi: quando più documenti contengono la stessa dichiarazione, si configura un reato unico o una pluralità di reati?

La Corte ribadisce un importante principio di diritto: se la dichiarazione è unica, il reato deve essere considerato unico, a prescindere dal numero dei documenti su cui essa è materialmente riprodotta. Si esclude quindi il concorso materiale tra più reati, riconoscendo l’unitarietà della condotta criminosa.

Il caso: una dichiarazione, più documenti

Nel caso esaminato, l’imputato aveva reso una dichiarazione mendace, che era stata poi riprodotta in più documenti distinti. Il giudice di merito aveva ritenuto sussistente una pluralità di reati di falso, ritenendo che ciascun documento costituisse una autonoma offesa all’interesse tutelato.

La difesa, ricorrendo in Cassazione, ha sostenuto che si trattava di una condotta unitaria, articolata su più supporti documentali ma riferibile a un’unica manifestazione di volontà o conoscenza.

La decisione della Corte: unicità del fatto

La Cassazione accoglie il ricorso, affermando che:

“In tema di falsità ideologica, va esclusa la pluralità di reati quando la dichiarazione mendace è unica, anche se viene riprodotta su più documenti. In tal caso si configura un reato unico, trattandosi di una condotta unitaria sotto il profilo oggettivo e soggettivo.”

La motivazione si fonda su due pilastri:

Unità della dichiarazione: ciò che rileva è l’unicità della condotta lesiva, ossia la falsa rappresentazione della realtà compiuta in un unico momento o contesto decisionale. Concorso apparente di norme: in presenza di più norme astrattamente applicabili, si applica solo quella che regola in modo più specifico il fatto, evitando duplicazioni sanzionatorie non giustificate.

Conseguenze giuridiche

La sentenza ha un impatto significativo:

Evita il cumulo sanzionatorio in caso di condotte unitarie, impedendo una duplicazione artificiosa dei reati. Ribadisce il principio di offensività, secondo cui non rileva il numero di supporti cartacei, ma l’effettiva lesione dell’interesse tutelato (in questo caso, la fede pubblica). Si inserisce nel solco di giurisprudenza che tende a ricondurre a unità reati formalmente plurimi, quando essi si fondano su una medesima volontà antigiuridica (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 20161/2017; Cass. pen., sez. VI, n. 3845/2022).

Applicazioni pratiche

Questa pronuncia può avere ricadute rilevanti nei seguenti ambiti:

Falsità nelle dichiarazioni fiscali, previdenziali o amministrative. Autocertificazioni contenenti dati mendaci ripetuti su più moduli o allegati. Falsi in sede di appalti pubblici, dove la stessa dichiarazione viene inserita in diversi elaborati.

Conclusioni

La sentenza n. 25825/2025 della Corte di Cassazione rappresenta un importante punto di riferimento in tema di concorso apparente tra reati di falso. Essa invita gli operatori del diritto e i giudici a valorizzare l’aspetto qualitativo della condotta – l’unicità della dichiarazione – piuttosto che il dato meramente quantitativo rappresentato dalla pluralità dei documenti.

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Fonti

Cass. pen., Sez. V, sentenza 25825/2025 Art. 81 c.p. – Reato continuato Art. 476 e ss. c.p. – Falsità materiale e ideologica in atto pubblico Art. 49 e 51 c.p. – Concorso apparente di norme

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Cass. Pen., Sez. V, Sent. N. 25825/2025 integrale, in formato pdf:

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PENALE: QUADRO NORMATIVO E GIURISPRUDENZIALE DELLA RESPONSABILITA’ PENALE AMBIENTALE

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Reati previsti dal D.Lgs. 152/2006 e dal Codice Penale


1. Cos’è la responsabilità penale ambientale

La responsabilità penale ambientale riguarda l’attribuzione di responsabilità a persone fisiche (e, in alcuni casi, anche giuridiche) per condotte che violano norme a tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e della salute pubblica.

Essa trova fondamento sia in disposizioni codicistiche (come gli articoli 434 c.p. o 452-bis e ss. c.p.) sia nella normativa speciale, in particolare nel Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006), nonché in normative europee recepite in Italia.


2. I reati ambientali nel Codice Penale

Con la Legge 68/2015, il legislatore italiano ha introdotto nel Codice Penale un nuovo Titolo VI-bis, rubricato “Dei delitti contro l’ambiente”, che comprende:

  • Art. 452-bis c.p. – Inquinamento ambientale
    Reato che punisce chi cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque, dell’aria, del suolo o degli ecosistemi.
  • Art. 452-quater c.p. – Disastro ambientale
    Sanziona alterazioni irreversibili dell’equilibrio di un ecosistema o effetti particolarmente estesi o duraturi dell’inquinamento.
  • Art. 452-quinquies c.p. – Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività
  • Art. 452-sexies c.p. – Impedimento del controllo
    Reato residuale che colpisce chi ostacola o elude controlli ambientali da parte delle autorità pubbliche.

Questi reati si caratterizzano per la loro struttura complessa e per l’uso di concetti tecnico-scientifici (es. “deterioramento misurabile”) che richiedono accertamenti peritali.


3. La normativa speciale: D.Lgs. 152/2006

Il Testo Unico Ambientale contiene numerose disposizioni penali, soprattutto in tema di:

  • Scarichi idrici illeciti
  • Emissioni in atmosfera non autorizzate
  • Gestione illecita di rifiuti
  • Bonifiche non eseguite o falsamente dichiarate
  • Violazioni delle prescrizioni AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale)

Molti di questi illeciti sono contravvenzioni, ma possono concorrere con i delitti previsti dal Codice Penale, generando un sistema composito e talvolta di difficile lettura.


4. Soggetti responsabili: posizione di garanzia e principio di effettività

Come chiarito dalla Cassazione n. 25731/2025, la responsabilità penale ambientale si fonda sulla titolarità di una posizione di garanzia, che può derivare da:

  • Investitura formale (datore di lavoro, dirigente ambientale, legale rappresentante)
  • Esercizio di fatto delle funzioni (principio di effettività)

Deve essere dimostrata la concretezza del potere-dovere di controllo e di gestione del rischio ambientale. Non basta una carica formale: serve l’effettiva possibilità di prevenire l’evento lesivo.


5. Responsabilità delle persone giuridiche (D.Lgs. 231/2001)

Per alcuni reati ambientali è prevista anche la responsabilità amministrativa dell’ente (impresa o società), se:

  • Il reato è stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente
  • L’autore è un soggetto in posizione apicale o sottoposto a direzione altrui
  • L’ente non ha adottato efficaci modelli organizzativi di prevenzione

Questo meccanismo amplia la sfera di tutela penale, richiedendo alle imprese una compliance ambientale rafforzata.


6. Orientamenti giurisprudenziali recenti

La giurisprudenza ha affermato che:

  • La mera titolarità di una qualifica aziendale non è sufficiente per configurare la responsabilità penale, se non è accompagnata dall’effettivo esercizio di poteri decisionali (Cass., Sez. III, n. 25731/2025).
  • In caso di gestione collettiva dell’azienda, la responsabilità può essere ripartita tra più soggetti, ma richiede l’accertamento della sfera di controllo di ciascuno.
  • L’imprudenza nella gestione dei rifiuti o delle emissioni può integrare anche il reato di disastro ambientale, se gli effetti sono gravi e diffusi.

7. Conclusioni

La responsabilità penale ambientale si fonda su un equilibrio tra la necessità di tutelare beni primari come ambiente e salute pubblica e la corretta individuazione delle responsabilità individuali.

L’evoluzione normativa e l’interpretazione giurisprudenziale – come dimostrato dalla sentenza n. 25731/2025 – pongono al centro il principio di effettività, imponendo un’attenta verifica del ruolo concreto del soggetto nella gestione delle attività pericolose.


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Cass. Pen., Sez. III, Sent. n. 25731/2025 integrale, in formato pdf:

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REATI TRIBUTARI: CASS. PEN., SENT. N. 25599/2025

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Con la sentenza n. 25599/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di reati tributari: per poter accedere al patteggiamento (ex art. 444 c.p.p.), è necessario che il debito tributario risulti integralmente estinto prima dell’apertura del dibattimento.


⚖️ Il principio stabilito dalla Cassazione

Secondo la Suprema Corte:

“L’ammissione al rito del patteggiamento è subordinata alla prova dell’estinzione del debito d’imposta, comprensivo di imposte, sanzioni e interessi, intervenuta in epoca antecedente all’apertura del dibattimento di primo grado.”

Ciò significa che la regolarizzazione fiscale deve avvenire tempestivamente, e non è sufficiente l’impegno al pagamento o un piano di rateizzo in corso.


📌 Perché è importante estinguere il debito prima del dibattimento?

La ratio della norma è quella di premiare chi collabora con l’erario e ripristina spontaneamente la legalità tributaria, evitando processi lunghi e costosi. In assenza di estinzione del debito, non è possibile beneficiare del rito premiale, né di eventuali riduzioni di pena collegate.


📝 Conclusioni

La sentenza n. 25599/2025 della Cassazione conferma l’orientamento rigoroso in materia di patteggiamento nei reati fiscali: l’estinzione del debito deve essere completa, documentata e tempestiva. Gli imputati e i difensori dovranno quindi verificare puntualmente lo stato dei pagamenti prima di avanzare una richiesta ex art. 444 c.p.p.


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Cass. Pen., Sent. n. 25599/2025 integrale, in formato pdf:

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